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Macbettu

MACBETTU di Alessandro Serra: il teatro antico si risveglia in Sardegna

Scrivere di Macbettu di Alessandro Serra, il 17 e 18 giugno in cartellone al Festival delle Colline Torinesi può sembrare un compito facile. Macbettu è uno spettacolo riuscito sotto tutti i punti di vista e questo aldilà dei gusti teatrali e delle posizioni estetico/critiche.

Ma questa supposta semplicità nasconde molte insidie. Innanzitutto quella di non trasformare la recensione in un’ennesima lode al Macbettu, che sarebbe inutile quanto ridondante. Mi sono chiesto se non fosse meglio stare zitti.

In seconda battuta scrivere una recensione non è compilare una pagella. Deve essere un discorso utile al pensiero sulla scena al di là del gusto personale. Mi piace pensare che una recensione sia talvolta simile a una diagnosi medica. Si interroga il corpo vivo del teatro cercando i sintomi non tanto di una malattia, ma di uno sviluppo, una mutazione genetica, una trasformazione.

Macbettu è muto. Non dà segnali in questo senso. Pare come un corpo estraneo in quello presente del teatro. Ha un che di antico, profondo nella notte dei tempi, più che essere genesi di qualcosa di contemporaneo e attuale. Parla una lingua ancestrale e non mi riferisco al sardo. Intendo proprio una lingua vicina all’origine del mondo, quando le voci della natura erano quelle degli dei. In questo senso il lavoro di Alessandro Serra è inattuale.

Tutto in Macbettu richiama le forze ctonie, telluriche, titaniche. È un qualcosa di dimenticato, appartenente più al rito antico, dimenticato perché sepolto dalle dinamiche familiari, dai drammi psicologici e interiori, il salotto borghese, la camera da letto, la scatola cranica come luogo del delitto. Macbettu parla di altro, così come la tragedia di Shakespeare di cui in fondo è traduzione. Macbettu parla degli elementi che scuotono le fondamenta dell’essere e ne mettono in crisi la solidità.

Alessandro Serra ha portato Macbeth in Sardegna, l’ha trasformato in Macbettu iniettandogli il sangue antico dell’isola: i suoi suoni, gli oggetti, i materiali, tutti richiamo alla terra e alle sue forze.

I suoni innanzitutto sono segno potente. Fin dall’inizio. Quella di una lamiera scossa e percossa nel buio, onda di suono che avanza e ti investe a ancora non è successo nulla. Il pane carasau che si sgretola sotto le scarpe del fantasma di Banquo, ossa sgretolate, crosta dell’essere, scheletro del mondo. Le pietre sonore, il grufolio dei porci, lo stridere delle unghie sul ferro, i campanacci. Sono le forze della terra, i suoni dell’anima nera che s’agita sotto il velo di civiltà che abbiamo creato per nasconderla.

Gli oggetti di scena: le pietre, cuscino dei pastori e dei briganti, di chi deve avere il sonno leggero, di chi ha ucciso il sonno. Il sughero delle maschere, semplici cortecce che sembrano facce di demoni, il bosco di Birgham che avanza verso il Macbettu che è dentro di noi.

Ma se Macbettu fosse solo un viaggio etnografico o antropologico sarebbe poco più di un esperimento riuscito di applicazione di scienze umane al teatro. Alessandro Serra riesce a recuperare, grazie all’anima sarda antica e profonda, lo spirito ancestrale del teatro come rito che esorcizza le forze oscure, le rende visibili e osservabili, conoscibili. Restano incontrollabili ma per un momento le guardiamo negli occhi e conosciamo qualcosa di più di noi stessi.

Le luci, fioche, mai abbaglianti, quasi sempre piogge, contro luci, tagli bassi, sagomatori che ritagliano isole luminose nelle tenebre che incombono. La scena spoglia, in povertà elisabettiana, risalta l’oggetto di scena mai insignificante o trascurato, il gesto si staglia, ogni segno diventa alfabeto oscuro e magico, perfino la polvere che si innalza da terra.

Alessandro Serra riesce a restituire lo spirito primigenio contenuto nella tragedia di Shakespeare, serpente perfido che si annida nelle nebbie di Scozia così come nelle assolate pietre della tragedia greca. In Sardegna per un poco si risveglia, torna alla vita, mostra il suo volto antico e potente.

Se si può trarre un insegnamento da questa operazione Macbettu è che, forse, si può riscoprire dietro la maschera del teatro di rappresentazione, una ricerca rivitalizzante dove il testo non è pretesto ma spunto di indagine per riscoprire l’anima antica del teatro, quella sciamanica, rituale, evocativa.

I personaggi e le storie non sono qualcosa da interpretare, un fare finta di essere qualcos’altro, quanto un dar vita a delle forze, un agire magico e oscuro che risveglia demoni antichi sepolti sotto la corazza della civiltà.

Alessandro Serra credo faccia proprio questo. Non ambienta in Sardegna una tragedia scozzese, l’isola non è mera tappezzeria, non è recupero di un esotismo che abbondava nell’Ottocento e nel primo Novecento, è luogo altro, misterioso, dove ogni cosa può accadere.

Macbettu per ora è una meteora nel panorama teatrale italiano. Un filone di ricerca per ora unico che non deve dare adito a ingiustificati ottimismi. La situazione della ricerca teatrale italiana rimane desolante. Possiamo rallegrarci che nonostante tutto sia apparsa questa cometa che in qualche modo indica una via di non mera soggiacenza al testo scritto, quanto un darle corpo con l’anima potente del teatro.

Una scena che non è comizio, né frutto dell’ansia di comunicare, di dar voce a istanze personali, quanto un luogo in cui evocare forze misteriose che si agitano nel cuore di ognuno di noi. Una scena che non si banalizza per piacere alle moltitudini, e diventa forte perché parla la sua lingua, utilizza i suoi mezzi e le sue potenzialità.

Ph: @Alessandro Serra

Milo Rau

EMPIRE di Milo Rau ovvero la coscienza delle funzioni del teatro

Ho incontrato per la prima volta Milo Rau qualche anno fa al Festival de la Batie a Ginevra. Mi ha subito colpito la sua lucidità e la sua coscienza di cosa fosse il teatro, le sue possibili funzioni, la sua valenza politica e sociale.

Recentemente l’ho incontrato a Venezia nella sede del Consolato Svizzero per la presentazione del suo The Congo Tribunal, in anteprima nazionale, e ancora una volta abbiamo avuto una lunga conversazione sulle funzioni della scena.

Per Milo Rau il teatro è una forma di indagine dei punti critici e focali della nostra civiltà occidentale. Esplorando i limiti della scena sonda le criticità della nostra società. La crisi affrontata dalla scena, con i mezzi propri del teatro, insieme alla comunità/pubblico che è chiamata a prendere posizione.

Questo avviene non solo nei suoi lavori in cui si richiama esplicitamente la forma tribunale, e mi riferisco a The Moskow Trials oltre che a The Congo Tribunal, ma anche in Five Easy Pieces, Hate Radio, The Breivik’s Statement, Le 120 giornate di Sodoma e, ovviamene, in Empire, in questi giorni in scena al Festival delle Colline Torinesi.

Questo utilizzo del teatro come strumento di analisi di una crisi richiama da una parte la tragedia greca (non dimentichiamo che l’Orestea sancisce la nascita di un tribunale) e il teatro antico e rituale, dall’altra la tradizione di teatro politico di matrice tedesca non solo brechtiana.

Certo la formazione sociologica e antropologica di Milo Rau lo indirizza su questa strada, ma nell’adottare la forma teatro cerca di applicare all’etimo antico una funzione attuale e moderna. Il luogo da cui si guarda, il teatro, è un supporto insostituibile di analisi sociale e politica delle crisi. Innovazione che si innesta nella tradizione.

La coscienza di Milo Rau di una funzione fondante del teatro è premessa necessaria alla sua efficacia e qualità. Materiali e tecniche si adoperano per esaltare una funzione che è sempre politica e non solo artistica o estetica. Analisi della realtà per essere in grado di agire sulla realtà. Presa di coscienza della crisi per superare la crisi.

Empire è esattamente questo. A cosa è dovuta la migrazione? Chi è colui che giunge alle nostre frontiere e quali storie porta con sé? Quattro attori, un siro-curdo, un siriano, una rumena di origini ebraiche, un greco e quattro situazioni estreme: la guerra civile in Siria, la Romania di Ceausescu, la Grecia della Dittatura dei Colonnelli. Tutti e quattro sono attori e tutti sono emigrati da una situazione critica, di guerra o di regime dai propri paesi d’origine.

L’esperienza teatrale e l’esperienza di vita dei quattro attori sono lo specchio con cui guardare alla storia e al fenomeno migrazione. Quando una persona lascia il suo paese cosa e chi abbandona? Cosa lo spinge a un gesto estremo di sradicamento? Cosa avviene al suo arrivo in un nuovo contesto che spesso è ostico alla sua integrazione? Cosa trova al ritorno dall’esilio?

Queste le domande che vengono formulate in Empire, questioni che vengono affrontate con i racconti delle proprie esperienze di vita. L’astrattezza della guerra civile siriana che ci appare con immagini di incredibile e insostenibile violenza alla TV sono distanti e digitali. Le vite dei testimoni sulla scena è reale, presente, vera e vitale.

La cella della prigione di Palmira dove Remo è stato incarcerato, la voce dell’ultimo messaggio della madre di Rami, morta senza poter essere abbracciata per un’ultima volta, i ricordi degli spari sulla folla durante la rivoluzione rumena che ha portato alla caduta di Ceausescu, sono elementi di realtà che stanno di fronte a noi e che ci obbligano a una riflessione sul fenomeno dei migranti al di fuori di una pericolosa astrazione.

Ma vi è anche una sorta di distacco brechtiano. Quando Rami ci mostra le foto dei morti torturati nelle prigioni di Bashar Al Assad tra cui gli sembra di riconoscere il fratello Abdo scomparso da anni, avviene una sorta di transfert con il pubblico. Quel fratello non può in fondo essere anche nostro fratello? Quello che è avvenuto a Rami non potrebbe avvenire anche a noi? Quell’incertezza nel riconoscere un congiunto è straziante ma anche significativa. L’esperienza di Rami potrebbe essere anche la nostra.

Così come il ritorno a casa di Agamennone dopo la guerra di Troia, parole tratte dall’Orestea e che chiudono Empire. L’eroe greco ringrazia gli dei per la vittoria e il ritorno, ma non sa che un fosco destino si sta addensando sul suo capo. Dopo quelle parole, inizia la tragedia. Nel lontano passato come oggi il cielo potrebbe caderci in testa in ogni momento. E se non vi è più un fato inviolabile, certo resta la colpa della responsabilità dei crimini e delle guerre, e di come noi trattiamo le vittime dei conflitti che cercano aiuto e asilo dopo aver tutto perduto.

In questi giorni dove sembra che le masse anonime dei migranti non siano altro che un fastidio da eliminare, si perde di vista che una massa è fatta di uomini, che il loro partire è generato da dolore, sofferenza, perdita, distruzione, e che accogliere l’ospite è dovere di ogni uomo perché in lui potrebbe essere nascosto un dio.

Milo Rau esplora la scena sondandone i limiti. Ci conduce verso l’estremo con una delicatezza non priva di fermezza. Ci obbliga a guardare l’orrore, a prenderne coscienza e a prendere partito. Non si può restare indifferenti. Bisogna agire e scegliere.

Il teatro di Milo Rau è teatro del reale che incide sul reale. È uno dei pochi artisti in Europa che ha questa capacità di incidere che deriva da una coscienza delle possibilità e delle funzioni del teatro. Conosce il suo mezzo e sa come assoggettare le sue leggi affinché possa parlare al mondo del mondo in maniera efficace.

La sua non è una fredda analisi. È qualcosa di dirompente che tocca l’animo e porta a una commozione struggente. Quella madre che muore, quel fratello torturato, quella famiglia che si è perduta potrebbe essere la nostra. È la nostra. Ne siamo responsabili. Quei migranti su una nave non sono in crociera. Scappano da un orrore che è causato dal nostro benessere.

In The Congo Tribunal questo è palese. Le miniere di Coltan sono la causa dei conflitti e dei massacri. Ogni volta che mandiamo un messaggino su What’s up dovremmo esserne coscienti. Il rischio è perdere l’umanità. Milo Rau ci porta a riflettere su questo, ci fa prendere coscienza, ci induce a ritrovare l’umanità che stiamo perdendo.

Ph: @Marc Stephan

Massimo Sgorbani

CAUSA DI BEATIFICAZIONE: di Massimo Sgorbani con Matilde Vigna regia di Michele di Mauro

La tempesta di Giorgione, proiettata sul fondale, accoglie lo spettatore in questa Causa di Beatificazione di Massimo Sgorbani per la regia di Michele di Mauro, in prima nazionale al Festival delle Colline Torinesi.

 

Nel dipinto vi è racchiuso molto del significato di questo lavoro di Massimo Sgorbani. Una donna quasi interamente svestita allatta un bambino e rivolge il suo sguardo verso l’osservatore. A sinistra un uomo appoggiato a un bastone, che solo apparentemente sembra una lancia, guarda la donna. Tra i due, una coppia di colonne spezzate. Nella parte alta del quadro, le mura di una città su cui incombe una nuvolaglia nera scossa da un fulmine. La tempesta sta arrivando.

Il dipinto del Giorgione è una delle opere più enigmatiche e misteriose della storia dell’arte, e in questa sede non interessano le sue svariate interpretazioni, quanto le sue implicazioni rispetto all’opera di Massimo Sgorbani: una donna osserva ed è osservata, quasi completamente nuda, mentre alle sue spalle si sta scatenando la violenza degli elementi. Il quadro è stato dipinto con tutta probabilità immediatamente prima dello scoppio della Guerra della Lega di Cambrai nel 1507. Le forze dello scacchiere italiano stavano coalizzandosi contro Venezia. La guerra stava per scoppiare.

Resta un altro elemento da segnalare prima di analizzare l’allestimento di Michele Di Mauro interpretato da Matilde Vigna: le memorie mistiche di Angela da Foligno, morta nel 1309. Le sue estasi mistiche parlano di un amore di Dio che squarcia il corpo della santa, lo strappa in pezzi, ne disperde le viscere. L’amore che squassa il corpo, la divinità che usa violenza era già dei greci per i quali l’intervento divino era sempre assimilabile allo stupro.

Causa di Beatificazione di Massimo Sgorbani è un trittico di canti con protagoniste tre donne: una prostituta kossovara, una kamikaze palestinese, e Angela da Foligno che nel testo di Sgorbani precede e nell’allestimento di Michele Di Mauro chiude.

Tre donne, tre esperienze mistiche. Le due donne contemporanee vivono la tempesta della guerra, ne subiscono nella carne le violenze: una costretta alla prostituzione, giovane madre di un figlio avuto da un soldato delle forze di pace, abbandonata e a sua volta costretta ad abbandonare il bambino; la seconda sterile, ripudiata dal marito, infermiera di bambini deturparti dalle ferite di guerra, che diventa kamikaze per divenire santa al cospetto del profeta.

Violenza, tempesta, e lo sguardo perforante di un uomo, che le spinge ad intraprendere un percorso violento e mistico. Lo sguardo che fa violenza è di tutti, è nostro come pubblico e come società, ma è anche del teatro che è pur sempre Teatron, il luogo da cui si guarda.

L’allestimento di questo testo di Massimo Sgorbani, duro, feroce, in qualche modo brutale sceglie l’abbondanza quasi bizantina. Una vera proliferazione di segni, di immagini, oggetti, e musiche che ingombrano la scena saturando la retina dell’osservatore. La violenza dello sguardo combattuta con la sovrabbondanza dei segnali.

Da una parte un testo che disegna un trittico violenza che diventa porta per una beatificazione controversa, dall’altra una scena barocca, densa quasi come un film di Greenaway. Due linee compositive che si aggregano in una fitta armonia che in alcuni casi diventa ridondanza di segnale.

L’interpretazione di Matilde Vigna è convincente, commovente, senza mai cadere nell’affettazione accademica. Vi è un che di naturale, credibile nel suo dire che è pur sempre poetico, di tono elevato e lirico, mai superficiale. Al suo fianco una sorta di servo di scena, che all’inizio, come l’uomo nel dipinto di Giorgione guarda la donna, a fianco della scena, con un lungo spazzolone al fianco, e che per tutta la durata dello spettacolo, diventa servo di scena e occhio che guarda all’interno della rappresentazione.

Causa di Beatificazione di Massimo Sgorbani è, nell’allestimento di Michele Di Mauro, un teatro di parola e di testo con una regia che prova ad affiancare all’opera drammaturgica un linguaggio scenico che agisce in armonia provando a non essere didascalico non sempre riuscendoci. Benché sia comprensibile il cumulo di segnali in relazione alla violenza visiva, si sente in molti punti la necessità di asciugare e raffinare. Sembra, in alcuni tratti, una scena in perpetuo affanno rispetto al testo, un tentativo di riuscire a stargli alla pari.

Causa di beatificazione è comunque un lavoro intenso, che pone molte domande volutamente lasciate aperte e senza risposte. Quello compete al pubblico, alla sua riflessione. È l’occhio che vede che modifica il reale, è l’occhio che vede che ferisce ciò che viene visto. A lui l’onere di interpretare o, meglio, comprendere ciò che graffia e lacera.

Davide Carnevali

INTERVISTA A DAVIDE CARNEVALI

Davide Carnevali è uno dei grandi drammaturghi del teatro del presente. Dopo aver visto il suo Ritratto di donna araba che guarda il mare, in programma al Festival delle colline torinesi, lo abbiamo incontrato in questa intervista per parlare di alcuni aspetti inerenti alla rappresentazione di un testo teatrale.

Enrico Pastore: Cosa ti ha spinto a scrivere per il teatro?

Davide Carnevali: Sono arrivato al teatro un po’ per caso. Fin da piccolo volevo scrivere ma non sapevo cosa. Un po’ come tutti ho iniziato a scrivere piccoli racconti all’età di quindici, sedici anni. Poi ho incontrato una persona, la mia ragazza dell’epoca, che faceva un corso da attrice e per causa sua ho incominciato a interessarmi al teatro. Lei mi chiese di scriverle qualcosa per lei, e quindi cominciai per amore. Avevo vent’anni e non pensavo minimamente che ne avrei costruito una carriera. Il teatro ha cominciato interessarmi sempre più tanto che gradualmente ho abbandonato l’idea della letteratura per dedicarmi sempre di più alla scrittura per la scena.

Enrico Pastore: Ti faccio una domanda che apparentemente è simile ma in realtà no: perché scrivere per il teatro o, meglio, perché usare la scena come supporto alla parola scritta? Cosa regala il teatro alla parola che altri media non riescono a dare?

Davide Carnevali: Il teatro è l’unica arte che permette allo spettatore di esperire lo scontro tra il corpo e la parola. Il teatro crea la possibilità di evocare un’immagine mentale e nello stesso tempo permette che si manifesti qualcosa visivamente e corporalmente. Questa manifestazione fisica può entrare in risonanza, in accordo con la parola che l’ha evocata o anche e persino smentirla, e quindi deformare l’immagine mentale che si forma nello spettatore. Questo è l’aspetto più interessante per me.

Il teatro è arte della manifestazione fisica non della parola o, per meglio dire, lo scenario dello scontro tra logos e manifestazione fisica. La cosa interessante è che nel momento in cui qualcosa di concreto, come il corpo del performer o semplicemente un accadimento sulla scena, si manifesta davanti allo spettatore entrando in disaccordo con la parola che l’ha evocato, questo fenomeno mostra chiaramente e fa fare esperienza allo spettatore dell’insufficienza del linguaggio nel descrivere la realtà.

La cultura occidentale è logica, si fida del linguaggio e vi ha cercato sicurezza e riparo. Il teatro invece serve proprio a questo: a non portare sicurezza. E il teatro non fa tanto comprendere a livello intellettuale la rimessa in discussione del reale e l’impossibilità del logos, quanto piuttosto attraverso un’esperienza vitale.

Questa per me è stata la scoperta più interessante della scrittura per il teatro. Una scrittura che ha la possibilità da un lato di concretizzarsi in letteratura teatrale, di essere cioè un’opera autonoma nel momento in cui la scena scompare, facendosi appunto letteratura e non teatro; dall’altra di avere sempre una seconda vita nel momento in cui entra in contatto proprio con la scena che la mette in discussione e in contraddizione. Questa è la vera scrittura per il teatro e quello che cerco di fare è di conciliare queste due anime diverse di una testo teatrale. Da un lato la sua autonomia come testo letterario, dall’altra la sua insufficienza costante che si manifesta sulla scena.

Enrico Pastore: Sono parole queste che sorprendono da parte di un drammaturgo, soprattutto oggi dove sembra rinasca un teatro che rinuncia alla sua autonomia di linguaggio per il testo. Io mi sono sempre scontrato con questa mentalità convinto che il teatro sia una linguaggio artistico autonomo in cui il testo è uno dei materiali disponibili e nella messa in scena può anche venire forzato, sventrato, ricomposto, violato, e che si possa agire su di esso per contrasto e contrappunto più che in una modalità traduttiva o didascalica.

Davide Carnevali: Questo dipende anche dal modo in cui un testo è scritto. Ci sono testi che ti offrono questa possibilità e altri invece che chiudono l’ipotesi di messa in scena. La grande letteratura teatrale fino alla fine dell’Ottocento sostanzialmente è stata una letteratura di chiusura. Obbligava a un tipo di messa in scena che noi abbiamo chiamato naturalista o di teatro borghese o teatro di quarta parete. E noi abbiamo, stranamente, identificato il teatro con quel tipo di letteratura quando in realtà è molto di più. Il Novecento a partire dalle Avanguardie storiche lo ha dimostrato. Se poi invece pensi agli spettatori innocenti, chiamiamoli così, come potrebbe essere mia zia, pensano ancora che il teatro sia quello di una messa in visione di ciò che è scritto.

Enrico Pastore: io noto anche che vi sia una sorta di reazione, di ritorno al teatro come messa in scena fedele di un testo. E questo soprattutto in Italia, come una sorta di rinuncia ad approfondire la ricerca della lingua autonoma del teatro dove il testo è solo uno dei materiali possibili a disposizione della creazione scenica.

Davide Carnevali: Un problema è anche la formazione dei registi, degli autori e degli attori. Spesso lo sperimento con i miei allievi quando insegno e posso dirti che non è un fenomeno solo italiano. È difficile per loro comprendere quando un testo prepara la scena e quando no, che cosa richiede un testo dal punto di vista attoriale. Ovviamente non tutte le operazioni sono buone con tutti i materiali. Ci sono testi che smontati e rimontati perdono la loro sostanza. Ce ne sono altri invece che richiedono proprio questa opzione. È necessario che nasca questo incontro felice tra autore, regista e attori, che tutte le parti siano coscienti di cosa si può fare con quel materiale fino addirittura a richiedere un nuovo materiale.

Enrico Pastore: In relazione a questi argomenti di cui stiamo parlando tu come drammaturgo come ti poni durante l’allestimento quando la parola scritta diventa viva? In che modo partecipi, se pur vi partecipi, al processo che porta alla messa in scena?

Davide Carnevali: Dipende molto dalle circostanze. Io per anni ho semplicemente scritto e, tra l’altro, stando lontano dall’Italia. Il primo obbiettivo in questi anni è stato quello che il testo fosse rappresentabile nel più ampio contesto possibile. In differenti paesi e in differenti contesti culturali. Praticamente tutti i miei testi sono stati rappresentati prima fuori dall’Italia. Questo prevede una scrittura che mi tiene lontano dalla scena. Non voglio occuparmi dei problemi della scena in quel momento. Spesso le didascalie dei miei testi sono difficilmente rappresentabili, ma quello non è mai stato un problema se si lavora di immaginazione. Questa è stata un’opzione.

In alcuni casi ci sono stati registi che mi hanno chiesto di scrivere un testo per uno specifico progetto. In questo caso ho lavorato più in combutta con il regista anche nella pianificazione del progetto scenico.

Nelle ultime esperienze invece ho cominciato io a mettere in scena i miei testi Gli ultimi lavori che hanno debuttato negli ultimi mesi, La maleducazione transiberiana al Franco Parenti e Ritratto dell’artista da morto, che ha debuttato settimana scorsa a Monaco, in questi due casi ho scritto pensando che l’avrei messo in scena io. Il mio rapporto con la scrittura era quindi radicalmente differente. In entrambi i casi conoscevo già gli attori che l’avrebbero fatto e come. Ho cercato comunque di risolvere i problemi registici già nel processo di scrittura, cercavo di crearmi il minor numero di problemi possibili.

Enrico Pastore: ti faccio quindi una domanda inaspettata ma per me interessantissima: come regista tu come ti poni nei confronti dei tuoi testi? Che tipo di regia metti in campo?

Davide Carnevali: Che io metta in scena i miei testi non significa che io sia un regista. Non lo sono, non ho l’esperienza, non ho le competenze tecniche. I due esperimenti di quest’anno sono stati molto interessanti e importanti per me. Maleducazione transiberiana è stata una riproduzione di un modello di produzione che io conosco per aver vissuto in Argentina. Ho vissuto per un periodo a Buenos Aires è sono entrato in contatto con il teatro off argentino in cui si fa con molti pochi soldi, pochi mezzi registici, spettacoli leggeri dal punto di vista scenotecnico e questo non è dovuto solo alla mancanza di fondi quanto anche dal fatto che le sale programmano nella stessa sera due o tre spettacoli. Sono spettacoli quindi già pensati per essere montati in mezz’ora.

La mancanza di fondi poi prevede un lavoro di produzione molto spalmato in un tempo in cui l’attore fa altri lavori o altre collaborazioni perché deve guadagnarsi da vivere. I tempi di lavorazione per questo motivo superano l’anno, a volte anche due. Il mio spettacolo quindi è nato seguendo un po’ questo modello, attraverso un periodo di residenze, partendo da un mio monologo Peppa Pig prende coscienza di essere un suino che si è evoluto pezzo per pezzo, assemblandosi.

Un altro aspetto interessante del modello argentino è che spesso gli autori sono anche registi se non addirittura attori dei propri testi. Vige l’arte di arrangiarsi e quindi il mio percorso è stato improntato un po’ a questo stile. Un sorta di viaggio di formazione.

Nel caso quindi di Maleducazione transiberiana è stato attuato un modello di regia che si fa insieme agli attori, smontando e rimontando il testo in funzione di ciò che loro fanno sulla scena, seguendo quindi le loro esigenze.

In Germania invece è tutto un altro mondo produttivo. Innanzitutto è un incarico di un festival. la Muncher Biennale, in coproduzione con la Staatsoper Unter der Linden di Berlino, quindi con un capacità di produzione e con un budget, disponibilità tecniche e risorse umane imparagonabile a quello fatto in Italia.

In Germania poi il ruolo del regista è molto diverso, sempre affiancato da un dramaturg che cura molti aspetti del testo dalla comunicazione al pubblico, al programma di sala, alla revisione scenica nella verbalizzazione con l’attore.

Enrico Pastore: Parlando di Ritratto di donna araba che guarda il mare si ha quasi l’impressione che vi sia un nucleo autobiografico: qual è la genesi di questo testo? Qual è la sua intenzione, l’urgenza che porta?

Davide Carnevali: C‘è sempre un nucleo autobiografico. La vita dell’autore entra sempre nell’opera volente o nolente, implicitamente o esplicitamente. È un testo molto diverso da quello che scrivo solitamente. Tendo a utilizzare di più il registro comico. Mi interessava fare un esperimento sul linguaggio seguendo un po’ il modello francese. Penso a Claudel, Koltes, Camus. È un po’ quella l’atmosfera. Ritratto di donna araba che guarda il mare a livello formale è una storia molto semplice. Non c’è una grande sperimentazione formale sia rispetto al personaggio che all’andamento della storia. C’è un andamento cronologico lineare, con dei personaggi con una certa psicologia elementi con cui solitamente non lavoro, anzi spesso vado contro il concetto di identità, di coerenza, di sviluppo cronologico.

È un lavoro nato da un’altra esigenza, quella di lavorare sulla poeticità del linguaggio, su certe atmosfere derivate da esperienze personali, da un viaggio che io ho fatto in Marocco dove ho cominciato proprio a scrivere questo testo.

Enrico Pastore: In parte mi hai già risposto: come drammaturgo hai delle stelle polari che in qualche modo ti guidano o ispirano?

Davide Carnevali: Per me è stato fondamentale portare avanti la carriera accademica. Ho conseguito un dottorato in teoria del teatro all’Università di Barcellona e di Berlino. Lo studio dal punto di vista della critica e della teoria del teatro è stato fondamentale. In realtà le suggestioni e le ispirazioni sono venute da molte parti. Penso allo studio della storia dell’arte, soprattutto le avanguardie storiche. In verità si tratta sempre di un problema della rappresentazione della realtà. Quel è la visione del mondo che si trasmette. E questo non è solo un problema che riguarda la drammaturgia.

Ph: @Pino Montisci

Agrupacion Señor Serrano

AGRUPACION SEÑOR SERRANO: Birdie, muoversi o morire

Sul palco dell’Astra per il Festival delle Colline Torinesi giunge il collettivo catalano Agrupacion Señor Serrano con Birdie, finissima e ironica riflessione sulla migrazione.

Ho già incontrato una volta Agrupacion Señor Serrano assistendo al loro Katastrophe, dove centinaia di orsetti gommosi sperimentavano ogni possibile devastazione e cataclisma, e sono rimasto affascinato dalla loro padronanza di composizione degli elementi e materiali di scena.

In Birdie questa fascinazione si è accentuata. Per qualcuno potrebbe non essere nemmeno teatro. Non ci sono attori ma semplici performer, esecutori di compiti, che si aggirano sulla scena come solleciti e silenziosi servi di scena; per lunga parte del lavoro ci troviamo di fronte a un video e a una voce fuori campo; gli oggetti costruiscono, più che una scenografia, una vera e propria istallazione.

Eppure siamo di fronte al teatro nel senso proprio del suo etimo: Teatron, il luogo da cui si guarda. Ogni singolo gesto, segnale, materiale è composto in una lingua multiforme e complessa che si esplica come riflessione sul mondo e la sua complessità.

Il tema è la migrazione svolta secondo una serie di domande a cui noi siamo chiamati a meditare e a trovare ognuno la propria risposta.

Birdie di Agrupacion Señor Serrano è un complesso gioco di incastri e rimandi. Come in una sinfonia non vi è nota superflua che non sia suonata al momento giusto in accordo con quella di altri strumenti.

Analizziamo i materiali e in seguito le tecniche per giungere alle funzioni. Abbiamo un luogo, Melilla, città spagnola sulle coste del Marocco. Enclave europea sulla frontiera dei flussi migratori provenienti dall’Africa, circondata da un muro altissimo di reti e fili spinati.

Abbiamo un film, Gli uccelli di Hitchcock, e una domanda: perché quei volatili in perpetua migrazione ci fanno così paura? Esemplare l’immagine dei corvi appollaiati sul castello di ferro sovrapposta a quella dei migranti a cavalcioni della grande muraglia di rete di Melilla.

Sulla scena, un piccolo modello di campo da golf con tanto di bandierina sul cui green centinaia di animaletti di plastica in marcia verso un dove che non importa, è il movimento a essere segno. È inarrestabile.

Sul lato sinistro della scena dei tavoli su cui compaiono una serie di oggetti che vengono ripresi da alcune telecamere e compongono con le immagini proiettate una complessa narrazione fatta per immagini e voce fuori campo.

Sul lato destro su un tavolo una figura di spalle con un K-Way rosso, come uno dei migranti nella foto.

Ora passiamo alle tecniche di composizione di Agrupacion Señor Serrano. Faremo qualche esempio per non rovinare il gusto di vedere uno spettacolo intenso e perturbante. Innanzitutto il nome: Birdie, termine che a due significati. Da una parte uccellino, dall’altra è termine golfistico che indica un punteggio di uno sotto il par.

Il golf e la migrazione dunque. Come si incastrano? Ecco una foto dove due giocatori di golf sul campo di Melilla, osservano i migranti appollaiati sulla rete tenuti d’occhio dalla Guardia Civil. Tra i migranti quello con il K-Way rosso.

Quest’immagine viene finemente e fittamente analizzata. Dai tavoli ripresi dalle telecamere si preparano oggetti esplicativi: i nomi delle piante provenienti da più parti del mondo, oggetti prodotti in altrettanti luoghi lontani, lo spazio di visione rapportato a opere d’arte, e come un’opera d’arte vengono palesati punti di visone, fughe, strutture compositive, sezioni auree.

Un’immagine, mille segnali. I rimandi da un segno a un altro stanno a noi, rimbalzano per tutta la scena, dal video, agli oggetti, alle persone, ai suoni. Ogni piccolo particolare è segno in un disegno complesso e nello stesso tempo leggero, ironico, devastante come una granata.

Secondo esempio delle tecniche di montaggio delle attrazioni utilizzato da Agrupacion Señor Serrano. Prima scena: le telecamere inquadrano il tavolo colmo di oggetti: un pacchetto di sigarette, un obbiettivo fotografico, un giornale, un cellulare che squilla. Una voce fuori campo ci racconta del risveglio del fotografo Palazon, autore della foto in seguito analizzata. Appare quindi un giornale che viene sfogliato, Le notizie sono analizzate e dissezionate in profondità o per contrasto. Grafici si sovrappongono alle figure del giornale: flussi migratori, flussi di denaro, movimenti di materie prime. Oppure alla notizia di un’attrice che ringrazia per gli auguri di compleanno tramite un tweet, ecco che appare il logo di twitter con l’uccellino. E poi a quella dell’anniversario dell’uscita de Gli Uccelli, ecco la foto di Tippi Hedren nel film a cui è sovrapposta quella odierna con sul braccio appollaiato un uccello.

Segnali che si aggiungo a segnali, una foresta che si forma sotto i nostri occhi. Ogni cosa ne rimanda a un’altra, in un mondo dove tutto è legato e parla la sua lingua propria in una sinfonia mirabilmente composta.

Veniamo dunque alle funzioni di Birdie di Agrupacion Señor Serrano. Il teatro proposto dal collettivo catalano non è una narrazione in senso tradizionale, seppur un filo narrativo sia presente ma come pretesto più che come fine. Non vi è interpretazione né rappresentazione. Abbiamo sulla scena dei semplici esecutori, e qualora vi siano figure sulla scena diventano parte di un contesto significante in quanto frasi di un linguaggio complesso (es. l’uomo in rosso seduto immobile che richiama la foto).

Agrupacion Señor Serrano utilizza dunque il teatro come sopporto per una riflessione sul mondo. Non vi sono ricette per guarire dai problemi, anzi vi è una costante messa in questione delle certezze e dei luoghi comuni su cui si basa la società europea. Le paure che scatena il fenomeno migratorio vengono osservate al microscopio. L’ironia e il linguaggio pop, leggero e divertente, amplificano e non sminuiscono il senso di precarietà delle nostre certezze. La scena finale in cui gli animaletti precipitano nella buca da golf dopo la loro lunga marcia non è per niente rassicurante seppur leggera.

Il teatro di Agrupacion Señor Serrano è dunque un’arma del pensiero. La scena è un mezzo raffinato di osservazione e riflessione sul mondo in cui gli autori non antepongono la loro visione, ma porgono semplicemente delle domande alla comunità/pubblico su cui riflettere insieme.

Il teatro in Birdie di Agrupacion Señor Serrano parla la sua propria lingua senza alcuna soggiacenza rispetto a un testo o a un messaggio. Pone domande esaltando la sua funzione di sguardo privilegiato sul mondo. È il gran teatro del mondo con tutte le sue contraddizioni.

Il teatro di Agrupacion Señor Serrano è anche composizione di materiali o, come direbbe Ėjzenštejn, montaggio delle attrazioni. Tutto concorre a parlare, a significare, in un incastro senza fine e sempre ricombinabile. È scrittura scenica nella sua magnificenza, quella che stiamo perdendo sotto il maglio di un insorgente populismo culturale.

Il teatro è forte se parla questa lingua è possiede una chiara funzione diventando grimaldello per la comprensione del mondo. Una riflessione comunitaria che consegna le chiave per un’indagine sul reale e le sue contraddizioni. Non risposta semplicistica e confortante ma gragnola di domande che mette in crisi le certezze assodate.

Ph: @Roger Costa

Roberto Zucco

ROBERTO ZUCCO: di Bernard Marie Koltes, regia di Licia Lanera

La prima volta che vidi Roberto Zucco fu alla Biennale del 1995 per la regia di Lluis Pasqual alle Corderie dell’Arsenale. Ci andai perché ricordavo, seppur vagamente, quell’uomo sul tetto del carcere di Treviso. Su Youtube si trovano ancora stralci di filmati di repertorio della Rai. Mi incuriosiva la sua storia.

Mi innamorai di quel testo impregnato di solitudine, intriso di contagio e di peste, una corsa verso l’abisso, un viaggio di sola andata. Roberto Succo, il serial killer dagli occhi di ghiaccio per tutti noto come Roberto Zucco, proprio grazie al testo di Koltes, suo ultimo prima della morte del 1989, diventa una figura mitica, un terremoto che scuote le fondamenta della civiltà e diffonde intorno a sè una gragnola di domande urgenti.

La vicenda di Roberto Succo si sviluppa dal 1981, anno in cui uccise i due genitori, fino al 1988 quando si suicidò nel carcere di Vicenza soffocandosi con un sacchetto di plastica e una bomboletta di gas butano. In mezzo l’ospedale psichiatrico, la fuga, la Francia e la Svizzera, gli omicidi (ben 5!), gli stupri, l’arresto e il nuovo tentativo di fuga con la conferenza improvvisata sul tetto.

La società normale cercò di archiviare la vita di Succo sotto definizioni da medicina psichiatrica: schizofrenia paranoide. Tutto qui? Gli artisti non si sono accontentati e il cherubino nero è diventato Roberto Zucco, una figura su cui continuare a riflettere (oltre al testo di Koltes messo in scena da grandi registi negli ultimi trentanni da Peter Stein ad Andrea Adriatico, ne è stato tratto un film in concorso a Cannes nel 2001).

Koltes con Roberto Zucco ha scritto un testo per il teatro densamente poetico, lirico, sublime e tremendo come dovrebbe essere una tragedia.

Qualcuno si sarà accorto che non ho ancora cominciato a parlare dell’allestimento di Licia Lanera. Non c’è molto da dire. Tutto il materiale che riguarda questa vicenda, e non parlo solo del testo, rimane sepolto sotto una coltre di macchiette, faccette, smorfiette, nudi inutili, tautologie ancora più inutili (esempio: al riferimento testuale sui rinoceronti mettere in scena un rinoceronte a grandezza naturale è solo ridondante e non aggiunge nulla, e questo è solo l’esempio più evidente ma se ne potrebbero fare tanti altri), balletti e musichette.

Mentre guardavo lo spettacolo continuava a tornarmi in mente la scena della locura in Boris, quando gli sceneggiatori spiegano a Renè Ferretti cosa necessita Occhi del Cuore per sfondare: la locura appunto. E cos’è? :”la tradizione ma con una bella spruzzata di pazzia. Il peggior conservatorismo che però si tinge di pazzia, di colore, di paillettes”,

Un testo e un materiale straordinario ed esplosivo disinnescato da una semplificazione banale, e scioccamente caricaturale per sembrare giovani e pop quando invece si tratta di un allestimento del tutto conforme ai canoni tradizionali di una rappresentazione interpretativa. Facciamo finta di essere moderni solo perché ci infiliamo qualche bella immagine mischiata col trash, Jeff Buckley e Jannacci.

Non c’ molto altro da dire. Come dice lo sceneggiatore in Boris: “un’immagine di un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Roberto Zucco poteva e meritava di essere qualcos’altro.

Ph. @Ilgazzettino

Liv Ferracchiati

INTERVISTA A LIV FERRACCHIATI

Il Festival delle Colline Torinesi si è aperto con la Trilogia dell’identità di Liv Ferracchiati, un giovane autore e regista che ha saputo ritagliarsi uno spazio importante nel panorama italiano. In questa intervista abbiamo parlato del suo teatro, del suo lavoro e dei suoi progetti.

Enrico Pastore: Come sei giunto al teatro? Quanto hai cominciato a sentire sentire l’esigenza di usare la scena come mezzo espressivo/creativo?

Liv Ferracchiati: È un mio modo di mettere a fuoco, un tentativo di metabolizzare.

Il primo approccio avviene sempre con la scrittura, con la parola.

Una parola che utilizzo come strumento per ricostruire la realtà, sopravviverla.

Il teatro che faccio io ha a che fare, credo, con la disperazione e l’ironia e non sono d’accordo quando viene detto che l’ironia non mostra che la distanza e che la leggerezza “è poca cosa”, può apparire così ad uno sguardo superficiale.

L’ “atto ironico”, per me, è preceduto dalla disperazione più totale. Misurare il reale, anche nei suoi aspetti più tragici e antinomici, rovesciarlo ed elaborarlo per contrasto è un atto disperato, intrinsecamente poetico

Enrico Pastore: Che tipo di teatro hai in mente, intendo a livello registico/compositivo, o per meglio dire, che tipo di teatro vuoi/vorresti costruire?

Liv Ferracchiati: In realtà, ho la profonda convinzione che non esista solo un tipo di teatro possibile. Ogni progetto richiede una ricerca nuova e, quindi, una nuova elaborazione di linguaggio. Credo di volermi prendere la libertà di “vagare”, di non confezionare ogni volta lo stesso prodotto. Ho molti progetti in mente, così tanti che a volte mi scopro a pensare: speriamo di non morire prima.

Ognuno di questi sarà un incontro/scontro con il materiale creativo che, suppongo, porterà in direzioni diverse, magari anche opposte. Quello che rimane invariato, come mi sembra accada anche per la “Trilogia sull’Identità”, è il sostrato.

Enrico Pastore: C’è un autore o un nucleo di autori teatrali, parlo di registi o pensatori di teatro, più che drammaturghi che ispirano il tuo lavoro sulla scena?

Liv Ferracchiati: Dovrei ripercorre a ritroso buona parte della mia vita per identificare quali siano stati gli autori teatrali (e non), conosciuti, visti o letti, che hanno influenzato un dato momento del mio fare teatro, ma credo sia poco utile nominarne alcuni.

Se dovessi però pensare al primo testo che mi viene in mente: direi “Il teatro delle marionette” di Heinrich von Kleist, con l’aneddoto del giovane che perde tutta la grazia nel tentativo di ripetere un movimento riuscito per caso in cui aveva raggiunto la bellezza dello Spinario, la statua greca. La voce narrante, nel testo, dialoga con con un danzatore e gli dimostra come le marionette abbiano più grazia dei danzatori stessi, di fatto perché sono “senz’anima”, inconsapevoli quindi.

Anche gli attori possono raggiungere quel grado di inconsapevolezza, quel momento di pura grazia, per chi agisce e chi guarda, in cui accade davvero qualcosa di non facilmente identificabile.

Una dimensione che viene immediatamente sfasciata dal pensiero razionale o dal tentativo di replica.

Non ha che fare con l’immedesimazione, è un essere mossi dalla scena, come appunto accade ad una marionetta, è qualcosa con sé e, insieme, al di fuori di sé.

Richiede la presenza di attori in grado di essere lucidi eppure immersi interamente nel gioco scenico.

Enrico Pastore: Assistendo alla trilogia mi sembra che vi sia una sorta di immedesimazione estraniata nell’attore, una sorta di mix, – passami il paragone – tra Stanislavskij e Brecht. Come si svolge dunque il tuo lavoro con l’attore? In che modo si passa dalla drammaturgia alla scena viva?

Liv Ferracchiati: Ogni spettacolo ha una sua modalità di approccio al lavoro con l’attore. Ad esempio, in Stabat Mater ho chiesto alle attrici di stare “a lato” del personaggio, di non lasciare mai che l’immedesimazione prendesse il sopravvento.

È però un’indicazione concettuale, che ci siamo detti all’inizio e sulla quale si è anche molto scherzato, perché, di per sé, non è un concetto recitabile.

Credo che un attore poi se ne dimentichi, quello che crea quest’effetto è il dover seguire il ritmo del testo e, insieme, la drammaturgia dei sottotesti. Quello che viene detto appare semplice e quotidiano, ma c’è dietro un lavoro complesso, prima in scrittura e poi nella riscrittura con gli attori. Per riscrittura intendo proprio la direzione dell’attore che è per me l’ultima stesura del testo. Da una parte si lavora sul ritmo, sulle frazioni di secondo negli attacchi o negli stop di una battuta, sugli accenti, ha a che fare con la musicalità, dall’altra si inquadra la situazione di ogni scena, si ricerca la sfumatura più minimale di un’intenzione, si provano le reazioni con dei tempi naturali e poi si dimezzano per renderle a servizio del tempo teatrale. Ogni battuta viene prima studiata al microscopio e poi scolpita nel dettaglio. Nemmeno un respiro è casuale nei miei spettacoli, ma dentro queste rigide griglie l’attore è libero. Sembra un paradosso, ma non essendoci gesti prestabiliti o toni dati, il lavoro funziona solo se si è davvero presenti e in ascolto perché, ogni volta, i segmenti si spostano di qualche millimetro. La bravura sta nel tenere questa fragilissima struttura fatta di suono, tempo e reazioni emotive in equilibrio.

Per Un eschimese in Amazzonia il lavoro è stato diverso seppure con delle somiglianze, abbiamo lavorato soprattutto sulla musicalità ed è stato il testo che, insieme al tema di ogni “link”, suggeriva i movimenti del Coro. Per il terzo capitolo, infatti, si è trattato di una scrittura scenica collettiva a partire dalla drammaturgia testuale che scrivevo io durante le prove e che poi veniva verificata subito dopo. Abbiamo rinunciato al codice interpretativo sia per me, ossia per l’Eschimese, che si trova ad improvvisare e a giocare con un linguaggio che si avvicina alla stand-up comedy, sia per il Coro che parla all’unisono, che quasi si limita a dire e basta, senza intonazione, come un unico corpo agente e parlante. Diversamente i monologhi dell’Eschimese non sono mai stati scritti, ci sono degli appuntamenti prestabiliti, ma ogni volta tutto viene improvvisato da zero.

Enrico Pastore: Mi sembra che nella vostra compagnia, The baby walk, siate molto uniti e formiate una sorta di comunità teatrale. Come è nata la compagnia e quali sono, se vuoi dirlo, i vostri progetti futuri?

Liv Ferracchiati: La compagnia è nata nel 2014, ufficialmente nel 2016, e si è formata intorno al primo capitolo della “Trilogia sull’Identità”. All’interno del gruppo ci sono ormai le dinamiche che ci sono in una famiglia, nel bene e nel male.  The Baby Walk è prima di tutto un gruppo, ma composto da delle personalità piuttosto forti.

Greta Cappalletti, è un’autrice, ma spesso nel lavoro con me è la dramaturg, mi aiuta nella concezione del progetto e, quando è quella la modalità, strutturiamo insieme le improvvisazioni per ampliare e verificare il testo. Laura Dondi è interprete, coreografa e costumista, spesso aiuto regia, con lei è fondamentale il confronto  nell’elaborazione del progetto e nel filtrare il magma di materiale istintivo che io  ogni volta metto in gioco.

Alice Raffaelli, seppur in un lavoro corale come il nostro, è la protagonista della Trilogia, in lei ho trovato un’intelligenza teatrale rara che spesso riesce a realizzare quel binomio di lucidità e inconsapevolezza di cui parlavo sopra. Linda Caridi, è un’attrice di estrema sensibilità e raffinatezza, con una tecnica invidiabile che, però,  adopera a favore della complessità emotiva del suo personaggio.

Chiara Leoncini, interprete abile sia nel registro comico che in quello tragico, è stata la prima attrice della compagnia con cui ho lavorato, il progetto è stato poi acquisito da TBW, era Ti auguro un fidanzato come Nanni Moretti.

Gli attori che lavorano in compagnia, così come i danzatori, sono tutti anche autori del proprio personaggio. Giacomo Priorelli è tecnico e ideatore luci, sempre aperto al confronto con me, presta il suo immaginario poetico agli spettacoli. Lucia Menegazzo, la scenografa, che spesso mi odia, perché scelgo di non usare nulla in scena, ma dalle cui suggestioni si sono anche sviluppate delle idee drammaturgiche, com’è successo per Todi is a small town in the center of Italy. Andrea Campanella che fin dall’inizio ha avuto il ruolo di documentare con riprese video l’elaborazione del progetto. Rispetto ai progetti futuri non posso parlarne ancora, per adesso ci concentriamo sulla Trilogia appena finita.

Io sto lavorando ad un nuovo testo, il cui titolo è al momento Prova Aperta, sui meccanismi della creazione, inizierà le prove tra cinque giorni, lo spettacolo sarà prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria.

Piccola Compagnia Dammacco

PICCOLA COMPAGNIA DAMMACCO: La buona educazione

La buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco presentata in questi giorni al Festival delle Colline Torinesi è l’ultimo capitolo de La Trilogia della fine del mondo i cui primi capitoli sono L’inferno e la fanciulla ed Esilio.

Serena Balivo interpreta una donna sola, che ha deciso di non avere figli, e a cui piace la sua solitudine. Improvvisamente la sorella muore e deve occuparsi del nipote, ultimo rampollo ed erede della famiglia.

Come fare? Ma soprattutto: è possibile veramente influenzare, impostare, indirizzare o perfino coltivare la vita di un altro? Questa la domanda che viene riformulata di continuo, come un rovello, un tarlo instancabile, per tutto lo spettacolo.

In questo salotto retrò ingombro di oggetti che richiamano un lontano passato, la donna, vestita anch’essa con abiti d’altri tempi, severa e un po’ polverosa, riflette ossessivamente sul suo ruolo rispetto al giovane nipote che non la capisce. Nemmeno lei comprende il linguaggio costituito di soli verbi all’infinito del ragazzo, e cereto non i suoi sogni e i suoi desideri.

Il conflitto è però espulso dalla scena. Lo indaghiamo da un’unica fonte, ironico e perdente unico verso di una medaglia che comunque ha due facce. La scena è ingombra di ciò che pertiene a chi è sconfitto dal nuovo che è assente, fantasma anch’esso come il più lontano passato.

Il salotto, affollato di manichini, i fantasmi dei familiari che ossessionano le notti della donna, diventa come una sorta di ultimo rifugio, unico luogo dove far correre i pensieri e provare a mettere un argine all’incomprensione. Un’ultima e inutile fortezza vuota. Il ragazzo ha deciso di vivere altrove, correre altri lidi. Non lo vediamo mai ed è significativo.

Brava ed efficace Serena Balivo. Il tono ironico, leggermente surreale, con cui viene affrescata la vita in comune della donna e del ragazzo, due mondi che convivono ma non si capiscono, sgrava l’atmosfera di cupezza e oppressione. L’ironia salva una storia che non ha fine o conclusione. Potrebbe ripetersi all’infinito. Le generazioni si susseguono senza capirsi e non si capiranno mai perché abitano due presenti contrapposti, quello che sta lasciando il passo e quello che si sta affermando. Il ragazzo rifiuta infatti la tutela della zia.

Una generazione già resa polverosa da valori sorpassati che fallisce il confronto con quella più nuova e già incomprensibile forse perché troppo vacua, o forse solo più cinica e pragmatica. Sembra che tra zia e nipote vi siano secoli di distanza anche se probabilmente non si parla che di due decadi.

La buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco è uno spettacolo che presenta in sé alcune contraddizioni mascherate da una grande giovane attrice, ed è in qualche modo è paradigmatico. Spicca su tutto l’ottima recitazione di Serena Balivo, che riesce sempre a rendere le sfumature più difficili di un interpretazione complessa, e a costruire un bel melange di ironia e commozione, surrealtà e verità.

Suggestivo anche l’allestimento anche se per molta parte del lavoro nient’altro che decoro: sia gli oggetti polverosi e pesanti di un passato che resta l’unico segno, sia i manichini immobili, folla di fantasmi, di un passato ancora più lontano e incomprensibile, che avrebbero potuto essere qualcosa di più.

Ma La buona educazione è in qualche modo uno spettacolo che contiene in sé alcuni dei paradigmi del nuovo teatro italiano. Modelli che potrebbero essere visti sia come vizi di forma, che salutati come un felice ritorno di qualcosa che in fondo conosciamo bene. Non è il giudizio che qui ci interessa, quanto determinare se esistano dei vettori e cosa portino in dono.

Il mio è un invito alla riflessione sull’estrema semplificazione del linguaggio scenico in cui quasi scompare la regia, o comunque si riduce ai minimi termini, al fine di far passare un messaggio quasi esclusivamente affidato alla parola. Con il termine semplificazione non intendo qualcosa di buono o di cattivo, di giusto o di sbagliato. Non ha l’accezione di superficialità o di facilità. Intendo più un processo di scarnificazione e intendo soprattutto evidenziare un fenomeno.

Quello che vedo negli ultimi tempi non è tento una scena intesa come insieme dei plurimi segnali significanti provenienti da corpo, movimento, spazio e tempo, luce e suono, e che vanno trattati come singoli strumenti di un’orchestra e quindi messi in relazione tramite un processo di composizione, quanto un asservirsi di questi al messaggio contenuto in un testo come se solo la parola potesse raggiungere il cuore del pubblico.

È un ritorno prepotente della rappresentazione, in quanto messa in scena di un testo che preesiste. La vecchia generazione che fece di tutto per uscire o andare al di là della rappresentazione sembra che parli una lingua sconosciuta e incomprensibile.

E così si assiste a spettacoli, non necessariamente fallimentari, – La Buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco non è uno lavoro mal riuscito o mal concepito, tutt’altro! -, ma impostati sull’unico cardine della parola cui gli altri elementi servono più che altro da corredo rafforzativo di un unico segnale.

Laddove in molta parte d’Europa si sviluppa e si sperimenta un’arte della composizione scenica dove i linguaggi diventano parte di un insieme che concorre a costruire un segnale intenso e composito anche quando si confronta con un testo, nei lavori di molti artisti italiani si assiste a una riduzione all’uno.

Non faccio in questo discorso nessun riferimento al passato perché il teatro vive solo il presente. Per quanto si porti dietro un retaggio si confronta sempre e solo con il tempo in cui vive perché reagisce alle condizioni del hic et nunc in cui si manifesta.

Anche quando si assiste a spettacoli apparentemente multimediali è la parola che fa da direttore d’orchestra. L’abbiamo visto, per limitarsi solo a questa edizione del Festival delle Colline Torinesi, nella Trilogia dell’Identità di Liv Ferracchiati, così come in Ritratto di donna Araba che guarda il mare di LAB121 con il testo di Carnevali e lo riscontriamo anche ne La buona educazione della Piccola Compagnia Dammacco, ovviamente con esiti, gradazioni e intensità diverse.

È come se la parola fosse un porto sicuro per raggiungere la comprensibilità e il maggior numero di persone possibile ottenendo il maggior impatto possibile. E non è esclusivamente una questione di mezzi è qualcosa di più profondo. È la ricerca spasmodica di un’efficacia a volte per mezzo della tecnica a volte al di là di essa. È come se la parola in qualche modo proteggesse da un fallimento, quest’ultimo elemento di fatto necessario a ogni ricerca.

Sembra che manchi una visione della funzione del teatro, che in qualche modo si rinunci a indagarne le possibilità: si segue un sentiero di sicura efficacia, si lascia per il momento da parte la ricerca di cosa si possa raggiungere veramente tramite il teatro oggi se si utilizzasse efficacemente il suo linguaggio plurimo, in cui la parola è solo uno degli elementi a disposizione.

È un fenomeno che andrebbe indagato con maggior attenzione e non nello spazio di un articolo. Anzi spero che queste poche righe portino altri a dire la loro sull’argomento, che si possa riflettere insieme, artisti, critici e pubblico. E credo sia giusto sollevare la questione proprio in seguito a un lavoro nel complesso solido e di ottimo livello recitativo.

Ph: @lucadelpia

Roberta Bosetti

A SPASSO CON EMILY: La Dickinson’s walk di Roberta Bosetti

L’appuntamento con Cuocolo/Bosetti è al Caffè Elena, al calar della sera, finalmente una bella sera dopo tanta pioggia. Roberta Bosetti ci aspetta con le poesie di Emily Dickinson. Si indossano le cuffie, si sintonizzano le radioline e poi a spasso per il centro di Torino.

La voce di Roberta Bosetti ci invita a seguirla. Dalla grande piazza giù per via Piana fino ai giardinetti di Piazza Maria Teresa. Una breve sosta sulle panchine, poi di nuovo in movimento da via Giolitti fino al Lungo Po.

All’orecchio giungono i numeri delle poesie di Emily. E le parole seguono calde e stranianti sul sottofondo di brusio cittadino. La musica che giunge dal bar in piazza, le risate di un gruppo di ragazze che si affrettano all’aperitivo del venerdì, un cane che abbaia, il rombo di una motocicletta.

E intanto si passeggia e le parole di Emily, che non uscì per lunghi anni dalla sua camera, si mischiano alla città, ai suoi rumori e alle sue immagini e tutto appare sotto un’inquadratura differente. Quel dire la verità per piccoli passi, un poco mascherata per non diventar ciechi al suo fulgido apparire, svela piccoli misteri che il passo quotidiano impedisce di scoprire.

La voce di Roberta Bosetti ci porta le poesie senza riferirle, non è la voce di un audiolibro o di una visita guidata. Sono parole solide, suoni di un pensiero che fu, partorite nella solitudine, corpo di un’immaginazione che creò un mondo che quasi non vide che da una finestra ma dava ragione a quel passo di Lao Tzu che ricorda come, per conoscere il Tao, non serva uscire dalla porta.

Le poesie sono richiamate a nuova vita, a farsi nuovamente suono, ad abitare un paesaggio e svanire nell’aria della sera. Finalmente un’esperienza di una voce che non riferisce, che non dice, ma che è esperienza sonora di un pensiero e di una vita. E non è un caso che questa esperienza avvenga fuori da un teatro affollato sempre più di voci gridate, che devono dire per forza, che devono comunicare, spedire un messaggio a più orecchie possibili. Noi si cammina insieme al concerto di parole che Roberta Bosetti ci regala in questa breve passeggiata.

Ci fermiamo un attimo sul Lungo Po a guardare il Monte dei Cappuccini, la Gran Madre lontana e austera, il fiume che scorre e porta via le poesie, numerate e mai nominate,

E da questo esterno entriamo in un cortile. Chiudiamo fuori le voci della città che si appresta al suo venerdì sera. Portiamo solo Emily con noi su per le scale che ci conducono in una casa, in un salotto, dove ascoltiamo le ultime poesie. E poi brindiamo con un dito di Rum alla grande poetessa che in vita non pubblicò che sette poesie delle sue migliaia cucite insieme con il filo. E brindiamo anche a Roberta Bosetti che le ha fatte rivivere per noi scolpendole nel paesaggio che abbiamo attraversato.

Vico Quarto Mazzini

VIENI SU MARTE: Vico Quarto Mazzini

Debutta in prima nazionale alla Casa del Teatro Ragazzi all’interno del Festival delle Colline Torinesi Vieni su Marte di Vico Quarto Mazzini.

Vieni su Marte rispetta perfettamente il tema del Festival di quest’anno che, lo ricordiamo, tratta del tema del viaggio in tutte le declinazioni possibili, Il pretesto o motivo scatenante sono le candidature (ben 202568!) inviate nel 2012 per essere selezionati per la missione Mars One con lo scopo di costituire di una colonia permanente sul Pianeta Rosso.

Un viaggio di sola andata verso un mondo pervaso da un ambiente ostile e arido. Cosa ci spinge ad affrontare simili imprese? Alcune delle risposte sono presenti in video, dove alcuni candidati da tutti gli angoli del mondo, spiegano le loro ragioni. Alcune sono fantasiose, altre utopistiche, improbabili, sconcertanti. Dalla pace in un nuovo mondo, alla costituzione di una società diversa e migliore, dalla semplice vanagloria di essere i primi a farlo, a dimostrare strampalate teorie pseudoscientifiche.

Tutte manifestano una volontà di fuga e tutte dimenticano che, se anche lasciamo il mondo intero, portiamo dietro sempre noi stessi e le nostre miserie.

Vico Quarto Mazzini indaga attraverso piccole scene le ragioni del viaggio. Marte diventa qualsiasi cosa. Quegli africani che cercano di salire sul razzo vanno veramente su Marte? Quella è la destinazione per l’insegnante precario trasferito nella sede più lontana e pulciosa possibile? L’attore che vuole portare i testi Bernhard e fondare un teatro lo vuole fare proprio lassù tra le stelle (suggestiva la sua scena in concerto con la vecchina con la bara sulle spalle)? Marte non diventa simbolo di una fuga dai problemi, dalla paura della morte, della nostra incapacità di risolvere e risolversi, così come immagine di un esilio, volontario o meno, netto e irreversibile?

Cornice a tutte queste storie, il marziano, quello vero, in seduta dallo psicologo, per cercare di capire l’umano e le emozioni che lo spingono. Sembra più che altro che voglia conformarsi ai nuovi invasori, compiacerli, diventare come loro.

Vieni su Marte di Vico Quarto Mazzini è dunque uno spettacolo composto per frammenti di storie. I video intervallano le scene. Le storie dei viaggiatori a loro volte alternate con le sedute psicoanalitiche del marziano con il suo scostante e assurdo analista, scene queste le più deboli, a mio avviso, nell’impalcatura drammaturgica. L’amalgama di tutti questi vettori narrativi non sempre è riuscita, per quanto i singoli frammenti siano ben composti e recitati. L’ironia è sottile ed efficace nel tono generale benché, ripeto, manchi un collante forte a tenere insieme l’incedere drammaturgico.

Un esempio potrebbe proprio essere il finale dove alla scena, suggestiva e poetica, della partenza degli astronauti, segue l’ultima seduta del marziano, ormai quasi completamente umano, che racconta un’ultima storia. Una sorta di doppio finale in cui a una scena forte ed evocativa segue una in minore e non veramente pregnante. Il vuoto e la solitudine presente dentro di sé e che ci accompagna ovunque andiamo era già stata ampiamente evocata e forse risulta ridondante. Ultima immagine le facce dei tanti candidati alla partenza per Marte che forse poteva seguire semplicemente la partenza dei due astronauti in casco da motociclista.

Le scene visivamente sono ben costruite. Nel loro apparire dietro il telo di tulle riescono sempre a sorprenderti, pur nella semplicità della composizione, nel creare un mondo al limite della fantascienza. Quelle scale di ferro diventano rampa di lancio verso un nuovo mondo reale o immaginario che sia.

I video del terreno arido, pieno di copertoni abbandonati, che diventa suolo marziano grazie al filtro rosso donano una certa qual atmosfera da Stalker. Molto riuscito quello che inquadra il vuoto nero all’interno della ruota di gomma, vuoto che diventa lentamente sempre più ampio, abisso che si illumina e fa apparire un mondo retrostante colmo delle nostre ansie di fronte a quell’oscuro che abita dentro di noi.

Vico Quarto Mazzini in questo Vieni su Marte, prodotto insieme a Gli Scarti, presenta un lavoro con molte cose buone (la recitazione, l’ironia, un ottimo studio delle luci, la capacità di rendere con mezzi semplici atmosfere complesse) unite a qualche difetto strutturale, primo fra tutti qualche incertezza drammaturgica sicuramente risolvibile con l’evolversi dello spettacolo.

Vico Quarto Mazzini si rivela comunque una realtà interessante e promettente che come altre realtà simili nel nostro panorama italiano avrebbero bisogno di un vero e più accurato sostegno, sia produttivo che distributivo, per sbocciare come meritano. Come ho detto molte volte rispetto a lavori simili, la differenza tra un buon lavoro e un ottimo lavoro spesso sono i dettagli che si ha la possibilità di curare o emendare quando vi è una solida e sana filiera produttiva e distributiva che manca completamente in questo paese.