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Compagnia Frosini Timpano

SPECIALE INEQUILIBRIO: Gli sposi di Compagnia Frosini Timpano

Gli sposi della Compagnia Frosini Timpano è uno dei lavori che attendevo di vedere con grande curiosità a Inequilibrio XXI.

Vi sono molte ragioni sottese a questo interesse: primaria la stima verso due artisti, Elvira Frosini e Daniele Timpano, la cui cifra è demolire con sfrontata ironia le idee preconcette utilizzando i fatti storici; in seconda battuta la loro abilità di trasformare i materiali in azioni teatrali costruendo non solo una drammaturgia ma una vera composizione scenica fatta di gesti, spazio, oggetti, luci e musiche; terzo elemento l’uso di eventi storici del passato più o meno a noi contemporanei è finalizzato a un intento, prima che estetico, politico.

Per la Compagnia Frosini Timpano il teatro è innanzitutto gesto politico, e come per molti artisti nel corso dell’ultimo secolo spesso l’azione di denuncia politica sul presente si nasconde nell’evento storico passato.

La Compagnia Frosini Timpano ha chiara la funzione del proprio teatro: far saltare le certezze e le opinioni consolidate che come comunità abbiamo degli eventi storici che ci hanno condotto a questo presente: il corpo del duce come luogo d’azione delle contraddizioni dell’Italia post-fascista (Dux in scatola); il nostro equivoco passato coloniale cancellato e dimenticato sotto la menzogna dell’italiano brava gente (Acqua di Colonia); la vicenda Moro (Aldo Morto); e ora la parabola della coppia di dittatori Nicolae Ceausescu e Elena Petrescu fucilati in diretta televisiva il giorno di Natale 1989.

La fucilazione dei dittatori rumeni, che ancora viene trasmessa il giorno di Natale in Romania, si può vedere tranquillamente su Youtube. Sono immagini forti che in qualche modo inaugurano una stagione in cui la storia si può osservare nel suo svolgersi, semplicemente ripresa al di là della retorica e della propaganda. Pensiamo a come si è sviluppato oggi dove tutto po’ essere ripreso in qualsiasi momento e diventare virale.

Milo Rau, autore di The last days of the Ceausescu nel 2009, mi raccontò in un’intervista che vedendo i filmati dell’esecuzione si convinse che il teatro doveva affrontare la realtà con una potenza pari a quelle immagini.

La Compagnia Frosini Timpano in Gli Sposi di David Lescot nella traduzione di Attilio Scarpellini raccontano l’intera parabola dei coniugi Ceausescu dagli oscuri esordi alla tragica morte. L’esecuzione è solo accennata, il processo avviene in voice off, con i piccoli gesti accennati e descritti. Il finale volutamente sfugge alla forza delle quelle immagini.

Sia Nicolae Ceausescu che Elena Petrescu sono di famiglia povera e contadini. Originari della Valacchia sono individui scialbi, senza particolari talenti, non troppo intelligenti o dotati, eppure per le oscure trame della storia si trovano a guidare una nazione, a farne il proprio feudo personale, a decidere della vita e della morte dei proprio concittadini.

Il regime di sangue costruito crolla esattamente come quello di Macbeth e di Lady Macbeth: nel sangue e nella violenza. La Romania è l’unico caso nel blocco comunista europeo a sfaldarsi a colpi di fucile. Dai tumulti e dalle stragi di Timisoara fino alla cattura a Targoviste, e al processo e fucilazione dei Ceausescu passano solo nove giorni, dal 16 al 25 dicembre del 1989. Quel che avviene in quei fatidici giorni è frutto però di un lento processo che porta i due al vertice e li precipita nell’abisso, ed è il processo di acquisizione del potere che viene prima di tutto indagato. La fine è una conseguenza di infinite azioni e reazioni. E poi c’è l’oggi. Dove ci ha portato quella liberazione?

La Compagnia Frosini Timpano ne Gli Sposi racconta la vita, mette in luce le contraddizioni di questi due oscuri personaggi divenuti emblema del male, li umanizza e martirizza, i loro corpi e le loro anime vengono sezionati e analizzati con la potente lente di ingrandimento dell’ironia.

Il gesticolare convulso con la mano di Ceausescu, il suo balbettare, l’influenza di una moglie inflessibile, i pugni socialisti levati al cielo quasi in pose di manifesto di propaganda in luce rossa, la fuga tremante, esitante, tragicomica in elicottero e poi in macchina, semplicemente evocata con rumori e piccoli gesti, tutto si trasforma nel racconto di una spaventosa dittatura la cui anima era costituita da due persone inette.

La maschera del dittatore viene sollevata e si scopre che ciò che vi si nascondeva non è una coppia di mostri eccezioni di natura ma uomini banali, insipidi in fuga come qualsiasi animale braccato. L’era degli eroi si è conclusa sotto le mura di Troia. Oggi restano solo gli uomini, uguali tutti nel condividere un destino miserevole.

La faccia del potere si sgretola, non rimangono che i corpi sul selciato, inerti, morti, svuotati. Il cadavere nella sua pura e inquietante oggettività non è che un vuoto guscio una volta ammantato degli emblemi di un terribile potere.

Gli sposi della Compagnia Frosini Timpano è una danza macabra contemporanea: la morte livella e ci mostra la vacuità di ogni agire/patire umano, svuota di senso anche il mostro più orribile. Forse è questo che aveva scoperto Odisseo quando, nel mito platonico, al momento di scegliere una nuova vita, optò per la più anonima di tutte.

Non solo danza macabra questi Sposi della Compagnia Frosini Timpano anche analisi sapientemente ironica della natura del potere, qualsiasi potere. Non si parla solo della Romania, ciò che viene raccontato non è solo un fatto non troppo lontano nella storia. Si parla di molto contemporaneo e dei molti ometti che si aggirano negli odierni telegiornali con in mano spaventosi poteri, a guidare nazioni, a decidere di vite umane.

Un saggio scrisse che per prevedere il futuro bastava studiare la storia. L’opera di Elvira Frosini e Daniele Timpano ci dice proprio questo: tutto si ripete, tutto è già avvenuto, e guardare il passato è affrontare il presente. Per questo il loro teatro apparentemente semplice e sbarazzino è oggi tanto necessario.

I Sacchi di Sabbia

SPECIALE INEQUILIBRIO: Andromaca de I Sacchi di Sabbia

Nasce il 4 luglio, o forse sarebbe meglio dire rinasce, Andromaca de I Sacchi di Sabbia diretti da Massimiliano Civica. Debutta in prima nazionale a Inequilibrio XXI questo secondo capitolo della riscrittura dei classici greci che segue I dialoghi degli dei da Luciano di Samosata.

In Andromaca de I Sacchi di Sabbia la tragedia volge al comico. In una passata intervista Massimiliano Civica mi disse che il tragico in fondo è ottimista perché dopo la crisi ristabilisce un ordine mentre il comico, dietro la risata, nasconde un cinico pessimismo.

In Andromaca credo che questo sia ben evidente. La vedova di Ettore, dopo aver visto uccidere il marito e il figlio, bruciare la sua città, dopo esser stata tradotta schiava a Ptia, aver subito violenza da Neottolemo e avergli dato un figlio, ecco che viene minacciata di morte da Ermione, figlia di Menelao e di Elena, vera sposa del figlio del Pelide. Andromaca per evitare la morte si stringe alla statua di Teti, madre di Achille e quindi per forza di cose, dea parente, per invocare protezione.

Già solo nell’elenco delle disgrazie della povera Andromaca, e nella citazione delle parentele si può notare una mole impressionante di materiale comico, dalle corna agli strani intrecci parentali.

Due elementi sono assenti: la divinità (Teti è invocata ma non partecipa) e il destino ineluttabile. Questa di Andromaca è vicenda umanissima dove non Ananke tesse l’intreccio quanto le gelosie, i rancori, le passioni mal riposte.

Altro assente illustre è Neottolemo perché già morto ma nessuno lo sa. Nel consulto con l’oracolo viene ucciso in un imboscata. Gli strazi che avvengono a Ptia risultano inutili alla luce di questa notizia.

Il vano agire è il sale del comico. Le umane vicende, vanitas vanitatis, risultano vacui fantasmi alla luce fredda della realtà. La risata va a braccetto con la verità.

Se ne I dialoghi degli dei l’operazione di riscrittura messa in opera da I Sacchi di Sabbia e Massimiliano Civica sembrava un po’ scolastica e didascalica, nei confronti del testo Euripideo si assiste all’emersione di un’immagine del tragico insolita. Il comico non lo svilisce ma ne mostra un lato nascosto. Laddove la tragedia, attraverso il pathos dell’ineluttabilità del destino e della colpa da espiare, rimanda a un cielo che può caderci in testa in ogni momento, il comico sgretola la fatalità con l’inutilità e vacuità dell’umano agire/patire.

Il riso squarcia il velo di serietà di cui ammantiamo il nostro dolore, e ci sussurra maliardo che tutto passa e tutto scorre e il più delle volte si fa i conti senza l’oste. Neottolemo è già morto. Tutto quel che accade potrebbe anche non accadere e niente sarebbe scosso di un millimetro.

L’uso del dialetto, toscano e napoletano, aumenta l’efficacia delle battute anche se qualche volta si inciampa in un facile boccaccesco. Massimiliano Civica è uomo di teatro che conosce e ama la tradizione farsesca e popolare, ne conosce i meccanismi e i ritmi, e li usa con efficacia.

Andromaca risulta quindi uno spettacolo di comicità intelligente, colmo di meccanismi farseschi tratti da una tradizione scenica che è propria del teatro italiano popolare, dai ludi satirici alla commedia dell’arte fino all’avanspettacolo.

Al di là degli esiti, più o meno riusciti, di questo dittico sui classici greci, I Sacchi di Sabbia e Massimiliano Civica indicano una strada efficace per una rivalutazione del materiale comico della tradizione e una modalità di riscrittura che non banalizza il classico ma lo snellisce di un linguaggio non più nostro.

In una certa maniera, con le dovute distanze, l’operazione scenica ricorda Mejerchol’d quando cercò di recuperare i lazzi, i giochi, le battute della commedia dell’arte per farne materiale da attore da usare per la scena contemporanea. Tali materiali tecnici sono bagaglio imprescindibile per l’attore, non solo di teatro popolare, e sono strumenti efficacissimi e soprattutto stranianti, lontani da un’interpretazione mimetica.

Come la violenza clownesca, pur non essendo vera, evoca tutta la terrificante fisicità archetipica, così il comico popolare ha un potere disvelante sulla realtà. Dietro una risata, se coltivata con strumenti intelligenti e sapienti, si nasconde sempre un pensiero filosofico.

AttoDue/Murmuris

SPECIALE INEQUILIBRIO: Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris

Nella mia seconda giornata a Inequilibrio mi sono imbattuto in uno spettacolo che mi ha fatto molto pensare. Parlo di Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris da un testo di Jean-Luc Lagarce per la regia di Simona Arrighi e Laura Croce.

La riflessione a cui mi spinge questo spettacolo non è di natura estetica (posso tranquillamente dire che ogni immagine era ben studiata e concepita), e nemmeno di natura attorica, quanto piuttosto funzionale.

Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris è un lavoro strutturato su una rappresentazione mimetica e naturalistica. Siamo nella Sala del Ricamo del Castello Pasquini, le finestre sono aperte sul mare, un salotto borghese e ben arredato accoglie gli spettatori. La scena è già in atto. È come entrare in casa d’altri. C’è quindi fin dall’inizio una quarta parete che ogni tanto viene leggermente rimossa con degli a parte.

Tutto è assolutamente credibile e naturale. Gli attori (Luisa Bosi, Laura Croce, Sandra Garuglieri, Roberto Gioffrè, Riccardo Naldini) sono bravi, senza affettazione, privi gesti inutili, con una partitura di azioni serrata, misurata, genuina che fa trasparire i sentimenti che le parole non dicono, gli imbarazzi, la rabbia, la frustrazione.

E poi gli oggetti di scena: il vino nei calici, la zuppa nel piatto, la foto dei bambini, il caffè nelle tazzine. La mimesi con la realtà è quasi perfetta, non fosse per il pubblico e le americane al soffitto. Fin dalle prime battute si ha come l’impressione di essere a Mosca a casa Stanislavskij o a Parigi a godersi uno spettacolo di Antoine. Siamo di fronte a un teatro naturalista che rappresenta un salotto borghese.

Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris mi ha fatto sorgere sin dai primi minuti una domanda insistente: è questo che chiediamo oggi al teatro? Un teatro mimetico?

Queste domande le pongo senza alcun intento polemico, ma in quanto studioso di arte scenica. Nella Parigi di Zola e Antoine e della loro battaglia per il naturalismo contro le viete convenzioni ottocentesche, o nella Mosca di Stanislavskij, la mimesi tra arte e vita era una contesa attuale che riformava i teatro. Nonostante questo, già dopo pochi anni, le avanguardie o registi come Vachtangov e Mejerchol’d cominciano a demolire l’edificio mimetico verso un teatro che non sia rappresentazione ma vada al di là.

Oggi, mi chiedo, è questa rincorsa alla mimesi che serve al teatro? È la simulazione che assolve alla funzione del teatro? Non ci sono altri media che possono farlo meglio? Perfino i primi reenactment di Milo Rau non erano mimetici, ma sempre era rivelato, in maniera quasi brechtiana, l’artificio e la distanza dal reale.

Pensiamo a Hate Radio: siamo di fronte alla rimessa in scena di una trasmissione radiofonica di Radio Milles Collines, ma nessuno vuole farci credere che siamo a Kigali in Ruanda, solo farci comprendere che cosa è avvenuto.

Quello che è davanti a noi è come un vetrino di laboratorio, è un oggetto di studio e di critica del reale non la sua copia e nessuno fa finta di credere che i conduttori siano quelli veri. C’è una distanza critica necessaria per comprendere e in qualche modo giudicare la realtà e, se possibile, modificarla.

La funzione del teatro è quindi quella di sguardo sul mondo, luogo dove la comunità/pubblico indaga la realtà, ne affronta le sue crisi cercando modalità di risposta. Il dispositivo scenico ha quindi una chiara funzione.

Nel caso di Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris, benché il lavoro sia ben fatto e ben eseguito, la funzione mimetica non appare per nulla chiara. Perché si vuole che si creda che sia reale? Perché quello che capita sulla scena potrebbe capitare a tutti? Ma per raggiungere questo scopo è la simulazione la strategia più adeguata?

Già Carmelo Bene diceva, nelle sue meravigliose lezioni su Cos’è il teatro, che far finta di credere che quello sulla scena sia Amleto era cosa da Croce Verde. Dopo le rivoluzioni del Novecento, dopo aver fatto di tutto per uscire dalla rappresentazione e cercare nuove funzioni alla scena, veramente crediamo necessario il ritorno a un teatro naturalistico borghese? È così essenziale mettere una zuppa nel piatto come se ci si trovasse di fronte a un vero pranzo in famiglia? La scena non possiede modalità più efficaci?

Queste domande le pongo, ripeto, senza tono giudicante. Il lavoro di AttoDue/Murmuris, dal punto di vista tecnico, è irreprensibile. Perfino Stanislavskij avrebbe proferito il suo fatidico: “Ci credo!”. Il problema non è la qualità, ma la funzione della scena in se stessa. Che teatro vogliamo nel nostro contemporaneo? È la mimesi tra arte e vita lo strumento adeguato per il reale che ci troviamo ad affrontare?

Carmelo Alù

SPECIALE INEQUILIBRIO: CANI MORTI di Carmelo Alù

Carmelo Alù, vincitore del progetto Davanti al pubblico 2018 organizzato dal Teatro Metastasio di Prato, mette in scena, nella Sala del Camino del Castello Pasquini di Castiglioncello, Cani Morti del drammaturgo norvegese Jon Fosse.

Un ragazzo è seduto al tavolo. Non esce mai. La mare gli chiede dove sia il cane. Non è tornato. Nessuno lo va a cercare. Manca anche il caffè. La madre esce a comprarlo dopo un ultimo tentativo di smuovere il figlio.

Si susseguono le visite: un amico, la sorella con il marito. Da un’unica finestra sul mondo tutti scrutano a turno ciò che avviene dalla finestra. Il cane non torna.

I dialoghi sono spossanti. Tutti ripetono in circolo le stesse frasi banali, inconcluse e inconcludenti. Non si va da nessuna parte. Non si dice niente di importante. Il cane viene trovato morto.

È stato il vicino. Forse per sbaglio. Si scava la fossa in giardino e tutti la contemplano dalla finestra. Anche il vicino viene trovato morto. Lo portano via in ambulanza.

Non sveliamo il finale anche se non è un giallo quello di cui stiamo parlando. Manteniamo il mistero senza commettere il peccato di spoiler. Quello che importa è la forma di un uragano che si forma dal nulla di dialoghi senza via d’uscita e da piccole azioni di per sé non così connotate dal marchio della violenza. Il cane è il fulcro. Scomparso dalla scena perché mai vi è salito eppure nella sua assenza è protagonista. Tutto in qualche modo è già successo. Non avviene in scena. Quest’ultima ospita le cause non gli effetti.

L’assenza del cane è già morte. Non ci si aspetta niente di buono e questo antivedere grava come un macigno d’angoscia. Si sa che qualcosa succederà e non sarà un lieto fine.

Si scivola verso un abisso tra un buongiorno e un buonasera. Senza quasi accorgersene. Non ci sono dei che stabiliscono un destino. Non è Ananke che muove la sua ruota inesorabile. Sono le banalità. Il piccolo sasso che provoca una valanga.

Carmelo Alù mete in scena questo meccanismo con semplicità francescana. Solo un tavolo e tre sedie identiche se non per il colore a quelle di Bidibidobidiboo di Cattelan. Già in questo c’è un richiamo alla morte. Un proiettore da 5000w su uno stativo è la finestra sul mondo. Le sue bandiere le persiane. Luce gialla di un sole malato e cadente.

Gli attori sono intensi in questo testo non facile all’interpretazione. I personaggi sono tutti scialbi e incolori. Le loro parole vane e vacue. Nelle sfumature si accoccola il demonio e sono quelle a essere difficilissime. Quindi complimenti a Alessandra Bedino, Domenico Macrì, Emanuele Linfatti, Caterina Fornaciai, Daniele Paoloni.

La regia di Carmelo Alù non è quindi nel movimento e nella spazialità ma nel saper far emergere dalle piccole crepe del linguaggio l’angoscia e la violenza.

Il teatro che ci propone Carmelo Alù è un teatro di rappresentazione e interpretazione da un testo letterario. Lo fa molto bene con dei bravi attori. Trovo sempre una punta di delusione quando non vedo il teatro parlare la sua propria lingua, quel teatro che non necessita della letteratura per esprimersi, o dove la letteratura è solo uno dei tanti materiali di una composizione, e non posso che prendere atto di un ritorno prepotente delle tradizionali rappresentazioni.

Carmelo Alù mette in scena un testo da lui tradotto, lo fa molto bene all’interno di una solida tradizione di teatro rappresentativo. Carmelo Alù, come molti altri giovani italiani, sceglie di affidarsi al testo e alla letteratura per far scaturire il teatro. Lo vediamo in moltissimi casi dagli esiti migliori (pensiamo a Macbettu) a quelli più deficitari. Bisognerebbe indagare il perché di un abbandono di un teatro che cerca nella letteratura e non nel mondo il motore del suo agire, non nella composizione, nel movimento, nell’uso degli oggetti la sua lingua senza parole, o dove le parole sono semplice elemento.

Forse è la certezza di essere in qualche modo comprensibili, forse l’ossessione a raggiungere quanto più pubblico possibile, o forse solo un amore verso la drammaturgia teatrale. Non riesco a darmi una risposta anche se si rafforza in me la convinzione che sia la danza, forse, la vera erede della composizione scenica. E di questo forse bisognerebbe interrogarsi.

Ph: @ Anita Martorana

Cristina Kristal Rizzo

SPECIALE INEQUILIBRIO: VN SERENADE di Cristina Kristal Rizzo

VN Serenade di Cristina Kristal Rizzo, visto in prima nazionale a Inequilibrio è un lavoro composto di due coreografie che indagano il rapporto tra la composizione corporea e quella musicale.

Due coreografie per due oggetti sonori complessi come la Verklärte Nacht op. 4 di Arnold Schönberg e la Serenata op. 48 di Petr Il’ič Čajkovskij.

Verklärte Nacht scritta nel 1899, è la prima opera importante di Schönberg, Inizialmente nata sestetto d’archi (la prima fu eseguita dal celebre Quartetto Rosé allargato), rielaborato nel 1917 e nel 1943 per orchestra d’archi, è di fatto un poema sinfonico ispirato dal testo del poeta Richard Dehmel.

Il poema, assolutamente simbolista per le atmosfere e i toni, racconta una tormentata passeggiata notturna al chiaro di luna di due amanti. Lei confessa a lui di aspettare un figlio da un matrimonio non voluto. Lui accetta la nuova creatura come fosse sua e i due si riconciliano dopo i timori, i dubbi e le inquietudini che mettono in crisi il loro amore clandestino.

Una sorta di viaggio di formazione questa promenade, che si esplica musicalmente nella contrapposizione e nell’urto delle masse sonore, quasi onde che si infrangono sulla scogliera: i toni gravi dei contrabbassi con gli estremi acuti dei violini, il cromatismo wagneriano con il principio di variazione/sviluppo di marca brahmsiana.

Cristina Kristal Rizzo sceglie di comporre la sua coreografia con onde formate da coppie di danzatori che si sovrappongono e si scambiano. Un fluire ininterrotto di movimenti per lo più fluidi, curvilinei, sinusoidali con ritmi più o meno intensi non necessariamente in accordo con la musica.

La danza che si intreccia con Verklärte Nacht quasi rifugge angoli e spigoli, facendosi quasi movimento gassoso, quasi di sbuffo di fumo su un raggio di sole. Il fluire delle forme corporee ha un che di ipnotico, sognante, non privo di certa drammaticità, risvegliando nell’occhio di chi guarda tinte simboliste tardo ottocentesche.

Diversa la scelta per la Serenata op. 48, primo pezzo coreografato da Balanchine nel 1934 per l’American Ballet Theatre. Nata in un periodo di crisi compositiva di Čajkovskij dovuta ai tormenti della sua vita di coppia, la Serenata per archi non brilla tra le migliori composizioni del maestro russo.

La Serenata è intrisa di forte accademismo di maniera che ricorda stilemi della musica di genere del XVIII sec. (nel primo movimento il tema esposto e poi ripreso nel finale elemento presente anche nella coreografia di Cristina Kristal Rizzo) e contrappunti fugati macchinosi che appesantiscono lo sviluppo.

La coreografia di Cristina Kristal Rizzo che si intreccia con Serenata quasi replica gli stessi difetti presenti nella composizione musicale, La forma balletto è più riconoscibile, si appesantisce di figure obsolete che richiamano un mondo danzato lontano nel tempo. La presenza di un certo sentimentalismo figurato, quasi romanticismo di maniera replica in qualche modo nel movimento la musica di Čajkovskij divenendo composizione nella composizione.

La danza non è ancella della musica ma compagna, linguaggio autonomo che adotta una composizione che in questo secondo pezzo agisce per accordo e accostamento di elementi simili che in qualche modo fanno esplodere i difetti congeniti della Serenata.

Cristina Kristal Rizzo con questa sua VN Serenade studia e indaga la composizione a fianco della composizione. Il rapporto danza/musica che spesso ormai viene dato per scontato o come accostamento semplice di una colonna sonora o come forma di illustrazione visiva di ciò che si ascolta. Questa di Cristina Kristal Rizzo è un’operazione in qualche modo similare a certe operazione di Anna Therese de Keersmaker dove la struttura musicale spinge ad affiancarne una danzata ispirata agli stessi principi.

Certo l’atmosfera un po’ vintage dell’operazione rischia di far apparire tutto leggermente nostalgico e affettato, ma credo che anche questo effetto sia in qualche modo voluto, come se nella replicazione del DNA musicale si sia trasferito anche l’atmosfera di un tempo che fu.

Ph:@lucadalpia

Don GIovanni

DON GIOVANNI di W.A. Mozart regia di Michele Placido

Il 29 ottobre del 1987 al Teatro degli Stati Generali di Praga andava in scena il Don Giovanni. Dirige lo stesso Amadeus. Lorenzo da Ponte era già in viaggio verso Vienna perché richiesto da Salieri. In sua vece, nascosto tra le ombre di un palchetto laterale (ricordiamo che l’illuminazione in sala si spense con l’avvento di Wagner), l’insolito collaboratore per la stesura e revisione del libretto: Giacomo Casanova.

L’anziano libertino era approdato al castello dei Wallstein come bibliotecario. Ormai squattrinato e con gli acciacchi di quelle che chiamava le ferite di Venere, aveva accettato il posto fisso, per quanto sappia di sale il pane altrui. Dovendo dei soldi all’amico Da Ponte si era sdebitato aiutandolo nella stesura del capolavoro, e appena estinto l’ammanco, ecco che lo troviamo a scusarsi e a chiedere, con una punta di vergogna, due piccioli zecchini in prestito.

Ecco chi donò sangue e corpo al Don Giovanni mozartiano. Non tanto i modelli letterari da Tirso da Molina a Moliere, sicuramente non quello di Gazzaniga, quanto colui che spese la vita ad esserne l’immagine incarnata. Chissà cosa sarà passato in mente a vecchio Giacomo nel sentir snocciolare il catalogo? Non lo sapremo mai, ma da sempre mi suggestiona l’idea del libertino, la cui ultima conquista gli aveva fatto rischiare di perdere il posto, che osserva di nascosto il Don Giovanni e magari sussurra, in sintonia con l’opera, il fermo diniego a pentirsi dopo tanto aver vissuto.

Ascoltare il Don Giovanni è sempre un’avventura ricca di stimoli. La musica stessa di Mozart, come già diceva Cage, è talmente piena di idee che non basterebbe una vita a snocciolarle tutte. Per questo è inutile aggiungere parole al fiume di inchiostro versato per questo capolavoro.

Quello di cui vorrei parlare è della regia di Michele Placido ripresa oggi al Teatro Regio di Torino da quella firmata nel 2005.

Movimenti elementari fino a esser nient’altro che didascalie corporee. Nessuna idea di scena, semplice illustrazione. Non che quella di Placido sia un’eccezione. Tutt’altro. Spesso la regia nell’opera è nient’altro che un’ancella della musica dove ci si limita a decidere in che epoca ambientare, che scene costruire e le entrate e uscite di scena. Alla faccai delle roboanti noti di regia dei programmi di sala. Il teatro è bottega e i trucchi son sempre gli stessi. Più o meno raffinati all’occhio che li conosce risaltano immediati.

Desolante. E dir che l’opera sarebbe un ricchissimo campo di sperimentazione per il teatro! Soprattutto per i giovani che si affacciano alla regia, non avendo in teatro la possibilità di lavorare su grandi pezzature e con ampi movimenti d’insieme che ormai solo l’opera permette. In questo caso il vizio si aggrava perché si è incaricato un nome famoso a far da richiamo come se un bravo attore, o giornalista, o cantante, sia, ipso facto, anche un bravo regista. Il mio discorso va al di là di questa regia di Placido, presa semplicemente a esempio di un modo ben poco virtuoso di trattare l’opera.

I teatri d’opera si perdono spesso in questi incarichi a personaggi che con la regia teatrale e operistica poco hanno a che fare sperando che la luce sul loro nome porti pubblico. E commettono il più grave degli errori. L’unico richiamo efficace per un successo di pubblico duraturo nel tempo è la qualità. Per ottenerla bisogna formare giovani che apprendano il mestiere. Bisogna rischiare in ricerca e formazione.

Per ottenere risultati così noiosi ed elementari come in questo Don Giovanni tanto valeva affidare la regia a un’esordiente. Cosa poteva andare peggio? Niente. Tutto scontato, una scena che non dice niente e resta solo la musica di Mozart, ma allora tanto vale ascoltarsi l’opera a casa comodamente seduti sul divano.

Il teatro d’opera è teatro e musica. Senza il teatro non c’è l’opera. Se vogliamo che questo genere duri nel tempo e non sia in Italia solo un’attrazione turistica, bisogna smetterla con queste operazioni inutili e sicuramente dispendiose per costruire una nuova generazione di registi capaci, di cantanti disposti a lavorare anche per la scena e a non essere solo ugole d’oro, ma attori/cantanti, corpo e voce dell’opera.

Linda Dalisi

AIACE: di Linda Dalisi e Compagnia Stabilemobile

La 23ma edizione del Festival delle Colline Torinese si chiude con Aiace di Linda Dalisi con la Compagnia Stabilemobile.

Aiace reclama le armi del defunto Achille, ma la decisione degli Atridi è di darle in custodia a Odisseo. Aiace, re di Salamina, cugino del Pelide, ora il più forte nel restante esercito greco, non accetta la decisione. La sua furia, sviata da Atena, offesa per il rifiuto di Aiace a ricevere il suo aiuto in battaglia (Aiace è l’unico eroe a combattere sotto le mura di Troia senza il beneficio di qualche dio amico), si scaglia su una mandria di armenti. Alla furia segue uno sdegnato suicidio: l’eroe si lancia sulla spada donata da Ettore.

Aiace è ormai un estraneo nel grande esercito acheo. Il figlio di Telamone è portatore della Timé, l’onore e il rispetto. Valori antichi ormai soppiantati da quelli emergenti incarnati nella furbizia di Odisseo, colui che combatte con il cervello più che con il braccio, eroe pragmatico e fluido che agisce secondo le circostanze. La lingua di Aiace non è dunque più compresa.

Linda Dalisi fa dunque interpretare Aiace dall’attore ivoriano Abraham Kouadio Narcisse, estraneo perché straniero, portatore di valori culturali a noi incomprensibili come le lingue africane che parla (Odisseo continua a chiederci: ma voi lo capite?). Il gioco dell’estraneità e la tragedia che porta con sé avviene soprattutto per mezzo del linguaggio (anche l’attrice che interpreta Atena e Tecmena Estelle Franco è francese e parla con un forte accento transalpino)

Unico interprete italiano è Michelangelo Dalisi che interpreta Odisseo, l’unico a parlare una lingua a noi interamente comprensibile. Odisseo razionale come un geometra misura ossessivamente il suo cavallo di legno, proietta sul telo di fondale le infinite cifre del P Greco, e fatica a comprendere la natura della follia di Aiace anche se ne prova pietà e rifiuta l’invito di Atena di approfittarne per ottenerne vendetta.

Odisseo in fondo condivide con Aiace la certezza che la vita umana sia un gioco nelle mani capricciose degli dei, piccolo ingranaggio nella complessa ruota di Ananke che neanche gli dei possono scardinare.

Il suicidio di Aiace è l’atto di ribellione contro l’ingiustizia degli Atridi che già aveva colpito Achille scatenando quell’ira che infiniti lutti addusse agli Achei, ma anche un atto di fedeltà a quei valori che stanno scomparendo, ma Linda Dalisi sembra suggerire anche qualcos’altro. Una follia colma di saggezza, una trasformazione come di farfalla dell’eroe in centauro (sul fondale l’ombra del corpo di Aiace diventa quella di un uomo/cavallo dopo che tutti i veli sono caduti). Elevazione e sublimazione di Aiace che non appare pienamente convincente in quanto disinnesca il tragico e la sua funzione che nella vittima e nella sua caduta si interroga sulle modalità dei sacrifici nei meccanismi umani.

Lo spettacolo si avvale di tre proiettori e una lunga e aggrovigliata fune di canapa come unici oggetti di scena. La corda continuamente annodata da Aiace, i proiettori invece come spazi in cui far agire la psicologia dei personaggi. Fili intricati per la follia del figlio di Telamone, il cavallo, i numeri e le sirene (Ahimè pesci e non uccelli come dovrebbero essere quelle greche) per Odisseo. Mezzi troppo modesti per aprire uno scorcio veramente significante nel contesto tragico seppur riscritto.

Se la tragedia Sofoclea nasce dallo scontro temporale tra due ere che ancora condividono lo stesso tempo, – l’età degli eroi con i suoi valori impregnati di Timé, e quella degli uomini, ormai fluida e pragmatica -, la riscrittura di Linda Dalisi sembra ambientare il tragico nello spazio del movimento della migrazione. La lingua come simbolo di un’incomprensione di valori culturali diversi e, a quanto pare, incapaci di vera integrazione.

Seppur alcuni spunti interessanti siano presenti nel lavoro, soprattutto la volontà di rapportare il tragico antico al contesto contemporaneo, sembra che manchi un respiro comune con il testo Sofocleo. Aiace appare agli occhi di chi guarda come uno strano ibrido in cui i temi dell’archetipo greco si abbracciano senza fondersi con urgenze contemporanee come se l’amore per Aiace abbia spinto Linda Dalisi a incontrarlo sulla scena a qualsiasi costo, forzandolo a vestire panni di un paio di misure troppo stetti.

Alessandro Serra

INTERVISTA AD ALESSANDRO SERRA

Dopo aver visto Macbettu al Festival delle Colline Torinesi ho incontrato Alessandro Serra in una lunga conversazione da cui è tratta questa intervista. Abbiamo parlato di molti aspetti di quest’opera che, al di là dei premi, convince e incontra il pubblico senza facili ammiccamenti e soprattutto salvaguardando un ricerca di linguaggio.

Enrico Pastore: Come è nata l’idea di portare la Scozia in Sardegna?

Alessandro Serra: Macbeth è un’opera che ho sempre amato per la sua forza filosofica. Trovo che Macbeth ci dica molto dell’epoca che stiamo vivendo, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con il soprannaturale e la nostra incapacità di una via spirituale.

Penso a una frase di Simone Weil, che cito a memoria: “quando un essere non è in grado di ricevere il soprannaturale lo trasforma in male”. Le streghe che predicono a Macbeth un futuro di gloria, sono foriere di prosperità, ma Macbeth non sa gestire questo evento sovrumano, non è spiritualmente pronto, non sa aspettare e di conseguenza uccide. Non c’è alcun motivo per cui debba compiere questo atto orrendo e inutile e Macbeth ne è perfettamente consapevole. Il secondo aspetto è l’incapacità di vivere il presente, di essere presenti e vigili. Noi viviamo sempre costantemente proiettati nel futuro spinti dal desiderio. Consumiamo il presente in cerca di un futuro che non vivremo mai davvero. L’ultimo aspetto, e vengo alla Sardegna, è il rapporto di questo testo con gli archetipi e le forze primordiali della natura che ho in qualche modo intravisto, più di dieci anni fa, in un viaggio fotografico che feci in Barbagia, partendo da Lula, il paese di mio padre, per vedere i carnevali. Il più impressionante di tutti fu quello di Mamoiada, dove sfilano i Mamuthones. In quell’occasione, come ho scritto più volte, ho avuto la visione della foresta che avanza con i campanacci che sentivo da lontano, l’incedere di un ritmo antico che incuteva terrore. Sono mille gli stimoli che ho carpito in quel viaggio, i suoni, i materiali, le sensazioni, il sangue. Nel paese di mio padre per esempio hanno ricostruito una maschera, Su Battileddu, è la personificazione dello scemo del villaggio che gira per il paese con questo stomaco di bue pieno di sangue. Quando viene abbattuto di fronte al pubblico, che fa cerchio intorno a lui, lo stomaco viene letteralmente strappato. Quindi gli schizzi di sangue, il sughero che scurisce i volti, una scena molto violenta, che a può sembrare lontana dallo spirito del carnevale ma che invece gli appartiene profondamente. I demoni attraversano quindi il paese ma vengono anche tenuti a bada. A Mamoiada ci sono anche le maschere degli Issohadores, figure molto eleganti, vestite di rosso, che danno il ritmo e tengono a bada i Mamuthones e che prendono al lazzo le fanciulle. Nel Macbettu poi ci sono le streghe, maschere comiche e grottesche. Hanno le barbe. Anche per le streghe abbiamo attinto ai carnevali sardi, in particolare al carnevale di Bosa. Sono le Attittadoras, uomini vestiti da vecchie che implorano unu tikkirigheddu de latte tra urla e sorrisi sardonici accompagnati da sconce allusioni sessuali. Ma potrei parlarti anche de Sa Filonzana, una vecchia orrenda che fila e minaccia con le forbici di tagliare il filo del tuo destino. I riferimenti quindi sono tantissimi e hanno costituito il materiale con cui abbiamo costruito il Macbettu.

Enrico Pastore: Se vogliamo poi notare una curiosa coincidenza il giardiniere de I Simpson in originale è scozzese e nel doppiaggio italiano parla in sardo.

Alessandro Serra: Sono stato tentato una volta in un’intervista di dirlo, poi mi sono frenato per timore di essere frainteso. Ma in questa arte antica non si può prescindere dal pubblico, dalle conoscenze collettive che spesso sono cliché o mode ma che a volte sfiorano il mito e fondano la realtà. I Simpson hanno più volte dimostrato di possedere una grande forza comunicativa a tratti divinatoria. Ci sono puntate memorabili, non ultima quella di 15 anni fa in cui Lisa succede a Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Il teatro è anche un’arte popolare e la risata può essere spesso una privilegiata chiave d’accesso al rito. A proposito di Pinocchio Elémire Zolla sosteneva che “In vernacolo, ridendo, conviene esporre le verità più segrete”.

Enrico Pastore: Mi ha molto colpito la tensione tua e degli attori nell’evitare ogni affettazione nella recitazione. La ricerca di una spontaneità che sottragga la parola all’artificio, affinché sia viva, più assimilabile al canto che allo scritto. Come avete proceduto per rivitalizzare la lingua scritta, il morto orale come lo chiamava Carmelo Bene?

Alessandro Serra: Questa per me è una domanda cruciale. Soprattutto in questi giorni in cui sono reduce dalla prima settimana di prove su Il giardino dei ciliegi. In Cechov il problema è ancora più presente, direi quasi più grave perché la lingua sembra parlata ma il risultato è spesso enfatico e, per quanto mi riguarda, sgradevole e noioso.

Shakespeare ha un problema analogo che contrariamente a Cechov però può essere risolto con il canto. Con Cechov bisognerebbe semplicemente dire, nel senso più profondo del termine. L’attore deve manifestare nella parola il senso di ciò che dice, così come si fa nella vita. Fare questo in teatro richiede una grande tecnica e un grande sforzo fisico. Questo perché per dire una frase e dirla davvero, portando con sé il senso, l’emotività e la logica delle conseguenze, e nello stesso tempo farla arrivare a quaranta metri di distanza è un’impresa quasi impossibile. E lì si cade.

In Shakespeare la musica ti può aiutare, perché non essendo un teatro naturalistico, in qualche modo si può attingere al canto.

Esistono tre livelli di comunicazione: il primo è quello del significato. Il secondo è quello musicale, attraverso il suono io posso raccontare e incantare. Questo è credo ciò che siamo riusciti a fare usando il sardo. In Macbettu credo che ci sia anche il terzo livello, quello magico, in cui la parola diviene mantra, non significa più, semplicemente è, agisce come una forza e non come un significato. Questo sarebbe stato impossibile usando l’italiano, soprattutto quello delle traduzioni letterarie.

I testi di Shakespeare devono essere trattati come dei copioni. Non bisogna aver paura di smembrarli, dilaniarli, perché sono talmente grandi che restano sempre integri. Anche perché c’è una drammaturgia perfetta e sublime che è talmente oltre il luogo comune che non ce la fai a distruggerli. Tutto ciò a patto che la scrittura di scena sia alleata del testo, ne al servizio né contro. Il testo è materia.

Per quello che ci riguarda abbiamo distrutto Macbeth ma con un grande amore, fedeltà e rispetto. Grazie a questo amore e rispetto per l’opera ho cercato non di raccontare o recitare ma di evocare una immagine che sta oltre e dietro il testo.

Questo si può fare in Shakespeare grazie alla lingua. Grazie al fatto che lui, essendo un attore, è sempre riuscito all’interno delle sue opere, a fornirti le chiavi d’accesso. E gli strumenti della scrittura di scena sono proprio nelle parole, in quelle particolari formule magiche che Peter Brook chiama Parole radianti.

Tornando al sardo, quando ho riascoltato quella lingua con la quale avevo un conto in sospeso, una lingua che da bambino mi faceva molta paura perché mi ricordava una certa brutalità barbaricina. Quando l’ho riascoltata dopo tanto tempo ho pensato che fosse la lingua giusta per Macbeth. In sardo non esiste la parola Ti amo, una lingua in cui, come dice Angelo Pira, la parola è la cosa. In questo è unica.

In Macbeth non potevo usare l’italiano, che è una lingua letteraria, costruita a tavolino. Con questo non voglio dire che non si possa recitare in italiano. L’ho fatto e continuerò a farlo, ma ci vuole un lavoro enorme che non possono fare i letterati. Devono farlo gli attori perché bisogna sempre porsi il problema di trasformare le parole scritte in parole parlanti e parlabili, perché altrimenti ci si limita a ri-ferire un testo, il che il più delle volte, diventa di una noia mortale.

Enrico Pastore: La recitazione di Macbettu è molto fisica, il corpo dell’attore è potente, presente e altamente significante. Mi piacerebbe sapere come è stato il lavoro in prova con l’attore, come avete costruito la partitura gestuale?

Alessandro Serra: In Macbettu c’è stato un lungo periodo di preparazione perché nessuno degli attori aveva mai lavorato con me, anche se fortunatamente avevano avuto precedenti esperienze di teatro fisico e lavoro con il corpo.

Il primo step è stato quello di suggerirgli un modo di ripensarsi in scena attraverso il corpo e questo non poteva che avvenire attraverso il training. Non riesco ad immaginare una messa in scena che non parta dal corpo dell’attore. Occorre arrivare al testo con il corpo presente e vigile, attivo, pronto ad accogliere e a trasformare la poesia scritta in immagini, danza e canto. Rispetto a questo aspetto i miei punti cardinali sono Grotowski, Mejerchol’d, Decroux. Grandi maestri di cui oggi, ahimè, non si sente più parlare. Rilke parlava di un’umanità come alberi che hanno dimenticato di avere radici e credono che il frusciare dei rami sia la loro vita.

Mi pare impossibile praticare un’arte millenaria prescindendo da ciò che è stato. Ciò che resta sono i testi, la letteratura. Ma l’essenziale non si può trascrivere, si può solo trasmettere. Oppure cercare di ripensarlo, scoprirlo di nuovo. Il teatro è un’incessante ricerca di qualcosa di dimenticato.

Il training è per me l’unica via possibile per accedere all’impossibile. Con Macbettu si iniziava la mattina con il training, il mio, ma anche e soprattutto quello guidato da Chiara Michelini, finché abbiamo trovato una pratica nuova, semplice ma funzionale a questa specifica messa in scena. Ogni nuova creazione impone un nuovo training. Nel corso delle prime settimane abbiamo affrontato anche alcuni principi delle arti marziali cinesi. La fortuna con la produzione di Sardegna Teatro è stato avere dei periodi di prova lunghi e distribuiti nel tempo. Non si provava mai per più di una settimana di seguito, ma per 10 ore al giorno, producendo una quantità di materiali, azioni, immagini, suoni, sensi talmente densi che al settimo giorno si era completamente spossati. A questo punto occorre allontanarsi e lasciare decantare ciò che si è manifestato davanti ai miei occhi ma soprattutto nei corpi degli attori.

Le prime settimane sono state senza testo che, benché fosse già stato riscritto da me e studiato dagli attori, è stato messo da parte. Si lavorava soltanto sull’immagine. Il compito era: raccontare senza recitare. Questo ci ha consentito di togliere verbosità. Se una scena la vivi, non c’è molto altro da dire. La parola diventa quasi superflua.

Decroux diceva: “io non sono contro le parole, ma devono essere necessarie” oppure devono essere un suono. Se non sono necessarie e non sono suono, sono inutili. Ed essendo inutili diventano anche dannose.

Enrico Pastore: In questo periodo nel teatro italiano sta ritornando prepotente la tendenza a fare del testo il centro della rappresentazione verso cui si piegano tutti gli elementi della scena. Nel caso di Macbettu invece sembra avvenire proprio il contrario dove il teatro flette il testo alle sue esigenze e così facendo lo esalta e gli ridà nuova vita. È nata da questa esigenza la volontà di far tradurre il testo a un attore? Per trovare una forma del dire che fosse agli attori congeniale e più veritiera possibile? In parte hai già risposto affermativamente ma magari vuoi precisare

Alessandro Serra: Ho studiato sempre e solo con gli attori, non solo con quelli che sono stati i miei maestri, ma soprattutto con coloro che hanno avuto la forza di seguirmi nelle mie scritture di scena. Spesso mi capita di passare moltissimo tempo per ricomporre una frase perché suoni e significhi col minor sforzo possibile ma quando poi l’attore finalmente la dice, mi accorgo che ci sono ancora blocchi… e insomma… bisogna scrivere, tradurre e comporre da attori, inscrivendo nei corpi ogni fase della creazione. Il fatto che oggi non si scriva più con la penna è una grave mutilazione al gesto creativo della scrittura. Simone Weil diceva ai suoi allievi che il greco si impara con il corpo… ripetere il gesto grafico della lettera alfa è una danza. Nell’atto stesso dello scrivere in fondo, si danza.

Quando lavoro sui testi, il lavoro di riscrittura lo faccio a casa, parola per parola… ma ad alta voce, spesso i piedi, sussurrando e gridando… Vedo dunque il teatro con occhi d’attore, e questo benché io non sia tale anche se ho studiato per esserlo.

Scrivo ad alta voce e cerco di dire le parole. Ma non solo. Quando lavoriamo sul testo se una frase o una parola non funziona, non risuona, si cambia. La parola deve essere organica al corpo dell’attore.

Enrico Pastore: Esatto. O la parola diventa qualcosa di vivo e organico alla scena oppure se resta un elemento puramente letterario si riduce a un elemento esterno noioso e sterile. Per usare le parole del mio maestro Antonio Attisani, diventa il teatro per chi non legge.

Alessandro Serra: oppure, peggio ancora, diventa un teatro per chi vuole sentirsi dire delle cose e si compiace nel sentirle. Non si racconta ma si informa su qualcosa che già si conosce tra l’altro. Anche Milo Rau informa, ma nello stesso tempo racconta. Ho visto per esempio Five easy pieces e in questo lui è straordinario.

Enrico Pastore: Milo Rau è molto ancorato all’idea di un teatro, come quello greco antico, luogo dove la comunità affronta e dibatte le crisi che la attraversano. E in questo senso sonda la scena nei suoi limite, prova a capire cosa si possa fare o meno con la scena per poter essere efficace e significativo nel trattare il reale. Ti mette sempre nella condizione scomoda di essere giudice e imputato. Pensa proprio a Five easy pieces dove nel terzo capitolo in cui ti senti di essere Dutroux.

Alessandro Serra: Quello che dici di Milo Rau è giustissimo. Io non ho quella profondità politica, antropologica. Non riuscirei a toccare un fatto del tempo presente senza cadere. Nel mio piccolo sondo gli archetipi e questo anche nel teatro di prosa. Con archetipi intendo anche quei meccanismi della natura umana che sono sempre presenti nelle fiabe e in tutte le opere di Shakespeare. Pensa a Otello: si parla di femminicidio e di gelosia. Ma il vero geloso è Jago, non Otello. Otello non uccide per gelosia ma perché ama a tal punto Desdemona da non poter concepire che lei possa vivere nel peccato. È un pensiero contraddittorio, doloroso, fastidioso, eppure è così. Inoltre si tratta di un islamico convertito al cristianesimo. Se si parlasse di gelosia sarebbe una telenovela e non un capolavoro dell’umanità. In Shakespeare i meccanismi dell’essere umano sono puri e distillati in forma di simbolo, e in quanto tali non si può che contemplarli, non si possono volgere in prosa. In Shakespeare non è ammessa parafrasi. Sono contraddittori, e inafferrabili. Il lavoro di Milo Rau è stupendo perché guarda al tempo presente. In quella scena che hai appena ricordato sei lì che guardi e i tuoi occhi si contaminano, prendi coscienza di quanto sono contaminati, perché in fondo se fai finta di niente sei complice di quanto avviene nel mondo. Nei grandi testi della tradizione o nelle fiabe sono presenti gli stessi meccanismi che sono poi quelli che mi interessano.

Enrico Pastore: Pensi che ci possa essere un’evoluzione alla ricerca che avete compiuto con Macbettu, oppure è un esito in qualche modo irripetibile? Mi spiego meglio che non vorrei la domanda sia interpretata come provocatoria o maliziosa. In Macbettu siete riusciti a risvegliare le forze antiche del teatro, quelle che animavano l’antica tragedia, e ci siete riusciti abbinandola a un elemento etnografico di grande potenza come la tradizione popolare sarda ancora molto legata a qualcosa di ancestrale. Pensi che questa ricerca che avete avviato possa in qualche modo continuare senza produrre un clone o un doppione?

Alessandro Serra: Ti rispondo molto semplicemente. Per me quel luogo è come tornare alle mie origini. È casa. Ma dopo Macbettu ho necessità di allontanarmi per un po’. È per me molto faticoso emotivamente, quindi per il momento ho bisogno di andare da un’altra parte. Ci tornerò. Mi piacerebbe completare una trilogia di Shakespeare sul potere e anche affrontare la tragedia greca alla quale mi sto avvicinando da anni a partire dallo studio del coro e della maschera. E non è un caso forse che dopo il coro greco abbia sentito il bisogno di tornare a Cechov, che resta l’autore che più amo, proprio perché credo che Il giardino dei ciliegi sia la più grande partitura sinfonica per anime mai scritta. Un’opera priva di centro in cui i gesti e le parole dei personaggi che agiscono e parlano si nutrono degli altri. Un coro e una moltitudine, come nella vita.

Teatro dei Venti

CONCENTRICO Festival: Moby Dick del Teatro dei Venti

Per la quarta edizione dell’ancora giovane Festival di Teatro all’aperto Concentrico la sterminata piazza di Carpi si trasforma in un brulicante palcoscenico a cielo aperto: a salutarne e celebrarne l’ampiezza, le azioni pubbliche firmate dal Teatro dei Venti di Modena e il loro Moby Dick, del polacco Teatr Ósmego Dnia, del Teatro Due Mondi di Faenza. Un gioco di dimensioni, almeno in un caso su tre, decisamente spettacolari.

Molte le proposte nazionali e internazionali che si sono susseguite a partire dal 13 giugno con Concentrico, Festival che si dimostra in grado di guardare felicemente alla propria realtà cittadina fatta di amatori ancor prima che di frequentatori assidui di teatri, puntando sulla trasversalità e orizzontalità dei linguaggi. Teatro (con compagnie come gli Omini e Baby Walk), circo (Paolo Nani, Teodor Borisov e altri), sperimentazione (con R.OSA di Silvia Gribaudi), narrazione “classica” (Ascanio Celestini) e teatro per bambini (il Molino Rosekranz) coesistono fianco a fianco nei luoghi del centro e finiscono col non lasciar fuori proprio nessuno.

La varietà corrisponde all’ampiezza, la delicata intimità della sala e la vorticosa apertura dello spazio di piazza si affiancano ed equivalgono, diventano gregarie. A servizio di un invito: quello all’attenzione.

Invito denunciato dallo stesso logo scelto da Concentrico (un fossile spiraliforme che lo sguardo più attento può già trovare incastonato fra i marciapiedi e i portici della città di Carpi), oltre che primariamente inscritto già nella radice linguistica di quella pratica che a scapito delle settorializzazioni è teatro: invito sì, ma all’allenamento dello sguardo. Attivo, fuori dal rischio della dispersione.

Sotto questa luce parliamo dello spettacolo di piazza in anteprima nazionale che ha avuto luogo sabato 16 giugno in Piazza Martiri: Moby Dick del Teatro dei Venti. Perché il brulichio della piazza non si ferma mai, è palestra aperta 24h, dove direzionare lo sguardo è una scelta ben precisa. E a starsene nel mucchio si finiscono per capire molte cose.

La piazza è gremita, fin dalla sua anteprima nelle scorse settimane a Modena, sede operativa del Teatro dei Venti, la risonanza per l’operazione Moby Dick è stata altissima e ci sarebbe quasi da lamentarsi per le poche sedute messe a disposizione: se non fosse che l’imponenza della struttura in legno trainata tramite corde da marinai a torso nudo (probabilmente arruolati volontari per questa prima nazionale, un peccato per la loro funzione di sola cornice), permette che non si perda nulla delle coreografie, delle musiche e dei testi messi a punto per la schiera di 25 attori che su questa solcano la pianura come oceano aperto.

Moby Dick è prima di tutto un capolavoro di falegnameria e artigianato. Il carro (di 12 metri per 8 di ampiezza) verrà trasformato nel Pequod, leggendario bastimento melvilliano, direttamente dall’azione degli attori acrobati del Teatro dei Venti: la cura e l’allenamento, la spettacolarità data dalla preparazione fisica degli attori portano a un livello ancora più alto quello che da anni è il lavoro di ricerca della compagnia, il cui interesse è stavolta di pari misura artistico quanto organizzativo. La macchina è perfetta, una sfida dal sapore epico che non vuole essere puro intrattenimento ma soddisfa anche le esigenze di chi, nella grandezza dello spettacolo di piazza, ha necessità di essere stupito.

Ismaele il sopravvissuto si presenta, il ponte viene lavato e fatto risuonare a suon di secchi e stracci mentre il complesso su cui di lì a poco si installerà il claudicante Achab dà il ritmo a poppa. Si alzano i pennoni, si spiegano le vele, si costruisce in tempo reale. È una bambina aggrappata alle transenne che delimitano la scena di piazza a darmi una lettura bellissima nella sua semplicità del grande Leviatano del Teatro dei Venti: “ho capito cos’è! È una nave mangiata da una balena!”.

Il Teatro dei Venti è consapevole di quanta semplificazione possa darsi negli spettacoli di strada, ma il cetaceo che divora la nave non è certo stilizzazione né fatto di tecnica o spettacolarizzazione. Piuttosto è il fondo oceanico, sostiene. Con Moby Dick la compagnia ha voluto, cercato e portato sul ponte del Pequod e nella piazza di Carpi il vuoto insito in qualsivoglia ricerca e lo ha fatto attraverso lo scheletro legnoso del cetaceo. Con un fantasma. Con quella casellina mai piena che porta al movimento inesausto, necessario proprio in quanto frustrato e votato al fallimento: la balena è figura a un tempo dentro e fuori e fra il suo scheletro di legno, portato da braccia umane sul ponte che lo costruiscono pezzo dopo pezzo con la bocca protesa verso prua, si affacciano a ritmo d’onda gli attori; Achab resta l’anti-eroe, divorato dalla stessa coscienza di non poter seguire un altro e più sicuro percorso: in caccia da milioni di anni, sicuro della ricorsività di un’inquietudine che sia lui che il Leviatano portano già costruita dentro, opera di braccia umane o di altre braccia. La balena va inventata, ricostruita di volta in volta.

Con Moby Dick assistiamo a un archetipo il cui timbro dominante vuole raggiungere le profondità del rito. Chi ha avuto la fortuna di riemergere dalla lettura del romanzo melvilliano forse potrà avvertire la mancanza di quell’ironia e leggerezza che – non lo si penserebbe mai eppure è così – pure vive nel fondo archetipico della storia, che è insieme tante storie e storie di tanti. Allo stesso modo in cui questo rito finisce per creare in chi guarda un ulteriore vuoto nel finale, nel faccia a faccia dell’uomo con questa enormità: qui intenzione, ma non potenza del gesto. Una possibile traccia, forse, in quanto la scia che nell’immaginario ha il colore bianco del Leviatano e adesso risuona del legno del Teatro dei Venti sembra una nuova forma di invito per lo sguardo: verso l’ampiezza e verso la ricerca che anche se non muove in avanti, muove.

Di Maria D’Ugo

Ph: @Chiara Ferrin

Frosini/Timpano

CARNE di Compagnia Frosini/Timpano

Lunedì 11 giugno al Teatro Vittoria di Torino è andato in scena, per la rassegna Play With Food, Carne di Frosini/Timpano da un testo di Fabio Massimo Franceschelli prodotto da Gli Scarti e Kataklisma Teatro.

Carne è un’ironica interrogazione in forma di dialogo tra una coppia. Lei vegetariana, forse vegana, e lui vorace carnivoro. La discussione si avvia a partire da queste due posizioni opposte ma gradualmente sonda ed esplora anche angoli più nascosti e scomodi della questione.

Quando la carne diventa oggetto è perché è toccata dalla morte. Il cadavere è non più vivo, resta materia inerte, sfruttabile, vendibile. “Vivo – momento – oggetto”, come dice la donna. Cosa avviene in quel momento che sta tra la vita e la pura materialità dell’oggetto?

Kantor diceva che il teatro parla sempre della morte e questo è particolarmente vero per Carne di Frosini/Timpano. La carne attira su di sé il desiderio di vita, di piacere, d’amore, ma è anche pulsione di morte quando diventa cibo, merce da mercato. La faccenda si fa anche più complicata quando appare chiaro come i due aspetti diventino via via intrecciati e indistinguibili.

Frosini/Timpano sono artisti raffinatissimi nel costruire il loro teatro su questi nuclei incandescenti che suscitano prese di posizioni forti, spesso venate di pregiudizio, aprioristiche, attanagliate da fideistiche posizioni politiche, e che svolti e dipanati presentano grovigli ancora più intricati di polarità contrapposte.

La donna per esempio per quasi tutta la performance è vegetariana convinta ma quando si scopre incinta e anemica, ecco che spinta dal medico, diventa improvvisamente carnivora. Cambia il contesto e l’egoismo spinge a mutare schieramento.

La carne diventa campo di battaglia e per quanto si sorrida si scopre che su questo terreno la nostra civiltà ha poggiato fragili fondamenta fin dall’epoca più ancestrale. Come sottolinea più volte Harari, ma anche Calasso o Girard nei loro scritti, non siamo animale nato onnivoro. Ci siamo trasformati da preda erbivora in predatore carnivoro per imitazione. Siamo balzati in cima alla catena alimentare per volontà non per natura.

Nel sacrificio della carne gli antichi si sono interrogati. La tragedia nasce dal sacrificio del capro espiatorio, la carne bruciata e il sangue versato che scongiurava il male e la sciagura.

Frosini/Timpano, in questo lavoro, sollevano il tappeto sotto cui abbiamo nascosto le magagne intorno alla carne. Si interrogano attraverso la loro modalità sempre venata di comicità astuta, tagliente come un bisturi, sapiente in quanto forma di riflessione, sulla carne e sui pregiudizi di ogni lato e colore politico che gravano sulla questione e non illuminano ma nascondono il vero problema: la morte,

Frosini/Timpano sono due artisti che da sempre mi affascinano per questa loro capacità di mettere con sapienza il proverbiale dito nella piaga. Sia Acqua di colonia, dove in campo c’era il nostro passato coloniale e l’idea che noi italiani ci siamo costruiti di noi stessi e del nostro vergognoso passato; sia in Dux in scatola, dove il corpo del duce morto apre inquietanti scenari sul nostro dopoguerra e il modo in cui abbiamo sanato le ferite aperte dalla dittatura e la guerra civile; sia in Aldo Morto, dove il rapimento Moro viene analizzato senza falsi pietismi per illuminare quanto il fatto di cronaca abbia scosso il nostro immaginario e cambiato la nostra politica.

Frosini/Timpano non hanno paura alcuna di sollevare il vaso e scoprire i vermi che s’agitano al di sotto senza sosta e questo a costo di sembrare scomodi, politicamente scorretti.

Quello che fanno Frosini/Timpano è una messa in crisi costante delle narrazioni che come italiani ci siamo costruiti per fondare questo paese. E una narrazione non è mai veritiera, è sempre un romanzo fatto spesso dai vincitori, in cui si forza la storia per creare una storia.

La domanda che pongono Frosini/Timpano è: quanto sono state inquinanti quelle narrazioni? Quanta verità è stata nascosta perché ci si formasse l’idea che abbiamo di noi stessi? E quanto le nostre posizioni e idee sono corrotte dalle narrazioni che sorgono continue intorno a noi?

Ritornando ad Harari: come specie ci siamo distinti proprio per la capacità di costruire racconti e termini inesistenti proprio per unificarci al di là del piccolo branco. Abbiamo costruito civiltà, imperi e nazioni su concetti illusori: non ci sono frontiere, non ci sono razze, non ci sono nazioni. In quanto termini fallaci non contengono verità, sono tutto e niente, ogni posizione a favore o contro un argomento è costituita da polvere.

Frosini/Timpano ci fanno esperire la polvere, e lo specchio limpido che è nascosto sotto di essa.

Ph: @Emanuela Giusto