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Nathalie Bèasse

LE BRUIT DES ARBRES QUI TOMBENT di Nathalie Bèasse

Quello di Nathalie Bèasse è un universo teatrale a bolle. Il suo non è un racconto univoco, lineare ma uno spargere frammenti di uno specchio, pezzi di puzzle di cui, come nel libro di George Perec La vita istruzioni per l’uso, manca sempre un elemento per completarlo. L’immagine completa ci sfuggirà sempre.

Come afferma la stessa Nathalie Bèasse: «esploriamo senza rendere le cose leggibili». E così si ha in un primo tempo l’idea di confusione, di trovarsi di fronte a un oggetto sconclusionato, fumoso, che via via chiarisce la sua natura: come gli agenti in incognito ne Un oscuro scrutare di Philip Dick, lo spettacolo indossa una tuta disindividuante, lasciando trasparire di sé mille immagini sovraimpresse nascondendo la sua vera natura. Proteo redivivo.

La Biennale Teatro dedica a Nathalie Bèasse una piccola personale di quattro lavori, Le bruit des arbres qui tombent, Roses, Tout semblait immobile, Happy Child.

Il titolo del primo spettacolo in scena ieri sera al Teatro Piccolo Arsenale è Le Bruit des arbres qui tombent, ed è preso da una raccolta di poesie e canti di Indiani d’America, e letteralmente significa: il rumore degli alberi che cadono. Un titolo che sussurra parole di morte, un franare inevitabile tra rumori di schiocchi di rami infranti e frusciar di foglie. E questo sussurrar parole in un mondo perennemente sul filo del rasoio tra la vita e la morte incombente si ha da subito con la prima immagine: un enorme telo nero mosso dai quattro attori agli angoli del palco, che aleggia ora rabbioso ora soave, oscurando le luci, nero sipario, creatura viva e terrifica come il fumo nero di Lost mentre si diffonde l’Adagietto della Quinta Sinfonia di Mahler già tema de La morte a Venezia di Luchino Visconti.

Da questo incipit pieno di dolce tristezza e incombente ineluttabilità si dipana un universo di immagini che i quattro attori in scena (Estelle Delcambre, Karim Fatihi, Erik Gerken, Clèment Goupille) raccontano usando immagini ora lievi, ora divertenti, o struggenti e melanconiche, attraverso lingue diverse (Arabo, Inglese, Danese, Francese e qualcuna che forse non ho riconosciuto) piccoli frammenti narrativi.

Si racconta di una famiglia povera costretta a vivere insieme e che sogna di poter vivere finalmente separati; si enumera la genealogia di Gesù mentre un attore si spoglia e viene inondato d’acqua, – la genealogia si disperde, così come l’acqua -; si racconta di una lince che vivendo impara e quel che impara scompare con lei. Ma i racconti non sono fatti di sole parole, le immagini da sole si snocciolano e snodano sul palco costruendo un labirinto figurativo dove ritorna l’immagine famigliare, la morte e la solitudine. Bellissima quella dei vestiti gettati furiosamente in alto che si gonfiano quel tanto da far intravedere una figura umana che svanisce in un attimo, o come quella dell’uomo albero che vaga sul palco alla ricerca di radici. Molte sono le immagini e non serve qui descriverle ed elencarle tutte. Basta un accenno per comprendere il mondo narrativo-compositivo di Nathalie Bèasse, un universo delicato e deciso, che parla degli argomenti ultimi, di vita e di morte, di solitudine e melanconia, di struggimento che sorge dalla ricerca affannata di noi tutti di un oggetto d’amore che ci scaldi il cuore nel breve istante che ci separa dalla morte.

Il merito di Nathalie Bèasse è di usare un tono lieve e leggero, mai asseverativo, totalmente fuori dal mondo della rappresentazione e che evoca il mondo di François Tanguy e del Theatre du Radeau.

A tal proposito vorrei terminare questo piccolo racconto con un omaggio a un attore, Erik Gerken, che in un lontano passato insegnò moltissimo a me e ai miei compagni di viaggio nel periodo di residenza a La Fonderie di Les Mans. Ricordo questo straordinario attore che con estrema umiltà ci consigliava strade e percorsi possibili, insegnandoci esercizi di training, mostrandoci possibili interazioni con gli oggetti di scena. Lo ricordo in scena durante Orpheon, proprio durante la Biennale teatro del 1999 quando ci conoscemmo e per un breve tratto di strada ebbi l’onore della sua amicizia. Il suo pezzo di Amleto con Frǿde Bjornstad mi fece innamorare del teatro, amore che dura tutt’oggi.

Ph: ©J.Blin

Marco Martinelli

INTERVISTA A ERMANNA MONTANARI E MARCO MARTINELLI

Quest’intervista è stata realizzata insieme a Tessa Granato a Borgo Sansepolcro durante la prima giornata di Kilowatt davanti al Palazzo delle Laudi. Non posso che ringraziare Marco Martinelli ed Ermanna Montanari per la loro disponibilità e per la capacità di donarsi e raccontarsi con estrema generosità e sincerità. Abbiamo parlato di Maryam, loro ultimo lavoro, della ricerca sulla voce, di ribellione e delle nuove generazioni.

Enrico Pastore: Partiamo da Maryam: com’è nata l’idea di questo spettacolo, da quale esigenza? E quali sono state le fonti?

Ermanna Montanari: Ci siamo trovati a parlare con Luca Doninelli che ha scritto il testo dopo un processo drammaturgico fatto principalmente con Marco. Noi eravamo partiti con l’idea di affrontare un lavoro su Santa Teresa D’Avila ma a un certo punto non abbiamo trovato la chiave, ma volevamo assolutamente affrontare delle questioni rimaste ancora aperte con Rosvita. Fu allora che Luca Doninelli ci parlò di questa sua visita alla Chiesa della Natività a Betlemme dove aveva visto questa devozione delle donne mussulmane per Maryam. Una devozione che era preghiera e racconto per chiedere vendetta per le morti di figli, sorelle, per quello che si era subito nella vita. Luca Doninelli ha incominciato a scrivere sotto nostra pressione perché subito ci siamo detti: questo è quello che dobbiamo fare, è qui che dobbiamo andare. Ci ha aperto una luce che trovavamo fortissima e altamente vera in un mondo come questo. C’era sia l’abbraccio religioso sia, d’altra parte, una tremenda ferocia. Una preghiera non è solo un’Ave Maria o un Padre Nostro ma è anche una confidenza di tipo violento. Così abbiamo iniziato a lavorare con Luca Doninelli e con Luigi Ceccarelli per il suono e a cui abbiamo chiesto di creare una musica di stile nordafricano.

A un certo punto abbiamo cominciato a lavorare in una visione nera, scura, solo con un microfono e un performer. Abbiamo anche chiesto al poeta tunisino Tahar Lamri, che vive a Ravenna, di darci una mano con tutto il materiale relativo a queste donne che sono soprattutto palestinesi e siriane. A un certo punto abbiamo pensato di usare anche la lingua araba come scrittura. Il pubblico è separato da un velo e su questo velo sono proiettate le parole di tutto il racconto, che appare quindi sopratitolato ma per noi è soprattutto un’immagine. È come essere dentro a un libro religioso, un libro che porta le parole di queste donne. Io dietro il velo faccio tutto, nel senso che faccio tutte le voci. In realtà non c’è scena. È tutto nero, c’è solo un corpo immobile ma ciò che danza sono la musica, la luce e le parole. La luce è importante, perché quello che chiedono le donne, la domanda che fanno a Maryam è soprattutto una richiesta di luce anche se è una luce di tenebra. La luce c’è anche nelle tenebre se no non potremmo vedere né l’una né l’altra. È un lavoro dove tutto è sfocato.

Alla fine appare Maryam che dice delle cose molto potenti. Quando abbiamo fatto le prime anteprime al Sud, tra Bari e Napoli, la gente piangeva. Sono luoghi dove la Madonna è nel quotidiano. Le parole di Maryam, non so come dire, è come se io portassi veramente quelle parole. Non c’era spazio per la critica. È stato per noi qualcosa di sorprendente. A Milano invece è stato completamente diverso. Ognuno poteva dire la sua sulle parole di Maryam. In realtà Maryam dice tre cose fondamentali: cosa posso darvi io che non ho potuto nulla di fronte a mio figlio in croce? Non ho nulla da darvi: né riscatti, né vendette. E dice anche che non ha perdonato Dio, perché il dolore non si dimentica anche nella gloria eterna. E comincia a parlare dei pianti. Dio conosce il pianto, l’amore conosce il pianto. L’amore è pianto. È potenza e insieme impotenza. L’ultima frase, molto potente, dice: voi sarete sempre con me là dove nessun figlio muore. Non c’è nulla. Parla del mistero. Un mistero doloroso. Perché le tre donne di cui si parla vivono nella dimensione del dolore. Sono donne che hanno subito una perdita. E la perdita è qualcosa di molto terreno che ognuno di noi prima o poi prova.

Tessa Granato: Il fatto che in Maryam lei reciti dietro un velo, sempre, mi fa pensare al suo essere una Voce, bagno sonoro e atto concreto, materiale. Mi fa pensare anche alle guaritrici africane, che lei so avere incontrato nel suo viaggio in Senegal, e che proprio nascoste da un velo emettono canti e formule che portano, in certi casi, alla guarigione. Lei ritrova una vicinanza tra il potere della sua voce e quello di alcuni rituali magici?

E.M.: Quando siamo stati in nella savana senegalese ho assistito ad alcune guarigioni. Le voci provenivano da una persona che mai si rendeva visibile, perché tutto avveniva dietro un telo, che spesso era sporco, annerito, su cui sopra vi avevano magari poco prima dormito degli animali. Il potere di questi suoni, e vibrazioni, era palpabile. E sì, Marco ha volutamente ideato per Maryam un luogo nero, oscuro, da cui escono voci di donne (Zeinab, Intisar e Douha), che poi in realtà diventano una sola voce, la voce del femminile, ma anche del maschile, dell’umano, dell’universale, di un quotidiano esemplare. Se a qualcuno viene stuprata un’amica, l’istinto è di rivolgersi a una entità superiore per chiedere giustizia, e vendetta. Chiaramente questo disturba, ma io credo che sia allo stesso tempo una forma di preghiera naturale, seppur feroce, e che in chiesa si possa inveire, bestemmiare. Un controsenso, come anche i mostri che vi troviamo raffigurati, dipinti o scolpiti, quasi ci suggeriscono. Penso a quella stessa spinta contrastante che c’è in Testori, ad esempio, e senza la quale non avremmo avuto tutto quello che di meraviglioso ha scritto.

EP: vorrei farti una domanda tecnica: come si sviluppa la tua ricerca sulla voce anche rispetto all’utilizzo della tecnologia? Ti faccio questa domanda pensando, per esempio, a quanto diceva Carmelo Bene, su quanto la tecnologia potesse aiutare la ricerca, e come permettesse alla voce di uscire dal dire, potesse aiutare a depensare la voce.

EM: Il lavoro sulla voce inizia ben prima che noi stessi scoprissimo tutto di questo lavoro, ben prima di immaginare un involucro sonoro che contenesse e avviluppasse anche la platea. Qui all’Auditorium di Santa Chiara forse non riuscirete a vederlo e ad averlo nella sua sontuosità. C’è un impianto audio costituito da molti diffusori posti sia intorno alla platea che all’interno del palcoscenico, solo che in spazi così piccoli, come qui a Sansepolcro, tutto è compresso. La regia del suono è di Marco Olivieri che lavora con noi già da qualche tempo, ha curato anche la regia del suono di Inferno. È lui a decidere ogni volta lo spazio sonoro, così come noi decidiamo lo spazio scenico. E qui. in questa piccola chiesa, che contiene solo 80 spettatori, ha creato un spazio compresso, ma nonostante questo ci si trova immersi in questo orecchio. Questo lavoro è un grande orecchio perché a Dio giungono i pianti dei padri e delle madri. Tecnologicamente questo è un lavoro estremamente raffinato e sontuoso così come lo era L’isola di Alcino, Lus, Inferno. Sono tutti dei bozzoli sonori. La ricerca sulla voce è un processo estremamente complesso. È ciò che si ascolta, ciò che si da e ciò che la voce genera. Marco Olivieri però non mi ruba la voce e me la restituisce in altro modo. Io lavoro solo con un microfono, e Marco con i diffusori. Non c’è nessuna alterazione vocale.

Marco Martinelli: Sì, direi che è Ermanna che fa tutto il lavoro con la voce, che genera le alterazioni e i toni. Marco Olivieri pensa a portare questa voce, a farla viaggiare intorno e per gli spettatori.

EM: Il lavoro con il microfono è estremamente importante. Esso genera la voce. È uno strumento, una sonda. Ti faccio un esempio: Marco Olivieri mi ha suggerito un nuovo microfono che le prime volte mi imbarazzava tantissimo. Non sapevo proprio cosa farci. Era come non saper muovere i tasti di un pianoforte o suonare le corde di una chitarra. Poi ti alleni, provi e cominci a capire come suonarlo. Capisci che questo strumento può dare al tuo strumento qualcosa di imprevisto e allora puoi volare, puoi creare una dimensione. Questo microfono prende tutte le cose più piccole, al limite dell’udibile, dove magari, per esempio, puoi non chiudere una vocale. Prende il resto, ciò che resta. Rende tutte le sottigliezze, puoi quasi sussurrare, parlare come una sonnambula. Così come la luce posso diventare quasi impalpabile.

EP: possiamo dire rubando le parole a Demetrio Stratos che è un modo per suonare la voce?

EM: Sì, è così. È assolutamente così. Demetrio Stratos è un maestro per me.

T.G.: Le vorrei chiedere come si prepara per la costruzione di uno spettacolo: ha un metodo, un procedimento a lei caro per concentrarsi, e cercare la chiave per entrare nel lavoro che deve venire alla luce?

E.M.: Tra tutti i luoghi chiusi, le chiese sono spesso i luoghi dove passo del tempo, sono il mio luogo. Ci vado perché lì vi scorre il mondo, ed è dove restano le voci del mondo. Ci vado per ascoltare, nient’altro. Lì non sono solo custodite le voci presenti, ma anche quelle passate e future, è lì che le pietre suonano, perché racchiudono miracoli, racchiudono i secoli. La voce è avere un grande ascolto, la voce è ascolto, è un atto spugnoso. Tutti ne abbiamo una, perché tutti noi abbiamo un piccolo o un grande ascolto, e questo determina l’avere una piccola o una grande voce.

Per raggiungere lo stesso scopo amo anche stare negli spazi aperti, come il mare, le terre sconfinate. Ho smesso di condurre i laboratori vocali proprio perché estremamente difficoltosi, dato che presuppongono il passare giorni e giorni in silenzio e in spazi ben precisi, in totale ascolto. Non si tratta infatti, nel mio caso, di cercare una figura, calarsi in un personaggio e imitarne una voce, no – perché tutti in fondo siamo bravi a fare le imitazioni. Per me si tratta di un altro tipo di ascolto, interiore, quello di cui parlano Carmelo Bene e Antonin Artaud. è come produrre icone: la tecnica, i passaggi giusti, perfetti, sono necessari, ma dopo un po’ si viene posseduti da una smania, dal bisogno di farsi attraversare da più movimenti, più voci. Si sente l’urgenza di non pensarsi.

EP: Nella vostra lunga carriera avete attraversato un periodo di grande fioritura del teatro italiano, forse l’ultimo grande periodo di grande sviluppo in Italia e in un regione che ha dato tantissimo. Ecco rispetto a questo vostro percorso, alla vostra storia cosa vedete nel nuovo teatro che sorge? Vi faccio questa domanda perché parlando spesso con i giovani artisti sento in loro un grande senso di solitudine nella ricerca, fanno fatica a prendere contatti con i maestri che li hanno preceduti. Ma non solo il loro agire è molto più imbrigliato nei bandii, nel rispondere a delle call precise che indirizzano il lavoro più nell’assolvere a queste richieste che sono l’unico sbocco produttivo più che seguire un’urgenza personale. Questa per esempio è la netta sensazione che ho riscontrato nell’osservare le ultime finali del Premio Scenario. Ecco voi cosa vedere nel nuovo teatro che sorge anche rispetto alla vostra storia personale?

Marco Martinelli: È una bella domanda. Innanzitutto penso che tu veda molte più cose di quelle che vediamo noi. Noi facendo tanto, lavorando tanto non abbiamo molte possibilità di vedere. È un po’ come diceva Gadda quando gli chiedevano dei romanzi suoi contemporanei e lui rispondeva: faccio così tanta fatica a scrivere i miei che non ho proprio tempo di leggere quelli degli altri, come faccio a essere così informato? D’altra parte noi conosciamo e collaboriamo con diversi gruppi giovani con cui abbiamo collaborazioni e rapporti di amicizia e forse ci troviamo con loro perché nessuno di questi parte dai bandi. Il nostro è uno sguardo limitato. Noi siamo in sintonia con i ribelli di oggi e per noi questi sono un segno di grande speranza e di grande bellezza. E c’è da dire un’altra cosa. Ogni epoca ha il suo conformismo, non è che la nostra fosse diversa. Magari non aveva certi tratti che oggi sono così micidiali però c’era lo stesso un conformismo. I veri ribelli non erano la maggioranza neanche allora.

Ermanna Montanari: Nella nostra generazione tutti facevano teatro all’università. C’era il voto politico, tutti lavoravano con i bambini. Mi ricordo che era stato fatto un censimento e c’erano più di seicentocinquanta compagnie solo nel Nord Italia. E questo quando siamo nati noi, Valdoca, i Magazzini Criminali, la Societas Raffaello Sanzio. Non eravamo soli quindi. C’era un Humus da cui qualcuno riesce a emergere, a sfuggire dalle urgenze della propria epoca.

T.G.: Rispetto alla vostra esperienza con gli adolescenti di Scampia, che avete iniziato al teatro con il metodo della non-scuola (ormai esportato anche nel Bronx di New York, o nel quartiere portoricano di Rio de Janeiro, o nella comunità afroamericana di Chicago), avete seminato qualcosa che può davvero germogliare per i partecipanti in uno sbocco professionale?

Marco Martinelli: Questi ragazzi sono il nostro orgoglio. Molti di loro hanno cominciato a lavorare con noi, nel progetto Arrevuoto a Scampia, quando avevano 14/15 anni; e dopo 3 anni di esperienza, quando questa stava volgendo al termine e loro avevano più o meno 17/18 anni, abbiamo pensato che non avremmo potuto lasciarli soli. Abbiamo quindi ideato un’altra sorta di scuola, della durata di tre anni, chiamando anche Danio Manfredini e Armando Punzo, mettendoli in relazione reciproca, per far conoscere ai ragazzi altre modalità di lavoro rispetto al nostro, farli confrontare con altro teatro contemporaneo. Dopo quindi un periodo formativo durato 7 anni, c’è stata la spinta, da noi supportata, di fondare una Compagnia: la Compagnia Punta Corsara, un gruppo indipendente che potesse costruire la propria poetica. Perché per noi lavorare nel teatro è questo – più che fare provini per registi e compagnie altrui. Seguendo l’esempio del Teatro delle Albe, in una felice operazione di buona mimesi, si è creato un gruppo divenuto una realtà forte e concreta, che ha ottenuto anche premi e riconoscimenti. Posso dire che ai ragazzi di una zona penalizzata come Scampia, il teatro ha cambiato la vita, ha dato un senso al loro stare al mondo.

T. G.: Lo scopo quindi è cercare le fessure, le crepe del sistema, e allargarle per fare entrare le proprie idee creative ed espressive?

M.M.: Sì, è questo il concetto che cerchiamo di passare agli adolescenti. Non so se vi ricordate quella perla cinematografica che è Che cosa sono le nuvole? di Pasolini, quando a un certo punto Otello/Ninetto Davoli chiede confuso quale sia la verità, se quella di Otello, di Desdemona, o quella del burattinaio che lo manovra. E Totò/Jago (che morirà proprio pochi mesi dopo la fine del film) risponde, “ma cosa senti dentro di te? Prova a sentire. Ecco, quello che senti è la verità. Però non dirla, altrimenti scompare.” La cosa che parla e risuona nella testa, nel corpo, e che dobbiamo provare ad ascoltare, ecco quella è la nostra forza. Aldilà di bandi e terrorismi. Ciò che urge e pulsa dentro di noi, dobbiamo metterlo in atto, con determinazione d’acciaio. Ripensando anche al concetto di speranza, come recita il titolo di Kilowatt Festival, Principio speranza, proprio come il libro di Ernst Bloch: speranza è un rigagnolo che sopravvive anche alla siccità più estrema; è prezioso, e va alimentato e tenuto in vita.

Maryam

MARYAM di Ermanna Montanari e Teatro delle Albe

Maryam è Maria, madre di Gesù, nel mondo islamico. La Sura XIX del Corano è a lei dedicata ed è figura amata dalle donne dell’Islam. La sua icona di madre sofferente, di colei a cui Dio/Allah ha chiesto il sacrificio più grande, di credere in lui nonostante la morte in croce del proprio unico figlio, raccoglie la devozione e la preghiera delle donne del Maghreb e della Palestina. Maryam è colei attraverso cui Allah, il Misericordioso, ha voluto dare un segno, “prescelta tra tutte le donne del mondo”, “segno per le genti” e il cui abbandono e il cui dolore sono ricettacolo di altro dolore e sofferenza. A Maryam le donne d’Islam si rivolgono per ottenere pace, vendetta, ascolto per e alle proprie sofferenze di mogli e di madri. Figura di donna angelicata, cara a Dio, elevata sopra e al di là del mondo e della sua immensa sofferenza, anche nella gloria di Dio ricorda il dolore e lo conserva, perché niente può far dimenticare. E così Maryam diventa dea madre, erede delle Grandi Dee dei pagani, a cui le donne tutte possono rivolgersi per chiedere e ottenere grazia, protezione e vendetta.

In questo ultimo lavoro di Ermanna Montanari, diretta da Marco Martinelli, Maryam ascolta le invocazioni di tre donne palestinesi, – Zeinab, Intisar e Douha -, che hanno perso figli e sorelle. Tre storie terribili, violente, strazianti. Le parole di Luca Doninelli che le riscrive si fanno voce e suono attraverso Ermanna Montanari che le rende vive, solide, potenti, feroci e crudeli. La madre che ha perso il figlio, autore di un attentato suicida, che con orrore scopre la borsa contente il denaro prezzo di un’inutile sacrificio; la donna che piange l’amica venduta dallo zio indegno, ubriaco e lubrico, che alla morte del fratello si impossessa di una famiglia non sua disfacendola nel dolore e nella violenza; la madre che perde il figlio nel tragitto di fuga attraverso il mare verso l’Europa. Tutte loro gridano a Maryam il loro dolore, tutte loro chiedono vendetta, chiedono che coloro che portarono il male nel mondo siano dal mondo espulsi tra infinite sofferenze, per essere ripagate del loro strazio, non chiesto, non cercato, non voluto. Ah, quanto è duro il loro dire che si fa schiaffo attraverso la voce di Ermanna Montanari. Quanto dolore che ci fa tristi e raccolti, quanto dolore spinse queste donne al doloroso passo di chiedere alla Madre di Gesù di vendicarle, sostenerle, consolarle, persino strapparle a quella sofferenza che non si può contenere in un’anima sola.

Ermanna, come una sciamana, dietro il velo si fa voce per loro, riporta le invocazioni, le maledizioni, mentre immagini traforate di finestre arabe disegnano reticoli e scritte in arabo solcano il velo che ci divide da lei, in quella lingua misteriosa fatta di piccole curve, vermicelli, brulicante di vita in quei segni per noi incomprensibili e alieni. Un disegno di luci che accompagna e potenzia quanto si ode al di là del velo: macchie rosse che come demoni prendono forma di corpo informe e inquieto; la donna che ci fissa immota se non per lo sbattere delle palpebre, occhi duri che pongono domande, che chiedono conto di questo infinito sopportare; glifi arabi che tagliano come spade di luce il nero velo.

E la voce di Ermanna si fa creatura viva, si fa attraversare dalla rabbia, dal dolore, dal chiedere senza sosta giustizia e vendetta. Si fa materia dura, come diamante e come lui tagliente, a cui niente resiste allo stridere delle parole che come macigni lapidano i misfatti che prendono vita. Si perché il peccato commesso chiede che si scagli la prima pietra di una lunga fila che seppellisca il male commesso e subito. Per lo zio che condanna a una vita infame l’amica si chiede il peggior cancro, a coloro che hanno corrotto quel figlio gentile fino a fargli commettere una strage si chiede una vita di dolore e sofferenza, senza amore, senza figli, senza famiglia; la madre senza più figlio né marito, ormai inaridita e incattivita chiede a Maryam di capire, di poter almeno comprendere. Ermanna si fa preghiera e maledizione, perché la preghiera a volte si avvicina alla bestemmia, per scuotere il divino, per costringerlo a proteggerci dal male che incombe su di noi in ogni istante e ad ogni passo di questa vita miseranda. Ma il divino tace, mortalmente assente da questo mondo, ritirato forse per sempre in un abisso incomprensibile e sideralmente distante.

E ora l’ultimo passo: Ermanna si fa voce di Maryam, risuona della voce della madre. E non ha risposte per noi. Non ha nessuna consolazione lei che per prima è stata incapace di allontanare il calice, non ha potuto schiodare il figlio da quella croce infame. Non ha potuto aiutare il figlio abbandonato da dio e lasciato a disperarsi aggrappato a quei chiodi e a una corona di spine. Che posso per voi io che per prima non ho potuto niente per me?

In quel nero quadrato che è la scena dove voce, suono e luce disegnano preghiere non c’è risposta alla domanda di giustizia e vendetta. Sembra esserci solo rassegnazione. Lontana è ogni giustizia, nemmeno rinviata al giorno del giudizio. Un finale in minore, che lascia insoddisfatta questa rabbia, questo desiderio di giusta vendetta. All’impotenza di queste donne di fronte alla tragedia e al male, risponde altrettanta impotenza da Maryam che pur partecipa del divino e della sua gloria. Il dolore resta, sfregia le anime irrimediabilmente. Le cicatrici restano come segni indelebili, il male non si cancella e non si vendica, e nemmeno l’amore di Maryam può lenirlo.

Questo ultimo lavoro di Ermanna Montanari e Marco Martinelli andato in scena a Kilowatt a Borgo Sansepolcro è disperato e disperante, colmo di sofferenza che non trova canale di scolo in cui dissiparsi. L’orrore monta e riempie il cubo nero in cui il suono/racconto prende vita e poi si sgonfia come la rabbia di Pluto nell’inferno dantesco e poi che l’alber fiacca, tal cade a terra il dolore di queste donne, cade su questa ripa che’l mal de l’universo tutto insacca. Come i pianti e le bestemmie dei dannati nell’inferno le parole di queste donne non trovano consolazione perché Dio è distante, e per quanto conosca tutte le nostre lacrime nulla fa per lenirle.

Foto Cesare Fabbri

Eva Neklyaeva

SANTARCANGELO 2017: INTERVISTA A EVA NEKLYAEVA

Eva Neklyaeva è una direttrice artistica giovane, con una lunga e prestigiosa carriera alle spalle. Da un anno a Santarcangelo, affiancata da Lisa Gilardino, è al debutto per il pubblico e la critica italiani. L’ho incontrata e intervistata martedì 11 luglio e l’impressione che ho avuto è stata quella di trovarmi di fronte a una donna capace, molto determinata e con le idee molto chiare sul lavoro che intende svolgere in questo triennio. Nei quattro giorni che sono rimasto a Santarcangelo ho potuto vedere un festival vivo, con un pubblico attento e curioso, con una programmazione che ama la contaminazione di generi, che tende a proporre processi più oggetti artistici, e molto inserito nel contesto in cui si innesta. Auguro a lei e al suo staff di poter oprare in serenità e continuare sulla via intrapresa.

Enrico Pastore: Eva qual è il tuo principale obbiettivo come direttrice artistica?

Eva Neklyaeva: Questa è una domanda difficile. Il mio principale obbiettivo come direttrice artistica è sempre dipeso dal contesto in cui mi trovo a operare. La mia azione è tesa a combinare diversi contesti e a mescolare arte, politica e sociale. Questo dipende sempre dalla comunità in cui ci si trova ad agire. Nello specifico di Santarcangelo il mio principale obbiettivo è mostrare come l’arte contemporanea, la performance, il teatro, la danza possano essere rilevanti e affascinanti sotto molti punti di vista, su molti strati e livelli e per molti tipi diversi di pubblico.

EP: Leggendo il programma del Festival sembra che la tua attenzione sia focalizzata su processi artistici ibridi: non proprio teatro, non proprio danza, e nemmeno veramente performance. È ai confini che succedono le cose interessanti?

EN: Ho seguito artisti il cui approccio si potrebbe definire nella volontà di andare oltre le discipline e questo significa che cercano di produrre degli oggetti o processi artistici che si focalizzano più su un tema che sui generi o su delle cornici istituzionali e tradizionali. Questo non significa necessariamente che sia interessata a quello che avviene in zone di confine quanto più a camminare in uno spazio in cui avviene quel momento di confusione rispetto a quanto sta accadendo nell’istante. E in quella confusione si innescano diversi tipi di coinvolgimento. Il pubblico ha sempre una scelta. Può decidere che quella cosa non la capisce e andarsene, ma può anche decidere di superare quella reazione e allora sì che le cose possono succedere veramente.

EP: potremmo anche dire che le Live Arts stanno cambiando e che i generi non riescono più a contenerne l’azione?

EN: Assolutamente. La mia esperienza mi dice che gli artisti sono sempre un passo avanti nel loro modo di pensare e che le istituzioni sono sempre un passo indietro nel comprenderne l’azione.

EP: Ho letto nelle tue prime interviste, che il tuo approccio alla vita non sta nel vedere dei problemi ma delle sfide che possono essere vinte e risolte, per cui ti chiedo: qual’è la principale sfida che hai dovuto affrontare da quando lavori in Italia e come hai cercato di risolverla?

EN: Lavorare in Italia è per me una enorme, incredibile avventura di vita. È difficile lavorare qui. Dopo qualche tempo ho cominciato ad apprezzare i miei colleghi italiani su un piano completamente diverso. Ora capisco veramente quanti sforzi siano necessari per produrre e lavorare in questo paese. E nello stesso tempo ho potuto constatare che il livello di coinvolgimento, il livello di ogni conversazione che ho sostenuto è veramente alto. Questi sono i due aspetti principali. Abbiamo molte sfide. Solo per elencarne alcune partirei dal constatare come le varie istituzioni sono posizionate su molti livelli e siano molto divise. Il loro supporto esiste, sia da parte delle municipalità sia da parte del governo, ma d’altra parte gli sforzi necessari da parte degli artisti per entrare in queste categorie o generi per ottenerli sono veramente enormi. Sono rimasta molto colpita, parlando con una coreografa, nel realizzare quanti spettacoli per anno siano necessari per essere supportati dal Ministero e come questo ostacoli la ricerca, perfino la creazione di progetti fluidi. E questo considerano anche il fatto che la distribuzione sia molto difficile. Tutto questo è molto complicato. È molto evidente come le istituzioni in Italia mettano veramente sotto stress gli artisti e gli staff e che le condizioni di lavoro siano molto disagevoli. Ci sono veramente molte sfide da affrontare.

Vorrei anche aggiungere che in questo anno di lavoro in campo teatrale sento spesso i miei colleghi dire che una delle sfide sia che il pubblico non è pronto per i linguaggi artistici contemporanei e questo credo che non sia assolutamente vero. Questa non è una sfida che dobbiamo affrontare. In questo primo week end a Santarcangelo il pubblico si è dimostrato numeroso ed entusiasta e ogni spettacolo ha registrato il tutto esaurito. Quella del pubblico non è una sfida che dobbiamo affrontare.

EP: Molti festival di teatro e danza rischiano la loro sopravvivenza. Il Premio Scenario non ha più il supporto del Ministero. Armando Punzo ha rinunciato alla direzione del festival di Volterra. Ecco in questo contesto quali sono le condizioni di Santarcangelo dei Teatri?

EN: Santarcangelo è un festival molto affermato con una storia di ben 47 anni. I rapporti con i suoi finanziatori sono stabili. Siamo finanziati da Comune, Regione e Ministero ma anche da molti sponsor locali sia in servizi che a livello finanziario. Possiamo dire che il nostro budget non è assolutamente commisurato al livello di festival che abbiamo ma sono molto felice di poter dire che i rapporti con le istituzioni e con i nostri sponsor sono tali da farci comunque lavorare e pensare in termini di lungo periodo.

EP: In Italia le Live Arts sono afflitte da molti cronici problemi sia per quanto riguarda la produzione, sia per quanto riguarda la distribuzione. Come hai detto anche tu la ricerca è molto difficile. Cosa possono fare i festival per cercare di migliorare la situazione?

EN: I festival sono una straordinaria occasione per vedere e scoprire lavori molto radicali, e questo anche perché il pubblico percepisce i festival come delle “eccezioni”. Nei festival assisti a lavori che non si riescono a comprendere immediatamente e comunque non si riesce a entrare subito in sintonia, che sorprendono. Ecco questo è quello che possono fare i festival: spingere questi lavori estremamente radicali. Mostrare lavori che non vengono fatti vedere da nessun’altra parte. Produrli, promuoverli e presentarli. Tuttavia, detto questo, è compito poi delle istituzioni, dei teatri e dei musei di prendere questi lavori e “normalizzarli”. Prendersi cura di loro facendoli girare, distribuendoli, proponendoli al pubblico in una normale programmazione durante l’anno. E questo diciamo che ancora non sta avvenendo.

Orthographe

ORTHOGRAPHE Stanze. Racconto per camera preparata.

La stanza preparata degli Orthographe, preparata come un pianoforte cageano con suoni e luci, è profonda nella terra, nelle suggestive cantine di Villa Torlonia. È una stanza che ricorda quelle evocate da Bruno Schultz: “stanze di cui ci si dimentica. Trascurate per mesi, deperiscono in totale abbandono fra le vecchie mura, e accade che si rinchiudano in se stesse e, perdute per sempre alla nostra memoria, smarriscano a poco a poco la propria esistenza”. In quella profonda e fresca cantina, dove una linea spezzata di laser viola, disegna un percorso tortuoso, mentre una palla di luce evanescente rende le volte mattone ancora più misteriose ed evocative, appare come dal nulla, dal buio che inghiotte i confini della cantina, un uomo che inizia con voce monotona, lenta a raccontare. Il racconto viene dalla raccolta The bells will sound forever di Thomas Ligotti, nichilista e antinatalista convinto, i cui pensieri sono noti ai più nelle tirate di Rusty contro l’essere umano nella prima e fortunata serie True Detective.

E i campanelli risuonano nel paesaggio sonoro, suonano davvero, tanto che pare d’esser per davvero nella casa misteriosa dell’inquietante Signora Pike. Se la voce culla e trasporta come un mantra, il suono raggela e incupisce, quasi stia per avvenire qualche fatto oscuro e illecito, quasi che la malia che promana dalla casa della Signora Pike sia pur presente tra i mattoni e le volte della cantina. E la luce, sapiente, dalla penombra fa emergere figure fino allora non notate, linee di fuga che come lame tagliano lo spazio e disegnano come delle vene pulsanti e frementi. La cantina è viva e partecipa di una natura a dir poco inquieta. E come dal buio è venuta la presenza e la voce, così nel buio ritorna: i campanelli hanno suonato, la storia terribile è stata raccontata.

Orthographe nella regia di Alessandro Panzavolta e con la voce di Massimiliano Rassu, preparano un luogo atto a ricevere il racconto, un luogo che racconta a propria volta, con il suo linguaggio silenzioso, con i suoi scricchiolii, i sospiri dei muri, l’odore di umido, di vecchio e di stantio. E queste voci e questi odori si congiungono con nozze alchemiche ed equivoche con quelle elettroniche, con le luci laser, con i soffusi bagliori in sinfonia con la parola e il racconto. Si vive nella casa della signora Pike, si prova l’inquietudine del signor Kramm, si è immersi nel vecchio solaio e il volto sullo scettro del fool è anche il nostro.

Si emerge da questa esperienza preparata dagli Orthographe con la sensazione di essere in fondo scampati a qualche pericolo, di esser stati testimoni di qualcosa di illecito, e con un sospiro quasi di sollievo si accoglie la calura estiva che si incontra riemergendo da quello strano mondo profondo nascosto in cantina.

Filippo Michelangelo Ceredi

BETWEEN ME AND P. di Filippo Michelangelo Ceredi

Pietro scompare come Majorana senza lasciare tracce nel luglio del 1987. Filippo Michelangelo Ceredi aveva cinque anni. Ma se suo fratello sparisce senza tracce evidenti in lui una traccia resta, seppur sepolta per 25 anni, e poi esplode nel ritrovamento di un cassetto pieno di lettere, foto, registrazioni di Pietro.

E così si riapre ciò che era stato sepolto e sommerso. E Filippo Michelangelo Ceredi incomincia a scavare, grattare la superficie, per far affiorare un’immagine, quella di Pietro e dei suoi tormenti, delle sue inquietudini e delle sue insicurezze.

In una penombra si vede il performer seduto alla tastiera di un computer. Sullo sfondo uno schermo su cui cominciano a scorrere fotografie, video, testimonianze, ritagli di giornali. Lentamente dal buio si delinea l’immagine di Pietro, e tutto ciò che lo turbava tanto da decidere di scomparire al mondo. Disagi intimi e familiari, difficoltà di trovare un luogo definito, un approdo nella tempesta.

Un uomo di molti talenti Pietro, studioso quasi monacale, indagatore del mondo e dei suoi mali da cui sempre essere morbosamente attratto (lo si intuisce dai ritagli di giornale che conservava, di assassinii, di guerre, di macabri fatti). Le sue foto sono inquietanti e terribili, in un bianco e nero opprimente, dove nel soggetto appare la sua immagine riflessa senza volto, oscurata da un casco o dalla macchina fotografica. Presente/assente, convitato di pietra, lui si aggira nella scena come una horla di Maupassant. Ma non è tanto Pietro che inquieta quanto Filippo che nella penombra della sala si aggira e ricostruisce una sorta di altare, con i libri disposti nello spazio, le musiche di Pietro, le immagini di Pietro, la voce di Pietro e dei familiari, le lettere degli amici.

Una performance in cui non c’è catarsi nel pubblico ma solo del performer in scena che si affanna a comprendere e metabolizzare, ferito da una presenza, lacerato da questa scomoda scomparsa. Si è testimoni di una sorta di macabra rappresentazione dove l’immagine del vivo e quella dello scomparso si sovrappongono senza mai coincidere. Si annusa un respiro di malattia, di insanità.

Si prova inquietudine di fronte a questo scorre di una vita interrotta alla storia, senza morte, senza presente eppur presente. Tempo fa provai l’esperienza di Pietro, un amico decise di sparire fuggendo da un matrimonio senza lasciare traccia né spiegazione. Nessuno sa dove sia finito. Mi piace pensare che se la stia godendo e ridendo di noi ingabbiati nelle dinamiche del mondo. Eppure so che in fondo sia tutti dei Mattia Pascal e per quando fuggiamo nella nebbia, porteremo sempre dietro noi stessi e le nostre miserie nascoste nel profondo dell’animo. La presenza di questi scomparsi, fantasmi magari vivi e vegeti, magari morti e seppelliti è ingombrante. Tremendamente.

Ma c’è un però. In arte anche la più profonda ferita diviene materiale e nel compiere questa trasformazione deve avvenire un distacco, una proiezione in un luogo algido e distante dove poter osservare e operare. Come chirurghi come artisti non si deve considerare il materiale come un paziente che soffre ma come un problema da risolvere. E questo nel caso di Filippo Michelangelo Ceredi non avviene. Si sente la sua commistione con il materiale, si sente il suo disagio che impedisce al materiale di divenire universale, di toccare le corde degli altri oltre una seppur partecipe empatia.

Vi è troppa clinica in questo lavoro per farmelo apprezzare sul serio, nel modo che considero giusto dal mio punto di vista. La storia particolare di Pietro/Filippo è troppo distante, troppo personale, per toccare delle corde che risuonino a lungo, e forse a causa di Beppe Marchetti in me un po’ più a lungo di altri. Manca uno scarto vero verso un qualcosa di totalmente universale e condivisibile. Come diceva Primo Levi nelle grandi tragedie si può distinguere tra i sommersi e i salvati: i primi senza parola non raccontano storia alcuna se non con il loro esserci stati, i secondi sono comunque dei privilegiati che sopravvivono con il senso di colpa. Ecco in fondo sulla scena accade questo, c’è un sommerso e c’è un salvato, il secondo, Filippo Michelangelo Ceredi, troppo addolorato dall’immagine di chi è scomparso e che si aggira e si affanna per far emergere l’immagine di chi ha deciso di non essere più.

Santarcangelo

Benvenuti a SANTARCANGELO DEI TEATRI – 07/07/17: The Olympic Games e Molotov Cocktail Opera

Trascorsa la prima delle giornate che ridisegneranno a poco a poco la topografia di Santarcangelo di Romagna fino al 16 di luglio, in occasione di un festival che per quest’anno afferma con forza la sua volontà di rinnovamento e apertura “a un pubblico nuovo” fin dalla prima pagina del suo programma cartaceo – qualora lo si riesca a reperire, al di fuori del “confine” romagnolo, poiché affidarsi esclusivamente al sito on-line e alla sua mega-cellula in espansione è un’esperienza che dà sicuramente più all’estetica e al visuale che alla pura comunicatività e informazione –, un piccolo sguardo su due delle “cerimonie di apertura” che hanno salutato l’ingresso di questa edizione 2017: l’anteprima di The Olympic Games di Marco D’Agostin e Chiara Bersani e Terra bruciata. Molotov Cocktail Opera dello svedese Markus Öhrn.

Una scelta decisamente accattivante quella di trasformare lo spazio del Lavatoio di Santarcangelo nel pulpito dal quale celebrare un’analogia tutt’altro che scontata: un festival di teatro come olimpiade, arena di corpi in movimento e spettacolarità da conquistarsi a volumi altissimi, da discoteca, con tanto di dj-set e cerchi olimpici scintillanti nel buio a sovrastare quella che viene definita una “liturgia”, e in effetti lo diventa, operata dalla grande presenza e sapienza vocale di Marco D’Agostin, che nella prima e ritmatissima parte della performance divide la scena con il corpo muscoloso e atletico del danzatore Matteo Ramponi. L’uno ci regala un’esplosione di danza a corpo libero, un incastro di muscoli pronti allo scatto, l’altro ci mette la voce: in maniera via via più serrata snocciola alla sua audience uno dopo l’altro tutti i paesi partecipanti ai giochi olimpici, una catena sillabica perfetta di internazionalità e compartecipazione, invito e incitamento, ed evoca accanto a sé in uno sfavillio di lustrini le mascotte di queste Olimpiadi santarcangiolesi; accanto ai bambini, lo raggiungono Chiara Bersani e Marta Ciappina, quest’ultima nelle pesanti e lenti vesti di un elefante.

Non lasciateci soli. You can come closer. Fra le raffiche di parole: you may say I’m a dreamer. Don’t leave us alone. Ma il pubblico non risponde, bombardato di luci, suoni, azioni, non è lì con loro. Non lasciateci soli, ripete continuamente D’Agostin. Non lasciateci soli. The world will be as one, grida.

A un tratto, il cambio. Quello della cerimonia inaugurale è in effetti un dispositivo che direziona lo sguardo, che lo canalizza verso un unico centro, un unico obiettivo che va pompato, gonfiato perché investa qualsiasi canale percettivo, perché non possa in alcun modo passare inosservato, perché si lasci guardare e consumare: benvenuti dunque a Santarcangelo, ai giochi olimpici, benvenuti; ma di fronte alla richiesta principale il pubblico non può fare nulla. Non siamo lì con loro, non del tutto. Non sembra, del resto, che i perfomers cerchino davvero una condivisione e un coinvolgimento che travalichi un meccanismo di pura visione. Alla seconda parte della performance fa dunque seguito questa assenza profonda. Il ritmo si dilata e rallenta: abbandonata la sedia a rotelle, spetta alla Bersani la denuncia, a tratti forse anche un po’ troppo patetica (nel senso etimologico del termine, ma la cui verità non è oggetto di discussione), sulla difficoltà, in questa ricerca, in un viaggio iniziato a livello di idea e concetto nel 2015, delle parole giuste. Difficile trovarle e utilizzarle lì, di fronte a noi, con quel “non lasciateci soli” che continua a fare eco, qua e la. Una parentesi che ci fa tornare con uno spirito diverso al gioco olimpico, ora arrivato al suo momento di inizio effettivo: con l’ausilio di un tapis roulant “mignon” la Bersani è la prima. Seguono la Ciappina, D’Agostin, da ultimo Matteo Ramponi, che ricompare solo all’ultimo, verso la fine della performance, sudato dopo una corsa (che ovviamente non vediamo) al di fuori dello spazio scenico. Nello sforzo fisico e nella resistenza tenace cui tutti e quattro sottopongono uno dopo l’altro i propri corpi – fra le molte immagini, quella delle braccia sollevate e delle mani tese di D’Agostin, che dalla prospettiva del pubblico sembrano voler raggiungere gli anelli olimpici ancora accesi in alto sulla parete, rimane una delle più forti – viviamo, da spettatori, un ulteriore straniamento, e nella lentezza generale accade anche qualcos’altro: ci stanchiamo. Accade non soltanto per il ritmo bruscamente variato, rispetto alla prima parte, ma anche perché i performer ribaltano con forza il meccanismo della visione, e non ci perdono d’occhio un istante. Guardano, scelgono di portarci con loro a forza, e in maniera frustrante ci costringono a vivere con loro l’ansia dello sportivo nel momento decisivo, nella dinamica interna del “comincio-non-comincio” e in quella di resistenza alla fatica: ma dello sport non importa più molto. Concludono man mano sedendosi in prima fila, con noi. Alla scena si lasciano solo i cerchi olimpici, le cui lampadine però non brillano più tutte insieme, e una macchinina telecomandata, a cui affidare quella che è la replica un po’ parodica di un fuoco artificiale: gli ultimi bagliori di una fiaccola olimpica che non illumina.

Dal fumo negli occhi di D’Agostin e Bersani, si aspettano le 23 e ci si sposta allo Sferisterio, dove altri fumi e altri fuochi sono attesi. Bisogna aspettare un po’, lo spazio è esteso in larghezza, ai piedi delle mura, e la visuale non è ottima ovunque, ma di questa performance si parlava già da un po’, e rientra in quella parte di eventi felicemente gratuiti e aperti alla partecipazione pubblica, allargata. Per il resto, che lo si voglia ammettere o meno, e che piaccia o meno, il fattore pirotecnico è sempre un ottimo richiamo di pubblico, oltre che fonte atavica di fascinazione. Molotov Cocktail Opera è né più né meno che un rito: figure vestite di nero col volto coperto attendono che le donne del Collettivo Azdora, queste invece in bianco, entrino, fiaccole in mano, e diano il via alla cerimonia. Una partitura in piena regola: una piccola polifonia di voci registrate e sovrapposte fra loro escono dalle casse (scelta che tuttavia sembra rivestire più la funzione di un semplice richiamo all’attenzione che incarnare una reale motivazione artistica) e precedono la cantilena che di lì a poco il coro Magnificat di Santarcangelo, centrale e dall’alto delle mura, scandirà ad accompagnamento del lancio delle molotov; figlie, queste ultime, sempre di un passaggio di mano femminile: dall’azdora in bianco, alla “black-block”, alla pira centrale. Il direttore d’orchestra ad armonizzare tutti i movimenti. Un piccolo disguido tecnico alle casse ha reso per un secondo l’intero movimento ancora più potente: le voci naturali del coro, che incalzanti ripetono una filastrocca poetica sulla mano destra che dà fuoco alla mano sinistra (è solo un gioco, solo un gioco, cantano), nella notte del primo giorno di festival sono di sicuro più potenti e incisivamente reali di quelle amplificate dall’impianto. Pubblico incantato a tratti, in altri distratto e un po’ perplesso dalla ripetizione di un gesto che non trova il suo culmine ma accade in sé, si disperde infine infine lentamente, mentre le ultime note muoiono, il fumo che fuoriesce dall’alto, dalla posizione del coro, si dirada, e le ultime molotov vengono lanciate “fuori-perfomance”, per il puro gusto di tenere acceso un fuoco che, a questo punto, si spera illumini dignitosamente Santarcangelo e tutto il festival: il cui taglio è stato annunciato quest’anno come meno “canonicamente teatrale”, ma dal quale – e di questo l’installazione posta a lato della piazza principale si fa portavoce eloquente – si dovranno staccare via pian piano tutte le più superficiali criticità per risalirne al nucleo, a quella cellula pulsante eletta persino come logo e iconico monito. Perché, di tutto questo iniziale focolaio, non rimanga solo il fumo.

Maria D’Ugo

Danio Manfredini

DANIO MANFREDINI: STUDI VERSO “LUCIANO” – ECOGRAFIA DI UN CORPO

Studi Verso Luciano di, e con, Danio Manfredini è una storia di marginalità e solitudine, raccontata con malinconica ironia e rassegnazione.

La camminata di Danio Manfredini al suo ingresso già racconta tutto: un ritmo sospeso, fuori dal tempo e dal mondo, che fa contemporaneamente ridere e piangere. Poi scenografie che cambiano con fluidità tra cessi pubblici, cinema porno, e gli alberi di un parco con un contorno di personaggi emarginati: tossici, trans, prostituti, guardoni.

Danio Manfredini ritorna alle tematiche a lui care dell’omosessualità, della follia e della solitudine.

Studi verso Luciano – ecografia di una corpo è il punto di vista di un paziente psichiatrico che si perde nei suoi ricordi, che tra sogno e realtà si confondono. Accanto a lui si materializzano presenze e si evocano storie. I quadri si alternano con grande fluidità tra i tanti cambi di scena e di maschera. Sono infatti tutti maschere tranne lui, Luciano. I volti sembrano sbiaditi dal tempo, dal ricordo annebbiato, confusi tra passato, presente o o nei meandri dell’immaginazione. Lui è il collante di ciò che accade in scena, spaziando da poesia a volgarità portandoci ad osservare la realtà con un misto di meraviglia e disillusione.

Luciano risulta però in qualche modo emarginato tra gli emarginati, solo tra i soli, è una presenza candida che ci accompagna tra i gironi danteschi, tra i bisogni fisici e materiali di corpi abbandonati dalla società e ancora in cerca di un minimo conforto.

Bellissimo il lavoro su musica e voce, i momenti in cui il parlato diventa ritmico e musicale creando una sorta di poetica canzone triste, così come le frasi accennate di Luciano che non si capiscono ma si intuiscono e arricchiscono quel modo di fare di chi ha provato tutto ritrovandosi comunque senza futuro, e nonostante tutto ha ancora voglia di vivere.

Danio Manfredini con Studi verso Luciano presenta un work in progress, come dice il sottotitolo stesso. I vari quadri presentati saranno una prima parte dello spettacolo, a cui si aggiungeranno nuovi studi. Per essere ancora in via di formazione il risultato è già appassionante. Non si può che immaginare il meglio per la parte conclusiva in via di composizione dello spettacolo, che sarà presentato nella sua versione completa a settembre.

di Margherita Landi

Foutrement

FOUTREMENT Compagnie Virginie Brunelle

Una danza delle coppie fatta da corpi seminudi, vivi, potenti, sensuali e sessuali. Foutrement di Virginie Brunelle, presentato al Festival Inequilibrio nel suggestivo Castello Pasquini di Castiglioncello, è un triangolo amoroso complesso nel quale nessuno riesce a trovare mai una collocazione definitiva. Tre identità lacerate e perse nelle loro pulsioni sessuali che trasformano il godimento in sofferenza.

Slip e scarpe da punta, la scena si apre con una ragazza intenta a mettersi delle protezioni da rugby sulle spalle nude. Viene raggiunta dal suo lui e dal subentrare di un’altra donna che glielo sottrae. Un perfetto mix di estetica classica e contemporanea, tra pas de deux e contact, in un gioco di adulterio e passione.

Se il lavoro fisico fatto dalla Compagnia Virginie Brunelle sul corpo è davvero potente ed espressivo, l’attenzione cala a causa della mancanza di una drammaturgia più organizzata e da una scelta musicale forse un po’ troppo scontata tra canto lirico e musica pop. Alla fine lo spettacolo si riduce a una dinamica in stile soap opera in cui l’uomo, indeciso tra due donne, passa dall’una all’altra senza sosta, appiattendo un interessante rappresentazione del gioco femminile/maschile che non sempre riesce ad emergere.

Purtroppo questa carenza alla lunga inficia anche il lavoro fisico, in un turbine di salti, prese e acrobazie che non essendo sempre sostenute da immagini forti, diventano ripetitive.

Foutrement di Virginie Brunelle è però un accattivante tentativo di lavorare su una femminilità molto costruita e centrata, che però appare affaticata e stanca nel tentativo di lasciarsi andare, di liberarsi delle sue corazze, finendo succube di un maschile indeciso, che la maggior parte delle volte la sostiene ma la lascia anche cadere nel vuoto e spesso la tradisce, portato via dalle sue pulsioni e dalla sua confusione.

Molto potente è il lento disfacimento dei corpi che piano piano si piegano, si deformano, schiacciati dalle loro stesse illusioni e puntualmente ricadono in una spirale di desiderio, rabbia, sesso e amore.

La giovane coreografa del Quebeq è considerata una promessa del panorama della danza e credo che il suo talento sia assolutamente indiscusso. Sicuramente Foutrement di Virginie Brunelle è uno spettacolo che non manca di espressività e carattere, uno stile chiaro che strizza palesemente l’occhio ai canadesi La La La Human Steps, attivi tra il 1980 e il 2015, di cui sembra essere una degna erede e ai quali ha sapientemente aggiunto un pizzico di esplicita sessualità e un quadro di riferimento ancora più contemporaneo.

di Margherita Landi

Respirale

RESPIRALE TEATRO: le macchine infernali di AGAIN/ BY NOW e IOhERO

Non è una novità che fin dal primo ingresso della calura estiva, spesso talmente insopportabile da rendere persino la pelle un vestito troppo pesante da portarsi addosso, la cara “mamma Emilia” si sia abituata ormai da molti anni alla metamorfosi del suo teatro, lasciandolo libero di tornare tardi alla sera e di scorrazzare un po’ dappertutto, finalmente affrancato dalla supervisione matriarcale delle stagioni invernali: è il tempo dei festival, dei parchi popolati di voci, delle strade che si riprendono tutti i diritti del palcoscenico, delle colline dagli occhi “spettatori”. Non è una novità neanche che accanto agli appuntamenti culturali più frequentati e attesi, la cui notabilità e popolarità raggiunta negli anni continua comunque a conservare qualcosa di singolarmente ed elettricamente esaltante (e non siamo forse nell’epoca della giusta quanto continua lamentazione sulla scarsa partecipazione pubblica alla vita teatrale e culturale in genere?), proliferino ancora lungo tutto il territorio occasioni magari più piccole, ma che con la loro minima quanto necessaria, e spesso difficoltosa, presenza danno una testimonianza spesso qualitativamente molto valida di una inesausta volontà di resistenza. Per essere, esserci. Nell’accelerazione delle organizzazioni festivaliere, dei programmi da controllarsi ogni giorno, degli appuntamenti – quelli “imperdibili, eh!” –, una certa modalità di incontro “ristretta”, attraverso borghi e luoghi lontani dalle tentacolari proposte culturali metropolitane, conserva ancora un certo sapore fresco, un gusto leggero: specie se diventa lo sfondo per ulteriori necessità, ulteriori urgenze. E allora non sorprende che alcune illuminazioni e alcune visioni possano comparire proprio in queste occasioni. Il caso della compagnia teatrale bolognese ReSpirale Teatro rientra esattamente in questi canoni.

Attiva dal 2007, vincitrice del premio Scenario nel 2010 e ancora “a piede libero”, la compagnia ha salutato l’inizio dell’estate con due diversi spettacoli che, fosse anche solo per il rapporto di diversità “interna” che intrattengono fra loro, cosa del resto mai del tutto immediata per una comunità teatrale, meritano di sicuro una menzione; per tutto il resto, basti e avanzi l’insegnamento grotowskiano: nessun teatro è indispensabile. Serve solo ad attraversare le frontiere fra l’uomo e l’uomo.

Lasciando la verifica dell’assunto direttamente al pubblico che verrà, partiamo dallo spettacolo più “anziano”, Again/ By now, vincitore del premio Scintille di Torino nel 2014, e in replica lo scorso 17 giugno alla Rocca di Cento, per Contemplazioni – Festa del Teatro e delle Arti. Lo spettatore di sicuro è accolto nel migliore dei modi: rotoli di carta igienica lasciati sopra ogni poltrona. Una piccola forma di benvenuto da interpretare a piacere, qualsiasi forma di sghignazzata è bene accetta. Ergo, volenti o nolenti, in questo spettacolo si ride.

Una piccola parentesi si potrebbe adesso riservare per la gioia di quanti fra i più assidui frequentatori di teatro siano vittime di una forma speciale e compulsiva di arricciamento di naso, nel trattare della questione della risata all’interno di uno spettacolo: la commedia sì, va bene, ma nei suoi binari, il teatro è un’altra cosa. Scegliamo però di far nascere questa parentesi già chiusa: con Again/By now ReSpirale non ci mette molto a trascinare lo spettatore all’interno del suo sistema. E in tale struttura si ride, sì, e si ha l’impressione di giocare, sì, ma con regole ben precise. Pop puro. Lo sfondo che c’è e non si vede è una realtà da bestie: a riempirla ci sono Berta e Boxer, coppia a tinte fluo, figli della metamorfosi degli infaticabili cavalli orwelliani, e ingranaggi di un’estetica fin troppo riconoscibile e kitsch. Estetica che riconosce se stessa e si nega, che si afferma mentre si distrugge. Che, così facendo, si rinchiude in una gabbia di ripetizione senza fine. A poco val chiedersi “quando è iniziata?”. Cominciare significa finire, finire senza sosta, per tutta la durata di uno spettacolo che non è tale. I due attori e performer Giulia Olivari e Michele Pagliai, col puntello di una drammaturgia brillante, un gioco di scatole identiche con nastri sempre diversi, sono fin troppo incisivi nel trasformare a poco a poco questa agrodolce e indiscutibilmente grottesca ripetizione delle medesime dinamiche – di coppia, sempre e solo di coppia, nucleo di base in cui cercare relazione, contatto e stabilità, salvo poi trincerarsi in una sempre più discutibile autoaffermazione di singolarità e soggettività, ed è qui che la riflessione di ReSpirale affiora in tutta la sua leggera potenza pop – in un meccanismo ominoso, in uno spettrale personaggio a tutti gli effetti, che opera e agisce sulla scena. La sensazione è innegabile: vuoi per il sapiente utilizzo delle luci, didascaliche mai, comunicative sì, nella loro essenzialità di marcatori della ripetizione; vuoi per la scelta musicale, che fa costantemente eco a se stessa nella differenza; vuoi per l’incursione di un ulteriore sottolivello di ripetizione che diventa il rapporto dei due personaggi con uno schermo che proietta spezzoni di Via col vento: tutto diventa in un attimo l’azione e la parodia dell’azione stessa. Non servirà dover grattare così tanto sulla superficie di questa scatola apparentemente perfetta per riscontrarne la natura inquietante. Qualche perplessità permane rispetto alla modalità scelta nel finale (il grande paradosso di dover trovare una fine a uno spettacolo composto solo di finali), che vede i due protagonisti scendere in platea assieme agli spettatori, nel tentativo di un primo ipotetico “inizio”. Va detto però che questo né si pone come definitivo (strano, eh?) né è alla ricerca pretenziosa di una sintesi, che palesemente non c’è.

Di questi ordigni infernali, di un teatro che diventa un gioco da giocare, e giocare bene, con il suo carico da novanta di regole e limitazioni, ReSpirale sembra averne fatto una cifra stilistica, se è vero che il neo-nato studio, dal titolo IOhERO, presentato agli inizi di giugno al Teatro Cortazar nel corso del Totem Arti Festival di Pontelagoscuro, conferma sotto certi punti di vista le stesse costanti “strutturali” già osservate, ma operando una sostanziale variazione a livello di linguaggio: se prima un certo tipo di immaginario stereotipico da indigestione massmediatica e social veniva riprodotto, vestito, e in qualche modo anche svestito, nello spettacolo precedente, qui ci troviamo di fronte a un canto, una ricerca vocale e sonora delle più fini.

Cantami, o Diva… Questa volta a essere tirato per le orecchie è nientemeno che Omero e la sua Iliade. Perché? Perché l’Iliade, “social”, sotto tutti gli aspetti lo è già. Ero, sono, sarò. L’eroe omerico non è altro che il frutto di una spinta interna e, classicamente, passionale verso la fama, la realizzazione, il raggiungimento, di cosa o chi non ha importanza, importante è stare al gioco, fino in fondo. Sulla scena vediamo Debora Binci, Michele Pagliai ed Emanuele Tumolo, sotto la direzione di Veronica Capozzoli, optare ancora una volta per il riverbero, attraverso i sentieri a tratti cupi di una drammaturgia intelligentemente rubata al linguaggio “da piattaforma”: una santa trinità di microfoni riempie lo spazio scenico di echi guerreschi. Battaglia effettiva: il suolo è solcato dallo schema del gioco della battaglia navale, che costringe nel punto centrale dello studio i due contendenti Paride e Achille a fronteggiarsi da casella a casella, sotto lo sguardo di una Elena perfetta conduttrice da reality-show; e battaglia interna: chi sono questi eroi? Che tipo di epica incarnano?

Manca qualsiasi volontà di retorica, ancora una volta. Ci si riconosce e basta. Si prova ad affermare il sé, e si salta a piè pari lo scalino del “cosa”: cosa volere? Cosa guardare? A cosa tendere? Un nuovo “mondo bestiale” viene riproposto con una maestria ironicamente tragica. I tre attori, tutti su tacchi vertiginosamente alti, evocano e riproducono con straordinaria precisione un trotto da cavalli – un plauso all’utilizzo mai puramente estetico o stilistico dei mezzi scelti, così come alla continuità tematica instaurata con i predecessori Berta e Boxer – e chiamano lo spettatore ad assistere a quello che di nuovo è un mondo chiuso in sé. Solo che il passaggio, la rottura, la si tenta qui attraverso una guerra di status su facebook, di visibilità on-line, scontro costruito sulle insicurezze, utilizzando la freddezza di una voce distante, metallica.

È una macchina scenica potente, quella creata da ReSpirale, funziona come una camera oscura particolarmente angusta, dalla quale sviluppare istantanee del mondo presente con sempre una leggera sfocatura. Tuttavia è proprio quando la struttura si chiude che il tempo proprio al teatro, quello di extra-quotidianità, di contatto e relazione fra l’uomo e l’uomo, viene a schiudersi, e il pubblico questo lo sente in maniera forte. Anche in questo caso, qualche perplessità sulla scelta, a livello iconografico, di trasformare il corpo di Achille in un Cristo morente, molte meno su quella di costringergli mani e testa nella morsa dei microfoni. Questi ultimi, però, mancano poi di esplodere in un grido, si mantengono muti. Tuttavia, trattandosi di uno studio presentato nella sua forma ancora embrionale, interrogarsi ora sul finale scelto è forse prematuro. Piuttosto, rispetto alla qualità del risultato di questa prima fase di ricerca e quella della presenza scenica degli attori l’unica cosa che si potrebbe dire è: “to be continued”.

Di Maria D’Ugo