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Re:search landscapes of practices

Sabato e domenica (27/28 maggio 2017) si è svolto presso le Lavanderie a vapore il convegno Re:search landscapes of practices dove artisti, provenienti soprattutto dalla danza, hanno aperto al pubblico le loro ricerche, disponibili al dialogo e al confronto. Questo è l’incipit, la cornice potremmo dire, di uno degli articoli più difficili che ho scritto.

Ho pensato veramente a lungo su cosa scrivere e in che maniera. Parlare di ricerca artistica non è facile per tanti motivi. In primo luogo perché difficile da praticare in maniera seria e continuativa, secondo perché pochissimi sono gli spazi che danno luce alla ricerca, e infine perché è un termine abusato e frainteso come pochi altri.

Da una parte è necessaria la delicatezza. Un momento di ricerca condivisa non mostra esiti certi, definitivi, completamente formati. Apre uno spiraglio su un processo lungo mesi, un pertugio da cui appare un frammento fragile di lavoro in corso. D’altro cant,o non avendo ancora gli esiti, si può valutare solo una metodologia che non essendo assodata, ma ancora in fieri, ha margini di perfezionamento e miglioramento.

Il rischio è dunque quello di fare l’elefante nel negozio di cristalli. Fatta questa necessaria premessa si può dire senza tema di far danni che ci vuole coraggio a mostrare i propri lavori, confrontare le pratiche a questo livello di maturazione. E possiamo dire con altrettanta sicurezza che al coraggio si unisce una certa urgente necessità. Il confronto tra artisti e pubblico su materiali, tecniche, ma soprattutto funzioni e più necessario che mai, quindi ben vengano le occasioni costruite per favorire tale scambio.

Ho seguito con favore ed entusiasmo questo evento, anche se purtroppo solo nella giornata di domenica, perché sono assolutamente convinto della necessità di riflettere oltre che di agire, e se si può riflettere facendo, questo è ancora più virtuosamente necessario. Ho dunque osservato con estrema attenzione le condivisioni operate da Lucia Palladino, Francesco Collavino e Claudia Adragna su cui vorrei soffermarmi un momento.

Lucia Palladino in una luce blu Yves Klein si avvolge la testa e gli occhi in una bava di filo. Una donna giunge e tagliato il filo ne prende l’estremità in bocca e risucchiandolo crea un rapporto con chi da questo filo è avvolto. Tutto è molto concentrato, senza voler rappresentare nulla, solo l’azione a cui chi osserva può dare il significato che vuole. Poi la seconda donna comincia a creare una mappa di fili nello spazio, linee direttrici, gradienti che attraversano la neutralità creando percorsi e confini in cui viene coinvolto anche il pubblico, mentre sulla parete compaiono parole.

Alla fine di questa piccola performance, Lucia Palladino da lettura di un piccolo scritto che mette luce sulle parole chiave che hanno marcato il suo lavoro. Tra quelle nominate l’attenzione, e la cura necessaria per prestare attenzione, è parola che mi è molto cara e mi ha tocca molto. E sono d’accordo con Lucia: l’attitudine e la volontà di prestare attenzione comporta una certa dose di santità. Attraverso l’attenzione si dona spazio a cose e persone, si concede loro aria e luce, le si lascia libere di esistere in molti modi possibili. È dall’attenzione verso il mondo e le cose che sorgono i Readymade di Duchamp, oggetti negletti, senza attrazione, relegati nella funzione, eppur oggetti d’arte se lasciati esistere al di là delle definizioni. Così come grazie a 4’33” di John Cage i suoni negletti del quotidiano, quelli che ci circondano in ogni momento, sono assunti a mezzo compositivo proprio dall’attenzione donata dal frame temporale.

Francesco Collavino si concentra sul concetto di catastrofe “intesa come evento deviante di un processo di traduzione”, e mostra come opera attraverso i linguaggi. Iniziando da una rappresentazione del luogo attraverso oggetti di uso quotidiano, fa ricavare dal pubblico una partitura scritta visiva che viene interpretata da una danzatrice e musicata da un compositore sull’istante. Ognuno interpreta il segnale e lo reinterpreta marcando uno scarto dall’originale. Si parte da un dato reale verso uno immaginario passando da errore di traduzione in errore di traduzione.

Infine Claudia Adragna, impacchettata nel pluriball si muove quasi sempre a terra, quasi fosse mossa dal vento, quasi sacchetto di plastica in una landa desolata. La ricerca parte dall’oggetto di imballaggio, su come serva a proteggere ma anche a imprigionare, come difenda il valore (più vale la cosa più viene imballata), ma come esso nasconda alla vista e imprigioni l’oggetto che vuole proteggere. Il progetto si chiama How Much? E intende indagare “la relazione tra utile, inutile e vendibile”.

Mi soffermo su questi tre progetti per trarre alcune conclusioni parziali. Tutti e tre gli artisti hanno condiviso con grande generosità, apertura e umiltà i loro processi di ricerca. Hanno parlato dei materiali, delle tecniche, delle intenzioni. Pochissimo si è parlato delle funzioni. Perché fare? O meglio: perché fare arte del vivo oggi? E con quelle specifiche modalità? Non è una domanda oziosa e vacua, nel perché si trova e si nasconde il valore, la necessità, il fondamento dell’agire artistico. Oggi più che mai dopo che il Novecento ha esplorato l’esplorabile, i confini sono stati abbattuti e illuminati nei recessi più oscuri e tutto è stato fatto. Il problema non è tanto la novità, quanto la coscienza dell’agire e il processo di messa in pratica di un pensiero che diventa prassi filosofica. È quindi fondamentale riflettere sulle funzioni dell’agire per definire il processo, per affinare le modalità. Porre la domanda scuote la certezza, ci fa mettere in marcia verso un altrove non ancora chiaro e delineato. La domanda concede umiltà nell’agire e spinge alla ricerca.

Vi è anche chi non pone domande ma da già le risposte. È il caso Dario La Stella e Valentina Salinas, che intendono la performance come una specie di dimostrazione, come espediente per dimostrare delle teorie che non vengono discusse dall’agire. La performance è questo quindi facciamo così. Direi che in questo modo di agire c’è una sorta di scellerato dilettantismo che fraintende completamente l’azione artistica. Una grave superficialità dettata da una certa arroganza. Se si conoscono già le risposte non vi è nessuna necessità di incontrare il prossimo, nell’eseguire un’azione in pubblico dove l’incertezza del risultato, la non ripetibilità dell’esperimento, definisce lo scarto dall’agire e ricercare scientifico. Se Cage avesse pensato per un solo istante che le sue partiture fossero ripetibili o Duchamp che fosse facile scegliere un readymade, avrebbero gettato i loro progetti al vento.

Caso diverso ancora il caso di Margherita Landi. La sua ricerca sulla sincronicità mi ha lasciato perplesso per i metodi e le premesse, e che in fondo si risolve nella scoperta dell’acqua calda. La possibilità per danzatori o attori di percepire il movimento anche dietro di loro è noto a chi la scena la frequenta e non stupisce. Da decenni esiste specifico training per certe cose, training che io stesso ho fatto da studente più di vent’anni fa. Avviare un progetto parascientifico per affermare ciò che già si sa non so fino a quanto sia necessario.

E qui si arriva a due punti dolenti della ricerca: da una parte la mancanza di conoscenza conduce a quello che in questi giorni è noto come il fenomeno della reinvenzione. Si ritorna senza saperlo su ciò che è già noto, tornano stilemi e forme che hanno già avuto vita, semplicemente perché non si conoscono esiti già avvenuti nel corso della storia dell’arte anche recente. Dall’altra quella che Simmel chiamava la tragedia della cultura, ossia un proliferare canceroso di campi del sapere e di oggetti culturali che portano la ricerca a ricercare cose inutili.

In Re:search dunque si sono incontrati processi virtuosi e meno virtuosi, ma si sono incontrati, hanno generato pensiero e dialogo, e questo è un fenomeno senz’altro positivo e necessario. Spero che ci siano altre occasioni, spero che Erika Di Crescenzo e Carlotta Scialdo portino avanti il progetto e ne affinino le modalità affinché gli incontri siano sempre più pregnanti ed efficaci. Ce n’è assoluto bisogno. Il dialogo tra artisti e pubblico deve trovare dei possibili tavoli di discussione, perché mai come oggi vi è confusione su cosa siano le Live Arts, su quale sia la loro funzione che la politica dirotta sempre più sull’enterteiment a servizio di un turismo culturale.

andrea costanzo martini trop

SPECIALE INTERPLAY: INTERVISTA AD ANDREA COSTANZO MARTINI

Lo scorso venerdì 19 maggio è andato in scena a Interplay Trop di Andrea Costanzo Martini, un lavoro pieno di ironia, vitalità ma soprattutto di una modalità espressiva del corpo veramente impressionante. Era la prima volta che assistevo dal vivo alla Gaga dance di cui avevo sempre sentito parlare. Così ho sentito Andrea e abbiamo fatto questa piccola intervista per approfondire alcuni punti del lavoro.

EP: Cos’è la danza per te? Cosa ti ha spinto a danzare?

ACM: La danza per me è un modo fondamentale di essere. Mi risulta difficile immaginare il mio corpo senza la danza, un po’ come immaginare il mio corpo senza il respiro, o senza la vista. La danza è parte di ogni cosa che faccio, e’ ascolto del mio corpo non solo come pratica estetica, ma in ogni momento della mia vita. Anzi…mi trovo in uno sforzo continuo di avvicinare la pratica dello studio a quella della vita di tutti i giorni, e come una possa influenzare l’altra. Non riesco a ricordare un momento della mia vita in cui danzare non facesse ancora parte di me, quindi non c’è stato qualcosa che mi abbia avvicinato alla danza…la danza ha solo preso forme diverse nella mia vita.

EP: Qual’è la funzione della danza, sempre che ne abbia una? Intendo dire: se c’è una necessità di danzare e di vedere danza oggi, se e come interagisce col mondo che la circonda?

ACM: Personalmente non riesco a vedere la danza come uno strumento di comunicazione. Fondamentalmente danzo per danzare, senza altra funzione che il piacere stesso del percepire il mio corpo, dell’accogliere lo sguardo dell’altro, del godere dello spazio che mi circonda e del tempo che mi scorre addosso. Credo che la “funzione” fondamentale della danza sia quella di celebrare il momento.

EP: In trop, secondo la mia opinione, crei un ironico circolo virtuoso tra immagine video, corpo in scena, e immaginario del pubblico,, un dispositivo che apre l’immaginario a indefinite possibili associazioni. Pensi di essere d’accordo con questo punto di vista? vuoi aggiungere o correggere?

ACM: Non solo sono d’accordo, ma sono anche felice della tua interpretazione. L’organizzazione degli elementi e il gioco tra le aspettative del pubblico, la mia relazione con lo spazio e il ritmo e gli altri protagonisti della scena (inclusi gli spettatori) sono ciò che tiene insieme una struttura che (spero) si apre a infinite possibili letture senza tuttavia mancare di chiarezza.

Gran parte del lavoro di creazione è nato attorno all’idea di overload di immagini, informazioni e movimento e alla ricerca di un rifugio dall’eccesso di senso.

EP: Da ignorante in materia quale sono, vorrei chiederti di raccontarmi cos’è la danza Gaga e cosa ti ha attratto in questa pratica.

Il Gaga è un linguaggio di movimento, una sorta di cassetta degli attrezzi per il danzatore. Nel Gaga la ricerca parte dall’ascolto del proprio corpoanche in relazione a tutto ciò che lo circonda. Il Gaga più che uno stile o una tecnica è a mio avviso un approccio al movimento in cui il piacere del danzare è messo al primo posto.

Mi sono avvicinato a questo stile quasi per caso. Dopo aver apprezzato come spettatore il lavoro di Ohad Naharin come coreografo, e mi unii alla sua compagnia (la Barsheeva Dance Company). È lì che mi avvicinai a questo linguaggio (da lui sviluppato assieme ai danzatori della troupe). Non è una scelta conscia, ma completamente naturale, quasi ovvia, in quanto qualsiasi altra alternativa impallidiva al confronto di ciò che il Gaga riusciva (e riesce) ad offrirmi.

ph. Andrea Macchia

daniele ninarello

SPECIALE INTERPLAY: STILL di Daniele Ninarello

Ciò che risulta evidente in Still di Daniele Ninarello, anche a uno sguardo superficiale, profano, persino disattento, è una cifra di rigore implacabile, di studio serissimo, di indagine e ricerca esercitate con feroce disciplina.

La partitura di movimento, da una stasi iniziale, si infittisce in una trama di piccole frasi, a volte minimali, a volte più complesse, che si intrecciano e rimbalzano tra i tre danzatori, giungendo alla massima espansione per poi contrarsi, in maniera inversa, verso un ritorno alla stasi che conclude il percorso. Una partitura di movimento che ricorda quelle musicali di certi lavori di Steve Reich, nell’intrico complicato di ritorni, incroci e intersezioni del fraseggio e del ritmo.

Un viaggio all’interno del movimento, una battaglia costante contro la gravità. Un lavoro rigoroso, quasi scientifico, affrontato con una modalità chirurgica senza indulgere all’emotività. È il linguaggio della danza che viene analizzato nelle sue modalità, nel suo confrontarsi con le forze della fisica e le sue modalità per rapportarsi e/o sfuggire ad esse.

I tre danzatori, Marta Ciappina, Pablo Andres Tapia Leyton e Alessio Scandale, sono esecutori precisissimi, impeccabili e potenti nella loro presenza. Ho usato la parola esecutori perché non vi è interpretazione né rappresentazione, ma esecuzione di movimenti in una partitura complicatissima che richiede disciplina e precisione ineccepibili.

Un lavoro convincente che riflette sulla danza in sé, sul suo linguaggio, che non comunica niente, non rappresenta niente, è solo sé stessa e i suoi principi che si svolgono senza nulla chiedere. L’oggetto è il movimento dal suo sorgere alla sua estinzione attraverso il suo sviluppo, il tutto trattato in maniera oggettiva, distaccata, senza indulgere in manierismi.

Evocativa la scelta musicale che procede di pari passo al movimento, in un accumulo di sonorità fino al climax centrale per ritornare verso il silenzio.

Di tutt’altro tenore il lavoro che segue quello di Ninarello, Striptease del pur talentuoso Pere Faura. Interplay si è aperto con Object del duo Ivgi&Greben, un’opera feroce, violenta, estremamente toccante sullo sguardo, sull’oscenità del guardare soprattutto se riferito al corpo della donna. Uno sguardo rapace, possessivo, che senza vergogna fruga in ogni dove. Anche Castellucci si è spesso interrogato sul guardare, sulla ferocia insita nell’atto, riferendosi all’attore come colui :”che è consunto dallo sguardo ustorio degli astanti e il cui sangue auricolare è corrente, emorragia, libagione al palco”. Striptease vorrebbe parlare di questo, dello sguardo che si aspetta di vedere, del desiderio che innesca di fronte a uno striptease, ma lo fa in maniera sguaiata, sufficiente, in cerca solo della facile risata che conquista il pubblico. Un lavoro arrogante, privo di umiltà, sciatto, a volte quasi insultante. Non ho niente contro l’ironia e l’uso intelligente della leggerezza, il potere dissacrante di tali strumenti, spezza il circolo vizioso del significato che spesso per abitudine attribuiamo alle cose e ai fenomeni, ma devono essere utilizzate con sapienza, non con dissennata approssimazione. Il lavoro di Andrea Costanzo Martini, sempre visto a Interplay, è un esempio lampante.

Il pubblico ha certamente riso molto, ma di questo lavoro si dimenticherà presto, se già non è successo stamattina. Il rigore di Ninarello o la profonda meditazione di Ivgi&Greben agiscono a lungo e rimangono impressi ben oltre il tempo della visione.

SPECIALE INTERPLAY TROP di Andrea Costanzo Martini

L’ironia è una dote fondamentale nel lavoro artistico: dissacra, scalfisce il reale, sgretola la pretesa di stabilità di ogni valore, invita a non prendersi troppo sul serio.

Quando Duchamp gira un orinale e lo chiama fontana, non solo mette il discussione l’oggetto, la sua funzione, il reale come l’occhio si è abituato a vederlo, ma snellisce il gesto altamente filosofico con una dose abbondante di sprezzatura e di ironica saggezza. Inverte il circolo, da recipiente a oggetto che espelle liquidi, sovverte l’ordine delle cose portando un oggetto utile e negletto a oggetto d’arte di ironica ma salutare inutilità. L’ironia crea vuoto dove c’è un pieno, ma questo vuoto non è assenza, è la possibilità moltiplicata all’ennesima potenza. Andrea Costanzo Martini possiede la stupenda qualità di saper usare l’ironia con il corpo e con gli oggetti, creando un vuoto con intelligente e tagliente incisività.

La sua danza gioca col mondo facendolo a pezzi e lo ricompone di gesti, di movimenti, di ritmi venati di una sacra follia, di salutare insensatezza che sgretola la patina di seriosa bramosia che si impone ai nostri occhi nel posarsi su un mondo sempre più preda.

Un uomo davanti a un grosso televisore con una pompa da bicicletta tra le gambe. Azionando la pompa, si azione l’innesco e sul video appare un enorme fungo atomico. Così con gesto semplice, alla Willy il coyote, deflagra il mondo e connette immagine dal vivo, oggetto e immagine virtuale. Un circolo continuo che innerva tutta la partitura di movimento. La televisione diventa fumetto quasi quadri alla Roy Lichtenstein, scambia interferenze con il movimento reale del danzatore, diventa luce. Ma questo circolo si apre allo spettatore che diventa libero di fare le associazioni che vuole. Può far deflagrare il mondo insieme con Andrea Costanzo Martini, e può farlo con la propria immaginazione. Non interpretazione, che presuppone un gioco a incastro tra significante e significato, ma immaginazione che apre l’immagine e la rende frammento di uno specchio che può eternamente essere ricomposto in ogni forma possibile.

Andrea Costanzo Martini non ha solo l’abilità di creare un processo coreografico e visivo di grande impatto, ma possiede una espressività corporea impressionante. Un corpo che si scompone e ricompone con la stessa flessibilità delle immagini, usando ogni muscolo, irradiando energia esplosiva attraverso tensioni e distensioni, cambi di ritmo e velocità, contrazioni e dilatazioni. È il mio primo impatto con la danza gaga di cui ho sempre sentito parlare, danza legata al nome di Ohad Naharin e la sua Batsheva Dance Company. Devo dire di essere rimasto impressionato da una forma che restituisce al corpo un’istintualità ormai rara, dove ogni gesto è seppellito dal concetto. Una forma che libera e genera un vuoto, uno zero che contiene potenzialità infinite. Non avendo termini di paragone non saprei dire della qualità di esecuzione di Andrea Costanzo Martini, ma quel che è certo è che non vedevo una tale espressività in un corpo in movimento da molto, troppo tempo.

www.andreacostanzomartini.com/trop

Ph. Andrea Macchia

SPECIALE INTERPLAY: IN GIRUM IMUS NOCTE ET CONSUMIMUR IGNI di Roberto Castello

Tra luce e ombra si cammina senza un dove, senza un perché. Un’umanità scomposta, in perenne movimento nei frame di luce concessi per un tempo limitato prima di sprofondare nella notte. D’ogne posa indegna quest’umanità cammina in quel poco di giorno grigio, fatto di luce attenuata come di fumo che scivola via e si disperde, di movimento ossessivo come chi s’affanna per un nonnulla, e poi la notte, prima di un nuovo giorno che non porta novità né progresso. Solo varietà nell’alternar di bianco latteo e nero pece.

Di qual fuoco si sia consumati in questa notte non è dato sapere. Frenesia, furore, smania in quest’inceder coatto, spinti da un ritmo non nostro, ossessivo compulsivo. Un titolo palindromo come lo spettacolo: da qualsiasi parte lo si giri, ridonda lo stesso suono, lo stesso gusto, lo stesso andar da nessuna parte.

:”Che ore sono?”

:”La stessa di sempre”. Un finale di partita eternamente rimandato dalla luce che succede all’ombra. C’è molta atmosfera beckettiana in questo lavoro di Roberto Castello con Aldes. Per tutto il tempo della piece, nel martellare ritmico elettronico, mi risuonava nella mente la May di Passi: nove passi avanti, nove passi indietro, come un metronomo. E così i chicchi si aggiungono ai chicchi finché c’è un mucchio, un piccolo mucchio, l’impossibile mucchio.

Per questo lavoro si è parlato di ritorno del tragico. Non sono d’accordo. Non c’è nessun fato inalterabile a sconfiggere l’eroe che si batte comunque e nonostante tutto. Le Moire non hanno filato nessun percorso ineluttabile. Il procedere è verso nessuna parte. Vi è un eterno ritorno di un’uguale miseria senza nessun destino. Come i ciechi di Bruguel si avanza verso un abisso eternamente rinnovato e rimandato, oltre, senza mai fine.

Un lavoro intenso, provante, sia per il pubblico che per i bravissimi danzatori (Mariano Nieddu, Giserlda Ranieri, Ilenia Romano, Irene Russolillo). Un flusso in eterno movimento, nell’alternarsi di forme di luce che creano spazi sempre diversi per un procedere senza posa. Ogni tanto degli inserti rappresentativi, frammenti di quotidiano distorto, come di feste andate a male, in qualche modo degenerati. Un lavoro disperante, dove anche l’ironia sa di fiele. Nessuna pacca sulla spalla, nessun tentativo di indorare la pillola. D’altra parte l’aveva già detto Shakespeare nella sua tragedia più nera: “La vita e’ solo un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si dimena durante la sua ora sul palcoscenico, dopodiché non si sente più nulla. Una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furia, che non significa nulla.”

Ph. Ilaria Scarpa

SPECIALE INTERPLAY: INTERVISTA A URI IVGI piccola conversazione su Object

Il 16 maggio come apertura di Interplay è andato in scena Object del duo israelo/olandese Ivgi&Greben formato da Uri Ivgi e Johan Greben, un lavoro molto intenso e molto violento che mi ha incuriosito spingendomi ad approfondirne la conoscenza. Questa intervista è avvenuta il 19 maggio con Uri Ivgi.

EP: Cos’è la danza per te?

UI: Per me la danza è qualcosa che non ha molti significati ma ha sicuramente molti aspetti e livelli. È tecnica, è emozione, è qualcosa che quasi non puoi toccare, è come una magia. È qualcosa che è costituita da moltissimi elementi e che si costruisce nel momento, e appena accade subito scompare. Per questo parlo di magia: a volte dici: wow! A volte dici: mmm…. È qualcosa che devi catturare nel momento che appare.

EP: Qual’è la funzione della danza, se pur ne ha una? Perché fare danza oggi?

UI: Questa è di certo una domanda importante. Per prima cosa ti risponderei che danziamo per le nostre anime. Chiunque danza, lo fa per la propria anima e il proprio spirito. La danza è una professione molto difficile che necessità di molta tecnica, molto allenamento, molta disciplina, è questo per me dimostra la difficoltà di mettere in contatto la nostra anima con la danza. Questo è il motivo per cui noi danziamo. Noi non danziamo per cambiare il mondo. Non penso che questo possa succedere, che dalla guerra, grazie alla danza, possa venire pace. Come danzatore professionista e come coreografo se posso toccare l’anima del mio pubblico allora credo di aver già fatto molto. Penso che il nostro lavoro possa avere un risvolto politico, che possa occuparsi di ciò che ci disturba nel mondo di oggi, ma non credo che possa cambiare nulla, che possa avere un effettivo impatto.

EP: Object è, secondo la mia opinione, un meraviglioso dispositivo sulla violenza implicita nello sguardo, nel processo del voler guardare qualcosa. Ma questa è il mio punto di vista di osservatore. Cos’è per voi Object?

UI: Per noi non riguarda solo la violenza. Proviamo a giocare anche con lo sguardo, della performer e del pubblico. Lei guarda e il pubblico guarda. È una sfida in cui spesso si scambia il ruolo tra chi guarda e chi è guardato. Come e in che modo essi si guardano. Il pubblico per esempio è coinvolto nell’imbarazzo di guardate il corpo della performer così esibito. Giochiamo con la sfida che necessariamente si crea. Cerchiamo di sondare quanto lontano ci possiamo spingere, del genere: mostrami di più, fammi vedere più sangue! È questo momento che cerchiamo di sfidare: chi si unirà di più a questo gioco? Lei o il pubblico? Questo è l’aspetto che più importante per noi, ma è ovvio che ci sono più livelli di lettura. Non parlerei però di violenza, più di abuso. Come guardiamo al corpo della donna e come abusiamo di questa immagine. Tutte queste posizioni così rudi in cui la performer avvolta nella plastica come un pezzo di carne, con la bocca tappata dal nostro adesivo, che mostra in queste pose così rudi ed evidenti la vagina. Questo è il modo in cui spesso si guarda alla donna: zitta e apri le gambe! È orribile.

È anche incredibilmente difficile danzare una danza così fisica avvolti nella plastica e potendo respirare solo dal naso. E quindi ci chiediamo anche noi come coreografi: stiamo abusando di lei? Cerchiamo di spingerla veramente al limite. Tutto questo lavoro è un abuso e sull’abuso.

EP: Com’è nato questo lavoro?

UI: L’idea di Object è iniziata cinque anni fa. In origine era un pezzo di 12 minuti che piacque molto e ci fu chiesto di estenderlo. Anche la musica era diversa così come l’interprete. Alyona che ha danzato Object a Torino è la terza danzatrice che ha partecipato al progetto. Nella prima versione la performer aveva un corpo androgino, metà uomo e metà donna. E fu molto forte confrontarsi anche con questo tipo di fisicità in cui ti domandavi ad ogni istante se fosse un uomo o una donna. Quando decidemmo di lavorare con lei prendemmo la stessa decisione di oggi: quanto lontano potevamo spingerci e potevamo spingerla. L’abuso della donna è qualcosa che ci tocca molto che attualmente stiamo sviluppando in un altro lavoro che tratta sempre di questo tipo di sessualità, di sofferenza, di abuso con un gruppo più vasto di performer e che si chiama Forgot to love.

ivgi greben

SPECIALE INTERPLAY: OBJECT di Ivgi&Greben – BOYS di Roy Assaf

Una donna. Sola. All’interno di un cerchio bianco illuminato a giorno. La bocca tappata da nastro adesivo nero. Il busto impacchettato nel cellophane trasparente, non come un vestito, più come una fetta di carne da mettere in frigo. La donna non può scappare dallo sguardo. È crocifissa, trapassata, penetrata dallo sguardo che implacabile si posa sul suo corpo reso oggetto. E così si instaura una lotta furibonda tra quello sguardo e quel corpo muto, che si ostenta, si fa guardare, in ogni posa possibile, si mostra come dichiarazione di guerra, un attacco allo sguardo. Quasi minaccia o disfida a guardare di più, a guardare oltre, quelle pose, quel corpo.

Questo è Object del duo Ivgi&Greben, danzato dalla russa Alyona Lezhava, una danza massiccia in questo cerchio da arena di sumo dove non c’è spazio per la dolcezza, al massimo per una seduzione guerriera. Un lavoro perturbante e non certo rassicurante eseguito quasi con rabbia, sicuramente con fatica (danzare con la bocca tappata, respirando solo col naso, non è cosa facile), senza sbocchi celesti né consolatori. Si guarda come rapaci, non come osservatori curiosi di comprendere il mondo, soprattutto il corpo, lo si guarda con bramosia, senza rispetto, con lo sguardo del macellaio che valuta un quarto di bue.

Una certa ferocia e brutalità è presente anche in Boys di Roy Assan. Anche in questo caso il titolo è una dichiarazione. È il maschio, la condizione mascolina a essere messa in questione. Senza però dare risposta alcuna: i gesti spesso hanno una doppia maschera a seconda di chi li esegue, in perenne variazione, dove il senso sfugge. Restano le sensazioni (l’aggressività, l’ironia, la dolcezza, etc.) e i cliché. Difficile sfuggire a questi ultimi, tutti ingabbiati e infissi come siamo nell’aurea mediocritas del senso comune, delle parti da recitare, difficile trovare abbastanza forza per sfuggire all’attrazione gravitazionale dell’ovvio.

La danza è comunque estremamente dinamica, a ritmi elevati, quasi come corsa di bersaglieri, colma di miriadi di spunti, ricca, quasi barocca. In assenza del femminile è tutto ruvido, spigoloso, aggressivo, senza accoglienza e abbandono. È un abitare la battaglia che senza requie si rinnova, si sviluppa come per proliferazione cellulare accelerata e un poco cancerosa. Non ci si riposa mai, dritti e veloci come la freccia di Apollo, senza mistica né estasi, terrena battaglia nel fango dell’esistenza, senza via di fuga alcuna se non la speranza che l’essere umano sia migliore di quello che dimostra di essere, per attivare al poetico e toccante finale: il corpo di un danzatore intrappolato, accarezzato, deposto come un cristo, crocifisso come un cristo dalle gambe degli altri quattro, mentre viene diffuso il discorso all’umanità de Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin che aggiunge un pizzico di retorica e fiducia in un’umanità che non la merita. Come detto sfuggire al maelstrom della rappresentazione è cosa rara, anche nei lavori migliori.

Due lavori di grande impatto e, per certi versi molto violenti, aprono questa nuova edizione di Interplay, un festival che ha il merito di aver dato visibilità a opere di grande levatura internazionale nonché spazio a giovani coreografi italiani. Questo non è per niente un risultato banale confrontato all’azione di molti che invece si allineano a una programmazione banale e certa. Spero che Natalia Casorati possa continuare il suo lavoro e che non le venga a mancare l’appoggio istituzionale. In caso contrario sarebbe un grave errore e una grande perdita.

DI CLICHÉ IN CLICHÉ OVVERO IMPOSSIBILE SFUGGIRE ALL’OVVIO

So di avere una posizione intransigente teatralmente parlando. Cerco eventi scenici, e mi sforzo di parlarne su questo blog, che abbiano determinate caratteristiche: lontananza da schemi di rappresentazione/comunicazione, presenza scenica che sfugga agli schemi interpretativi di alcun ruolo, ibridazioni di linguaggio, processo vs progetto. Questo mi porta spesso lontano da messinscene concepite in maniera più tradizionale, più legate all’intenzione di voler dire qualcosa anziché cercare un nulla che lasci lo spettatore libero di vedere ogni cosa. Ieri sera (14 maggio) sono stato a vedere lo spettacolo Cliché: ci spogliamo per voi di Dramelot e Proprietà Commutativa (che sarà in scena al Circolo De Amicis fino al 21 maggio prossimo). Sono andato perché conosco il lavoro di queste ragazze (Francesca Bracchino, Elisa Galvagno, Valentina Virando) e benché sia molto distante dalle mie convinzioni sceniche apprezzo la serietà e dedizione che mettono in ogni loro lavoro. E devo dire che sono rimasto sorpreso. Cliché è uno spettacolo di cui c’era bisogno, il bisogno di dire con ironia ma con fermezza a quale livello di abiezione sia giunto il lavoro dell’attore. Tre ragazze si spogliano davanti a un pubblico perché altro diventa impossibile. Non si può sfuggire al cliché di spogliarsi per carenza di altre possibilità. Nonostante gli anni di studio, le specializzazioni in ogni campo dello scibile scenico dal canto lirico al contact, da Laban a Stanislavsky, si è costretti a contesti miseri, a pagarsi Siae e Enpals (ora Inps) per portare a casa incassi meschini molto lontani dalla dignità di un lavoro d’alta specializzazione. Le tre ragazze a turno utilizzano il teatro di repertorio per inventare storie tristi di donne costrette a spogliarsi: da Romeo e Giulietta a Madre Coraggio, ma è tutta una finta svelata perché insomma, sì, siamo in questa cantina per 30 € a spogliarsi perché se avessimo fatto la neodrammaturgia canadese ci saremmo trovati qui in quattro gatti. È tutto ironico eppur serissimo perché tale condizione di soggiacenza alle circostanze, al dover accettare tutto pur di lavorare e far fruttare anni di studio, sogni e passioni, è condizione di tutti dal danzatore, all’attore, da colui che segue fedele la tradizione all’innovatore più sperimentale. Non c’è mercato dignitoso per il 95% di coloro che si occupano di spettacolo. Si vive nell’indigenza e nel misconoscimento della propria professionalità (scusa che lavoro fai? – L’attore! – Sì, ma che lavoro fai? Altro bel cliché che viene ripetuto ogni giorno come un mantra), nonché del ruolo che l’arte scenica può avere nel contesto sociale odierno. D’altra parte se il neo consulente artistico dello Stabile di Torino afferma senza mezzi termini che il teatro non fa né politica né cultura ma solo piangere o ridere, non resta nulla per sfuggire al cliché che chi percorre altre strade non sia altro che pesante, difficile, ostico, inutile. L’inno alla leggerezza che tutti cantano è il calar le braghe nei confronti del cliché che avanza: cultura=pesantezza. C’è bisogno di sorridere che la vita è già complicata: cliché; ci sono già tanti orrori nella vita quotidiana che quando vado al cinema o a teatro devo poter svagarmi: cliché; c’è un performer belga? Chissà che due palle: cliché. Non si può sfuggire, lo sentiamo dire ogni santo giorno, perché l’establishment ha, da venticinque anni a questa parte, destabilizzato ogni politica culturale seria che potesse sfuggire al cliché. Ora lo scopo della cultura si riduce a far grandi numeri, incassi certi, turismo, supplenza nel sociale. Tutto tranne che mettere in questione l’essere e a creare le condizioni per pensare qualcosa di nuovo per il mondo in cui viviamo. La ricerca negletta, e tale negligenza mascherata con la fuffa delle residenze come se uno in una settimana potesse creare un lavoro vicino alla decenza! E così si resta nel cliché, per poter lavorare non resta che adeguarsi. Lavorare poi è una parola forte. Diciamo piuttosto mirare alla sopravvivenza.

Ecco per tutti questi motivi ho apprezzato questo lavoro che con ironia garbata e discreta, ci fa sorridere di una situazione tutt’altro che rassicurante per chi il teatro lo ama, lo vive, lo pensa e ricrea ogni giorno. Un piccolo sfogo con il sorriso sulle labbra ma, ogni tanto, quanno ce vò ce vò!

valerio binasco

OH COME TUTTO È STORDENTE FIERA!

La recente intervista apparsa su Teatro e Critica al neo-consulente artistico del Teatro Stabile di Torino Valerio Binasco contiene degli spunti interessanti per un commento.

Si dice molto dello stato del teatro in Italia e di quella che è la sua funzione nei teatri di Stato e non solo. Dice Binasco e cito integralmente: “A noi registi e attori spetta il compito di tornare a parlare dritti al cuore delle persone. Il compito del teatro non è fare cultura o fare politica. È far ridere e piangere. Se ci riusciamo è fatta”.

Sorge spontanea una domanda: se l’atto artistico non è anche un atto politico e soprattutto non è un atto culturale cos’è? Sembra essere solo ed esclusivamente un intrattenimento emozionale. Si ride, si piange, non si pensa né ci si rivolge a una collettività che condivide uno spazio sociale. Si solletica solo l’appetito della sensazione. Un programma da fine impero. Si abdica dalla funzione del teatro e dell’arte tutta. Senza giri di parole e in tutta onestà. Mi chiedo in fondo come Binasco non si renda conto che affermare che compito del teatro non sia né fare cultura né fare politica è un atto politico in sé stesso. È una dichiarazione alla politica che l’arte del teatro si fa da parte. Schiava com’è del denaro pubblico e bancario, dichiara di non voler mordere la mano che porge sempre meno becchime. Questo è un vero inchino alla politica. Perfino i tagli sono benvenuti perché in fondo il teatro si può fare lo stesso. Sono d’accordo. Si può fare lo stesso ma quando mancano le condizioni produttive e distributive che garantiscano e proteggano gli artisti nella loro ricerca e forniscano la necessaria visibilità ai loro lavori, questo fare perde di importanza e significato. Binasco dovrebbe rendersi conto che la sua funzione dovrebbe essere proprio quella di agevolare al teatro la sua possibilità di rendersi efficace e visibile, che i giovani che intraprendono questo mestiere abbiano le condizioni per poter esaltare il proprio talento, che gli artisti quelli veri possano emergere sulla scena di un confronto internazionale. Invece no. Si parla solo di emozionare il crescente pubblico degli abbonati. Già Carmelo Bene inveiva contro questo trionfo dell’abbonato, di chi pretende di essere compiaciuto e coccolato. Il teatro non è li per farlo ridere o piangere, esiste per farlo riflettere sulla condizione di essere uomo, sulla vacuità e precarietà della sua esistenza e sulla instabilità di quello che chiamiamo civiltà. Invece dobbiamo farlo ridere senza occuparci né di politica né di cultura.

Ma se non è cultura, cos’è? Quale dovrebbe essere la sua funzione nel XXI secolo? Sollazzare l’abbonato che esce dopo un’orgia di risate? Non possiamo neanche dire che si fa cabaret o avanspettacolo perché in quei generi di politica se ne fa eccome. Quindi si ride di cosa? O si piange per cosa se in ballo non c’è né l’uomo, né la società? Forse che Molière o Shakespeare non contengono spunti politici o culturali? Non dico il teatro di ricerca ma il repertorio, il teatro di testo e parola non ha nella sua tradizione impegno politico e culturale? Brecht per esempio? Non dico il Living Theatre! La frase detta da Binasco spero sia un’errore di stampa, o una svista dell’intervistatore perché un consulente artistico di un Teatro Stabile che afferma di non voler fare né politica né cultura mi inquieta. Già l’affermazione che il teatro italiano sia in salute mi fa venire il tremore, ma l’abdicazione di funzione così limpidamente affermata mi turba non poco.

Ha ragione su una cosa Binasco. La critica è assente e ininfluente. Non si levano voci critiche a prese di posizione di fronte a frasi così sconcertanti da parte di chi si dovrebbe occupare della consulenza artistica di un teatro. Mancano le recensioni sincere, manca la volontà di creare dibattito, di sollevare problemi. C’è persino chi si fa pagare dal recensito per recensire, e che si fotta la deontologia professionale. Il panorama è sconcertante altro che teatro italiano in fase di grande rinascita! Qui si fa la festa al moribondo dicendo che va tutto bene. D’altra parte il problema non è la caduta, è l’atterraggio.

romeo castellucci

Democracy in America secondo Romeo Castellucci

In origine era un trattato socio-politico del 1835, frutto di un lungo soggiorno nella patria del blues, scritto da Alexandre de Tocqueville. Affascinato dal sistema della democrazia rappresentativa repubblicana, l’autore francese indagò in due volumi come il movimento democratico statunitense influenzasse la vita politica del paese, e che tipo di influsso la democrazia esercitasse sulla società civile. Quello che appare lampante e profetico del saggio, è l’aver centrato un meccanismo subdolo e sottile – non ancora estirpato, guarito, curato: la democrazia tende a degenerare in un “dispotismo addolcito“.
Questo spettacolo non è politico“, dice Romeo Castellucci. Il quale sembra però, con la sua messinscena, affermare, affermare continuamente qualcosa che sfugge. Non vorrebbe essere politico quindi, ma parrebbe esserlo. Come l’attuale mondo politico esso è contraddittorio, confuso, ridondante (di simboli). Tanti, tantissimi sono gli input che l’attraversano. Dalle guerre contemporanee di conquista, con l’elenco di paesi insanguinati da recenti e devastanti carneficine, alla sfilza di battaglie ed emendamenti portanti nella storia statunitense; passando per la crudele vicenda di due contadini puritani.
Lo spettatore è così bombardato da messaggi ambigui, e punzecchiato da dualismi accentuati; ad esempio, quello che contrappone la presunta purezza dei nativi popoli pellerossa alla bianca società schiavista e maschilista – che affonda le sue radici in un’Europa dissoluta e coloniale. I buoni contro i cattivi? Due indiani d’America, poco prima del finale, dialogando tentano di imparare l’inglese, la lingua dei loro sterminatori, in una scena che sembra uscita da un corso per stranieri della Wall Street English.
Molte le trovate scenotecniche (bracci meccanici che si muovono in aria come fantasmi), i momenti di danza (che sembrano richiamare, a turno, i riti vodoo, il can-can, le cerimonie dionisiache). Molte le chicche stilistiche, non proprio nuove, una su tutte l’immancabile nudità e la vernice, quando rossa, quando nera, con cui l’attrice protagonista si spalma il corpo. Come spesso accade nei lavori di Castellucci, l’intellettualità regna padrona, anche se mascherata da tribalismo e immagini che esaltano i movimenti delle interpreti e delle ballerine. Ci si sforza di capire, di pensare in modo intelligente e compiuto. Considerando che il teatro è potente quando è viscerale, è spontaneo chiedersi dove porti questo peculiare sentiero registico e drammaturgico. Forse in nessun luogo, in nessuna foresta vergine da scoprire.
Articolo di Tessa Granato
Foto: Guido Mencari