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Virgilio Sieni

DI FRONTE AGLI OCCHI DEGLI ALTRI di Virgilio Sieni

Ieri sera al Teatro della Faraggiana di Novara è andato in scena Di fronte agli occhi degli altri di Virgilio Sieni. Nato nel 2012 questo spettacolo giocato sull’incontro tra il coreografo e alcune particolari comunità (terremotati del Belice, vittime di stragi terroristiche, ex partigiani, persone affette da fragilità mentali o fisiche) ha già una storia performativa e critica importante, ragion per cui, più che fare una recensione, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti che mi hanno generato delle riflessioni in seguito a questa esperienza novarese.

Di fronte agli occhi degli altri non è uno spettacolo tradizionale. Virgilio Sieni non ha preparato una coreografia da eseguirsi di fronte al pubblico con questi particolari danzatori (la comunità in oggetto era Oltre le quinte che si occupa di laboratori artistici con persone affette da varie disabilità); il percorso proposto è più simile a una session di improvvisazione. Ciò che conta è l’incontro tra la comunità e il coreografo nel momento della danza.

I corpi con le loro differenze, le loro fragilità, le chiusure, le rigidità e flessibilità. Il corpo parlante che si frequenta e si conosce attraverso la danza. Vi è una calma dolcezza in quest’incontro. Una delicatezza che tocca inesorabilmente. Non sempre un contatto avviene, a volte la danza del “maestro” si mangia quella dei suoi partner. Quando si manifesta il contatto si sprigiona una scintilla luminosa che irradia e illumina il momento dell’incontro.

Questa particolare modalità performativa, senza schemi, frutto di una imprevedibile interazione, alla ricerca di un delicato contatto tra corpi, necessitava di un luogo molto più accogliente, che permettesse al pubblico di essere in qualche modo partecipe e non lontano e passivo testimone. Parlo di un raccoglimento, di una sorta di abbraccio tra l’occhio che guarda e ciò che avviene nello spazio. Una sala diversa da un teatro classico dove la platea fronteggia una scena distante ed elevata su un palco tradizionale. Il luogo è il fondamento dell’agire, è il contenitore dell’evento, dell’agire/patire che lo frequenta. Se lo spazio è sbagliato quando vi accade, nonostante la sua qualità, risulta in qualche modo, raggelato, imbrigliato, impedito.

Vi è in certi contesti e riguardo a certi progetti, una necessità viscerale di cercare un luogo adatto. E un teatro, per quanto si parli di scena, danzata o recitata che sia, a volte può dimostrarsi più un ostacolo che un vantaggio.

Prima dello spettacolo, Virgilio Sieni ha tenuto un laboratorio con la comunità che avrebbe incontrato sulla scena. Ho avuto il privilegio di poter osservare questi lavori preparatori. Virgilio Sieni per quasi tre ore ha lavorato con raffinata delicatezza con la comunità formata da disabili, operatori e danzatori conducendoli attraverso svariati esercizi verso alcune possibili modalità di incontro corporeo. Accoglienza e rilascio, prossimità e allontanamento, condurre e farsi condurre.

Con poche semplici parole e l’esempio Virgilio Sieni ha proposto con ritmo serrato esercizi su esercizi sperimentando diverse modalità dalla voce che accompagna il movimento alle improvvisazioni comuni, passando attraverso semplici frasi coreografiche che via via si complicavano. Ha fornito una serie di possibili ganci o appigli su cui la comunità poteva sorreggersi nello sperimentare il contatto con lui sulla scena. Devo dire di essere rimasto impressionato dalla lieve e delicata maestria di questo insegnamento corporeo che non imponeva ma suggeriva. Senza verbose spiegazioni e solo con l’esempio e poche necessarie indicazioni per correggere la rotta, si è stabilito un contatto che si è poi ritrovato sulla scena nella performance vera e propria. Una modalità di insegnamento antica che conserva tutta la sua forza e vitalità e che non andrebbe abbandonata alla leggera. Il corpo ha una sua lingua che non è quella della parola. Oggi talvolta con troppa leggerezza ci se ne dimentica.

Non voglio dire con questo che la riflessione a parole non sia necessaria. Tutt’altro. Dico che nell’agire scenico a parlare dovrebbe essere il contatto diretto allievo/maestro tramite il corpo e la sua azione e non attraverso un tutoraggio verbale e distante su cui molti progetti di formazione ormai si basano.

Un’ultima considerazione. Di fronte agli occhi degli altri è, come detto, un’improvvisazione che cerca il contatto tra il corpo del coreografo Virgilio Sieni con le comunità che via via incontra. La sua presenza è necessaria ma comunque in qualche modo invadente. In molti istanti appare come il burattinaio che muove i fili dei danzatori. In un istante pare avvenire qualcosa di diverso, due ragazze restano sole in scena, forse qualcosa può emergere seppur con grande difficoltà, ma poi Virgilio Sieni ci ripensa e riprende in mano la conduzione. Probabilmente l’impulso è stato di sostenere una difficoltà, però devo ammettere di aver sentito sorgere in me il dubbio di essermi trovato di fronte a un’occasione mancata. Forse un vero dialogo poteva nascere invece di una conversazione guidata dal solo Virgilio a cui i ragazzi via via rispondevano. Forse poteva nascere una domanda dall’altra parte a cui Sieni avrebbe dovuto trovare una sua risposta differente, cambiare piani e modalità.

Di fronte agli occhi degli altri emana il profondo neoumanesimo di Virgilio Sieni. L’amore per il corpo e per l’umano. Lo si sperimenta in maniera evidente nel laboratorio che precede e meno, a causa del luogo, nella performance vera e propria. Ma esiste ed è il fondamento di questo lavoro, come di molti altri che Virgilio Sieni affronta in questi ultimi anni. La fragilità dell’umano che si esprime con il corpo.

Una friabilità che non è solo di alcune persone, è di tutti. Siamo sempre più impreparati ad affrontare la difficoltà, la crisi, la critica, totalmente abbracciati come siamo dalla civiltà. Eppure la fragilità di fronte a ciò che ci sovrasta è anche la piattaforma che ci fornisce gli strumenti per affrontare ciò che è più grande di noi. Se la mettessimo più in evidenza, se costruissimo una società basata sulla manchevolezza piuttosto che su un’illusoria idea di onnipotenza, forse saremmo tutti più umani e comprensivi verso ciò che come noi è manchevole e assolutamente lontano dalla perfezione.

Deflorian-Tagliarini

IL CIELO NON E’ UN FONDALE: Deflorian-Tagliarini

È palese, ci stanno aspettando. Con un’aria anche un po’ annoiata, si direbbe. Quasi. Parlottano fra loro, non fingono neanche di ignorarci, anzi. Ci guardano. Di sicuro Deflorian-Tagliarini ci considerano molto di più di quanto non facciamo noi pubblico, tutti occupati a terminare le ultime chiacchiere e gli ultimi aggiustamenti sulla poltrona, intenti a riconoscerci l’un l’altro in quel senso di felice e provvisorio spirito di comunità che è il ritrovarsi insieme in teatro. Questo poi, giusto per l’occasione, ci si presenta “tagliato”: la sala de Berardinis dell’Arena del Sole di Bologna stavolta è priva di tutta la sua abituale e imponente profondità, le si nega il privilegio dell’altezza delle balconate. Un fondale nero isola la platea e le regala una deliziosa intimità da piccolo teatro. Democraticamente, ci ritroviamo tutti a guardare dalla stessa prospettiva.

“Ad un certo punto vi chiederemo di chiudere gli occhi. Potete farlo?”

Bugia. È chiaro, la prospettiva migliore per guardare ce la stanno suggerendo loro. Con semplicità, l’invito non è di guardare verso di loro. Con la sorridente disinvoltura che caratterizza lo stare scenico di Deflorian-Tagliarini, di guardare con loro. Di osservare un po’ insieme. È un invito a entrare.

Il cielo non è un fondale, spettacolo candidato per quattro delle categorie del premio Ubu di quest’anno e su cui esiste già tanta entusiastica critica, è un piccolo elegante tranello, ed è bene dirlo: si sconsiglia vivamente di consultare sinossi, nonché di continuare ad nutrire fiducia e aspettative verso la trama, quella canonica con un inizio e una fine. Quella che dà sicurezza, ma che presenta un limite, è lineare. Qui invece si procede per saltelli.

Propongo una parafrasi: hai presente (invece) le certezze dei rumori della città?

Deflorian-Tagliarini, che qui sulla scena vantano la collaborazione di Francesco Alberici e della limpida e virtuosa vocalità di Monica Demuru, hanno abituato già fin troppo bene il pubblico a un peculiare modo, disinvolto e familiare, caloroso, di abitare lo spazio del teatro per riempirlo di uno sguardo profondamente e affettivamente complice, riguardoso nei confronti delle piccole cose e dei piccoli fenomeni quotidiani – solo pochi giorni fa la compagnia presentava la performance Cose all’interno della stagione Agorà dell’Unione Reno Galliera, un’altra perla di notevole naturalezza performativa – che si presentano all’osservatore in quiete.

È in questa calma senza climax che la compagnia riesce a trovare e a far vivere il respiro che le è proprio, quello che lega con levità il testo al suo contesto, lo sguardo alla parola libera. Leggera e sempre plurale. Il cielo non è un fondale rispetta tutti quelli che sono già i punti forti di un teatro che vive di poco e di essenzialità, e lo fa sotto un imperativo di profonda eleganza e pulizia scenica, che non viene mai meno. Il tranello cui si accennava risponde a un’architettura ben precisa.

Giusto per continuare sulla scia del “è bene dirselo”, infatti, è davvero arduo se non impossibile riflettere su uno spettacolo del genere senza incappare nello stesso sgambetto che Daria Deflorian ci racconta così bene su questa scena che ha fondale ma non quinte, e si dilata come le narrazioni dei quattro sulla scena, illuminata da due file di fari perpendicolari alla sua ampiezza: quello di un quotidiano dire, dire, continuare a dire e a “esistere nel dire”, nella logica di un “io obeso” gonfio di considerazioni che, vedi, io parlo e la musica non la sento più, ma che peccato!, finiscono non solo per non corrispondere più a nulla, né dentro né fuori, ma per mettere in ombra la mappa più generale di una città da “guardare come in un film”. Di uno sfondo, quale che sia, che non è mai accessorio.

Gli aneddoti e le musiche che ci vengono proposti uno dietro l’altro, e talvolta uno sopra l’altro, ne Il cielo non è un fondale – una selezione che varia dai classici Mina e Lucio Dalla per chiamare accanto a sé anche i Nine Inch Nails filtrati da Johnny Cash e il contemporaneo Giovanni Truppi, ma nella categoria ci finisce anche quello speciale “intorno” i cui rumori sono riprodotti magistralmente da Monica Demuru – potrebbero anche essere riconsiderati nella loro singolarità specifica, e costituirebbero una ricchezza di spunti potenzialmente inesauribile per lo spettatore: si finirebbe così per abbracciare questioni complesse, che hanno a che fare tanto con le interazioni porose di livelli interni ed esterni quanto sulla solitudine profonda dell’osservatore, sulla difficoltà della relazione nel mondo sociale (e per questo ci si lasci cullare dal punto di vista così serenamente concreto del giovane Francesco Alberici), sullo scollamento constante e la volontà di sintesi univoca sempre disattesa… Un intricato complesso di Tanto, tanto di tutto, troppo di tanto, e tutto troppo chiacchierone – specie se ci si mette l’io, l’altro, la strada, il venditore di rose, il paninaro notturno (e a lui sì, si può chiedere di riempirci la pancia con “tutto”, di metterci “tutto” in quel panino).

“Che al mondo non puoi sfuggire. Ma ho nostalgia delle cose impossibili”. O anche di quelle semplicemente quotidiane. Il tappeto, il termosifone.

Lo squarcio di cielo che ci propone la compagnia Deflorian-Tagliarini finisce per funzionare così anche come una mappa. Propone percorsi. Discontinui, sicuramente. Una mappa di geografie immaginarie, che per orientare porta a perdersi. E passa per la strada e per il supermercato, da un seminterrato qualsiasi dove si finisce per sbaglio a un parco qualsiasi dove si va volontariamente. Dalla volontà di tirarsi indietro a quella che ci espone drammaticamente all’esterno. Un milione di partenze e nessun arrivo, tanto, come recita la canzone La domenica, che cosa cambia?

Se il tutto è maggiore della somma delle sue parti (cosa vera sempre fino a un certo punto, soprattutto in questo caso), ciò che salta all’occhio con Il cielo non è un fondale è una meravigliosa armonia nella composizione, l’equivalenza intensiva delle parti. In egual misura necessarie, in egual misura collettive.

E non può non colpire anche l’elegante scienza con la quale gli interpreti condividono lo spazio scenico: che se pure la disposizione prende in alcuni punti ispirazione da una famosa fotografia scattata da Jack London nell’East End di Londra, è ugualmente vero che il modo in cui a tratti ci vengono proposte le spalle, o vengono sfruttati i temporanei momenti di buio con cui eravamo stati accolti per operare piccole sostituzioni, il risultato finale è esattamente quello di una compartecipazione profonda. Non ci si permette mai di sentirci altro o altrove da un proprio lì, proprio con loro. E questo grazie a una impeccabile naturalezza del gesto minimo.

L’ironia brillante, agrodolce e scanzonata che è connaturata a tutto il lavoro di Deflorian-Tagliarini (sempre di una dolcezza quasi infantile) gioca in questo un ruolo essenziale: se su di un fondale nero che si allarga e si restringe possono aprirsi varchi su una varietà inesauribile di panorami diversi, è anche vero che non si cade mai. A un passo dal baratro, dalla caduta, la compagnia ci invita a fermarci e ci riprende con un sorriso, con una variazione e con uno scarto. Più o meno. Perché a volte, la scelta è proprio quella di cadere, di toccare terra. Ma con la stessa grazia, riescono sempre a cambiare il punto di vista. Osservano l’abisso senza poterci sprofondare. Tanto nella vita è così, rimetti un chiodino, a un certo punto non occorre neanche sostituirsi, ci sarà qualcuno magari a interrompere la caduta, o magari a improvvisare un abbraccio che porti a qualche centimetro da terra come in un vecchio musical (e il punto in particolare è di una dolcezza e levità tale da non riuscirsi a dire).

Ogni elemosina, ci dicono, va fatta “con giuste mani” (di nuovo rubiamo direttamente l’immagine che lo spettacolo ci propone, rifiutando la sovrainterpretazione). Con Il cielo non è un fondale la compagnia Deflorian/Tagliarini non ha nessuna morale da venderci, nessuna rosa o enciclopedia porta a porta. Eppure con la mano tesa e aperta qualche buona suggestione ce la lascia: ma di fronte all’ultima definitiva sostituzione, con un termosifone sul quale ci si può sdraiare, e a cui se ne aggiungono altri liberati dalla cortina nera che li nascondeva, può forse valere una parola più di un eloquentemente muto sorriso, e di uno sguardo partecipe?

Forse vale più una domanda, a questo punto, e fatta direttamente ad Antonio Tagliarini. Continuando ad avere Città vuota di Mina nelle orecchie mi chiedo: ma com’è finita poi la storia della pietra lanciata dal cavalcavia?

di Maria D’Ugo

photo-©-Valerie-Jouve

Massimiliano Civica

CONCENTRICA: PAROLE IMBROGLIATE di Massimiliano Civica

Parole imbrogliate. Questo voleva lasciare Eduardo De Filippo dopo la sua morte. Desiderava renderci difficile costruire un monumento alla sua memoria. Le sue opere dovevano parlare, non le agiografie. Massimiliano Civica in questa lezione spettacolo tenuta durante la rassegna Concentrica all’ex Birrificio Metzger di Torino rispetta decisamente la volontà del maestro.

Nessuna agiografia. Ricordi sparsi e riflessioni che parlano di Eduardo e nello stesso tempo ci indicano sentieri poco battuti nei ragionamenti odierni sull’arte del teatro.

Massimiliano Civica costruisce la sua lezione-spettacolo rivolgendosi a tutti e nello stesso tempo invita la gente di teatro, quella che abita la scena oggi sia esso artista, critico o operatore, a considerare alcuni aspetti dell’agire e pensare di Eduardo rispetto alla situazione attuale.

La famigerata “cattiveria” di Eduardo raccontata negli aneddoti del suo rifiuto all’aumento di paga a Pupella Maggio, che fu costretta ad allontanarsi dalla compagnia, o gli sbiancamenti, ossia le ramanzine agli attori che non recitavano come lui voleva in scena e davanti al pubblico, più che gettare una luce sul carattere del maestro ci parlano di un rigore che in molti casi è scomparso. Un rigore crudele agito per amore del teatro che richiede sempre di essere pienamente nell’istante e mai adagiati su ciò che si è fatto ieri, o in prova, o l’anno scorso.

Anche il rapporto di Eduardo con la tradizione e la ricerca, termini che oggi tanto dividono, e in effetti non hanno senso perché in teatro, come diceva Leo De Berardinis esiste solo “la tradizione del nuovo”. La ricerca si inserisce in una tradizione di innovatori tra i quali Eduardo De Filippo spicca di immensa luce. Il guardare sempre a un nuovo lavoro, a un futuro da costruire, il non volgere mai lo sguardo indietro per non essere tramutati in statue di sale immobili e rigide nel conservare quello che è in perenne trasformazione.

Massimiliano Civica racconta di Eduardo e ne segue la lezione, imbroglia le carte, finge di parlare solo del maestro e della sua opera e invece ci parla del teatro. Quando racconta della prima di Napoli milionaria al teatro San Carlo a guerra appena finita, dei dubbi della compagnia se fosse giusto portare in scena un testo che parlava di cose scomode, vissute da tutti obbligati dalla dura situazione imposta dal conflitto, e del successo che ne segue, degli attori portati in trionfo perché Eduardo è riuscito a parlare del dolore di tutti, ecco che viene alla luce un tema scottante sul teatro di oggi. Quante opere vanno in scena che parlano di quanto ognuno di noi patisce? Quanti lavori teatrali rispecchiano il mondo e diventano organo di riflessione per la comunità che frequenta i teatri?

Gli episodi della vita di Eduardo raccontati da Massimiliano Civica diventano dunque frammenti di pensiero sull’arte della scena e sul suo destino. Eduardo si fa non tanto monumento quanto strumento di meditazione. La sua figura allampanata e severa, la sua recitazione finissima e verace, la sua vita dedicata al teatro con devozione totale, parlano di una modalità che manca al teatro di oggi e ci impone una serie di domande a cui non si può sfuggire: quale teatro possiamo costruire oggi? Quale funzione può avere? Perché il pubblico dovrebbe frequentarlo?

Collettivo Controcanto

CONCENTRICA: SEMPRE DOMENICA di Collettivo Controcanto

Non vi è niente di più complesso della semplicità. Sei attori su sei sedie. Seduti lì per quasi due ore a intrecciare storie di vita, che potremmo aver vissuto anche noi, potrebbero esser nostre, e niente altro. Questo è Sempre domenica del giovane Collettivo Controcanto in scena al teatro della Caduta di Torino nell’ambito della rassegna Concentrica.

Il lavoro nobilita. Pure la nostra malconcia repubblica è fondata sul lavoro. Questo ci è stato insegnato e in questo tutti noi crediamo. E se fosse invece un’assoluta annichilente schiavitù, dove ciò che veramente è importante deve esser sacrificato nel nome di questa illusoria nobiltà? E perché mai la parola d’ordine delle nostre vite deve essere indiscutibilmente: sacrificio? Questo continuo dover inghiottir rospi in lavori che in fondo non portano altro alla nostra vita se non una busta paga e un quanto mai precario sogno di pensione, non scortica senza speranza ogni fibra delle nostre anime fino a ridurci a larve vuote che non sanno più nemmeno cosa veramente ci appartenga e sia veramente nostro?

Sono interrogativi fortissimi che risuonano nell’intrecciarsi delle storie che i sei attori evocano seduti sulle loro sedie. Il corriere che vorrebbe aprire un Bad&Breakfast; il concierge che deve mantenere la figlia nata da un rapporto occasionale; la segretaria che vive una relazione anonima e stantia e cade nel più trito dei cliché andando a letto con il capo; il meccanico che vede fallire il suo sogno di impresa prima ancora che incominci; i quattro amici costretti a far solo un week end di vacanze insieme a Sabaudia perché non riescono a far collimare le ferie.

Piccoli drammi quotidiani vissuti per portare lo stipendio a casa, sopravvivere un altro giorno al gioco della vita le cui regole sono state stabilite altrove. Persino le ribellioni, quando nascono, si sgonfiano prima ancora di esplodere perché c’è il mutuo da pagare e un lavoro è sempre un lavoro.

Vi è molta rassegnazione e sconfitta in questo Sempre domenica del Collettivo Controcanto, ma anche ironia tagliente come un bisturi che incide la piaga. Dal bubbone purulento emergono i liquidi infetti e inizia la guarigione. Forse. Perché il quadro che si delinea di quest’Italia è quanto mai misero e sconfortevole.

Un’umanità stanca, affranta, incapace di alzar gli occhi da terra quella che emerge da Sempre Domenica del Collettivo Controcanto. Nella semplicità dei racconti intessuti uno nell’altro si delinea una società italiana sempre più demotivata a cui non resta che riderci sopra, far finta di niente e tirare avanti un altro giorno e nulla più. Sono spariti i sogni, gli ideali, le rivoluzioni. Resta il lavoro che tutto assorbe, tutto ammorba.

La drammaturgia di Sempre Domenica emerge collettivamente dal lavoro del Collettivo Controcanto guidato dalla regista Clara Sancricca, ben sostenuta dai bravi attori Federico Ciaciaruso, Fabio De Stefano, Riccardo Finocchio, Martina Giovanetti, Andrea Mammarella, Emanuele Pilonero. I personaggi sfumano uno nell’altro grazie a un ritmo serrato e ben congegnato. Gli attori che non animano le persone evocate si sgonfiano come burattini senza fili, immobili, lo sguardo perso a far da controcanto alla vitalità di quelli che sorgono al posto loro. Tutti insieme sospinti da una forza che è altrove e li manovra e ne determina i destini.

Semplicità che nasconde grande lavoro di drammaturgia e di interpretazione. Bravi gli attori a tener vivi i loro personaggi con niente altro a loro disposizione che il corpo e la voce, solamente seduti su una sedia. Niente musica, niente giochi di luce, niente scene o costumi. Solo l’antica arte dell’attore a dimostrare una volta di più che quando il teatro è supportato da buone idee, una visione del mondo e ricerca efficace sa dare il meglio di sé senza il bisogno di effetti mirabolanti.

E ancor più importante è l’aria che circola tra il palco e la sala. Spesso quanto avviene sulla scena resta qualcosa di avulso dalle vite degli spettatori. In Sempre domenica del Collettivo Controcanto vi è una condivisione, un rispecchiamento. Le domande poste dalla scena ci colpiscono perché sono le nostre, le ansie di fuga e di riscatto sono comuni, perfino le sconfitte, la rassegnazione, l’abbandono della lotta.

Michele Santeramo

IL NULLAFACENTE di Michele Santeramo

Per Il Nullafacente di Michele Santeramo mi vengono in mente le parole che Gaber usava per raccontare la storia di un uomo qualunque e una donna qualunque: e poi e poi non ho più voglia di parlare, son confuso e non so neanche decifrare questo gran rifiuto che io sento. Non se se è un odio esagerato o un grande vuoto o addirittura un senso di sgomento, di disgusto che cresce, che aumenta ogni giorno, mi fa male tutto quello che ci ho intorno. […] E poi e poi io e lei, un uomo e una donna in cerca di una storia del tutto inventata, ma priva di ogni euforia e così concreta…

Prodotto dal Teatro della Toscana, Il Nullafacente porta in scena una drammaturgia firmata da Michele Santeramo, per la regia di Roberto Bacci. Sono due i poli opposti che si contrappongono, tanto nei presupposti ideali che costituiscono la base di questo lavoro quanto nello spazio scenico che li traduce: azione e inazione, la scelta di fare e quella di stare. In entrambi i casi, lasciarsi muovere dal desiderio e dal bisogno. La sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole di Bologna si presta bene alla costruzione di questo ideale ring dialettico, nel quale di fronte allo spazio domestico di un uomo e sua moglie, chiusi in una scelta deliberata che esclude qualsiasi forma attivamente pratica di esistenza, vengono lasciate le sedie che ospitano gli altri tre personaggi quando non impegnati nella scena, al livello della platea. Al nostro livello, insomma. Quello dell’efficienza, dell’attività, del ritmo scandito dal circolo di denaro e lavoro, della pratica “vita agra”. All’interno della scena vera e propria, invece, all’interno della casa, ci sono una donna e suo marito. Lui un epicureo in vestaglia, lei prossima a morire.

A dispetto del titolo, con Il Nullafacente Michele Santeramo e Roberto Bacci sono ben lontani dal presentarci la vicenda di un individuo isolato che sceglie di perseguire il benessere tramite il non-agire. Il movente dello spettacolo risiede esattamente in questa impossibilità di isolamento. Del resto, in qualche modo era anche l’insegnamento dello scrivano di Melville: si afferma (ed eroicamente ci si ferma) attraverso la negazione. L’utopia resta però sempre un fatto personale, c’entra poco con tutto quello che continua a esistere, e soprattutto a desiderare, fuori dalla porta. In virtù di questo, lo spettacolo si evolve attraverso le continue invasioni ai danni di questo spazio di resistenza privata: si reclamano inutilmente i soldi dell’affitto, ci si cerca di convincere della validità di una forma pur velata di accanimento terapeutico, si inneggia e si litiga – con forse troppo didascalismo – tenendo sempre al centro la logica della distrazione quotidiana e di quel “riempire la vita con cose per diminuire la paura della morte”.

Quest’ultima, esattamente come gli altri personaggi, non la si può proprio tenere fuori dalla porta. E non si vuole neanche farlo, anzi. Allora viene reiterato il ben noto apologo del carpe diem, della fruizione dell’attimo presente, della condanna del lavoro in quanto inutile schiavitù, si preferisce parlare a una pianta, piuttosto che con chi non ha orecchie atte all’ascolto. E non c’è però alcuna banalità. Piuttosto è rivalutazione, apparentemente il fine ultimo de Il Nullafacente, di un livello ulteriore, quello che già nella classicità faceva di Seneca un proto-anarchico: quello del tempo, e del tempo da dedicarsi. Livello che con la praxis ha poco e nulla da spartire. Anche l’apatia ha la sua dose di purismo.

Ne Il Nullafacente, Michele Santeramo non nasconde la volontà di indagine e ascolto di un movimento contrario alla norma sociale dominante, che si estende all’interno e va in cerca di quell’interno. È ricerca di una essenzialità ripulita dall’eccesso e dalla distrazione non necessaria. Perché lo spettro è sempre lo stesso, la paura. Questa viene incarnata in modi differenti da tutti i personaggi che circondano il protagonista.

Nel suo nucleo progettuale, il Nullafacente affronta dei temi cardine, che ora più che mai c’è bisogno di non ignorare, di non lasciar passare sotto silenzio, ed è un lavoro che decisamente può dire molto. Ma il paradosso è che forse potrebbe farlo anche dicendo un po’ meno. Le dinamiche messe in campo effettivamente sulla scena infatti sono sì interessanti e necessarie, ma molteplici, decisamente complesse. Non siamo di certo nel regno di una limitante quanto fuorviante esaltazione della mindfullness, o della pratica ascetica: a saturare il campo ci sono anche la consapevolezza della finitudine, il panico prodotto dalla cultura della superficie, l’affetto che troppo spesso viene tradotto in una logica morale e materialmente assistenziale. Mi resta la sensazione che sia la parola stessa il limite de Il Nullafacente. Ci viene detto tutto, troppo. Le relazioni che si instaurano fra i personaggi corrono costantemente il rischio di perderne in onestà e in quella stessa essenzialità che però viene oralmente reclamata. Questo non ha molto a che fare con la qualità del lavoro, quanto con un tipo differente di sensibilità, probabilmente. Gli interpreti vestono eccellentemente i loro panni, ai nostri occhi sono credibili, ma molto meno lo è proprio la condensazione verbale della situazione, che rischia di arrivare a dei toni a tratti patetici e un po’ carichi, come nella scelta di far dialogare il protagonista con la sua pianta di bonsai, o nella scena del compleanno, preludio di un finale che si era annunciato fin dall’inizio.

Tuttavia devo ammetterlo, resto ammirata da qualcosa che lo spettacolo ha prodotto. C’è un drappello di ragazzi di colore che esce dalla sala, uno di loro in particolare è esaltato, sorridentissimo: chiede a tutti cosa ne pensano, ripete la sua, “mi è piaciuto moltissimo, vedi, lui aveva così tanti problemi ma faceva così bene così…”. E a quel punto sorrido io. Ripenso a quel Nulla così rumoroso che Il Nullafacente di Michele Santeramo ha messo in gioco. A ciò che parla rispetto a ciò che tace, alla differenza solo epidermica delle necessità, delle scelte di movimento. Al bisogno di far interagire i piani, esattamente come nello spettacolo, fra dentro e fuori. A chi ha bisogno di più silenzio e a chi, invece, vuole ascoltare una scena che parli con parole più che chiare e più che riconoscibili. E mi piace che si arrivi comunque sempre un po’ dappertutto, dove c’è bisogno.

Di Maria D’Ugo

Ersilia Lombardo

CONCENTRICA: INCUBO di Ersilia Lombardo

Raccontare questo Incubo di Ersilia Lombardo diventa difficile senza macchiarsi di un dei più gravi peccati di questi giorni: lo spoileraggio! Quindi non resta che giocare a Tabù e, senza nominare le parole proibite, cercare di fare qualche riflessione.

Quentin Tarantino dice che raccontare una storia è innanzitutto spiazzare lo spettatore, far sì che non si aspetti mai il passo successivo del racconto. Quando dopo dieci o quindici minuti capisci già dove si va a parare significa che non l’hai raccontata bene. Incubo di Ersilia Lombardo non possiede questo difetto. L’intreccio è abbastanza ben costruito da avvincere lo spettatore e costringerlo a chiedersi come andrà a finire.

Chi è questa donna che farnetica numeri a casaccio? Perché è finita in questa stanza dove sono presenti solo quaderni e un telefono? Chi è la signora Ende? Il mistero, se in un primo tempo si infittisce, piano piano finisce per diradarsi e la protagonista si domanda: non era meglio non sapere?

Una sola attrice – la brava Chiara Muscato -, e pochi elementi scenici per tessere la trama che si svolge davanti all’occhio dello spettatore. Una semplicità francescana che demanda il compito di tenere in piedi l’edificio narrativo tutto all’antica arte dell’attore, missione che Chiara Muscato assolve pienamente.

Troppe volte si vedono sulle scene attori impreparati, carenti di tecnica di base, oppure intrisi di una recitazione affettata e tradizionale. In Incubo di Ersilia Lombardo grazie alla recitazione viva e brillante di Chiara Muscato si scongiura questo pericolo.

Il ritmo della narrazione ogni tanto si addormenta, rallenta fino a quasi fermarsi, ma immediatamente si riprende conducendo senza troppa fatica la nave in porto. L’uso delle luci è puntuale, segno nella narrazione e non semplice corredo d’atmosfera.

Nessun difetto particolarmente evidente nella confezione di questo spettacolo gradevole e di una giusta pezzatura temporale, eppure nonostante questo mi nasce spontanea una riflessione. Quale la finzione di questa piéce? Mi verrebbe da rispondere semplice intrattenimento. Nessuna particolare urgenza da condividere con il pubblico, nessuna questione politica o sociale, solo il gusto di raccontare una storia.

Questo almeno è quello che sembra a me.

Guardate che non è un cercare un difetto ad ogni costo. Raccontare, condividere storie è una delle funzioni che il teatro ha esplicitato nella sua millenaria storia, per cui niente da dire. Il soggetto se l’avessimo visto in un film americano non ci saremmo mica stupiti. Saw inizia proprio allo stesso modo. La modalità di apparizione degli indizi che lentamente acquisiscono senso in un disegno, la vediamo agire in molte delle serie che più appassionano, e nonostante qualche calo di ritmo in Incubo la tensione rimane alta fino alla conclusione.

Rimane la sensazione che manchi qualcosa, che lo spettacolo dal vivo necessiti di una visione del mondo a corredo. Trovarsi in un qui e ora, in un luogo deputato e condividere un evento è qualcosa di più che raccontare una semplice storia: è costruire pensiero in immagine, e questa immagine ognuno se la porta a casa e la adatta a sé, alla sua vita, alla sua personale visione della realtà. Ma ripeto è una mia sensazione che svolgo in forma di riflessione aperta, quasi una domanda che ultimamente mi trovo a pormi sempre più spesso: quali sono le funzioni delle performing arts o live arts nel contesto socio-culturale in cui ci troviamo ad agire? Raccontare storie può avere ancora quel ruolo che aveva in passato? Cinema e serie TV non lo fanno meglio e in maniera più completa?

Non ho una risposta a queste domande, benché per la mia storia personale sia portato a credere che se una funzione il teatro la debba proprio avere dovrebbe essere quella contenuta nell’etimo delle origini: il luogo da cui si guarda il mondo. In Incubo di Ersilia Lombardo, benché lo abbia gustato e apprezzato, mi manca il mondo, l’apertura verso un orizzonte di pensiero sulla realtà.

Falstaff

TEATRO REGIO: FALSTAFF di Giuseppe Verdi

Falstaff è la prima parola del libretto. Il protagonista è da subito presente e immediatamente evocato come una divinità. Assiso sul suo scranno da osteria come re Lear sul trono, Falstaff e il suo pancione signoreggiano sulla scena.

Come accade spesso nelle opere di Verdi si è precipitati nell’azione e vi si rimane avvinti fino all’ultima nota. Nell’ultimo suo capolavoro operistico Verdi, insieme a Boito, concepisce un vero gioiello di teatro musicale: azione serratissima colma di colpi di scena, agnizioni, scene madri, inganni, trappole e tradimenti; ma anche sapiente miscuglio di toni drammatici se non tragici che danno profondità e consistenza all’intreccio.

Falstaff è il motore, lo spirito della vita che irrompe con tutte le sue arguzie e appetiti, un moderno Dioniso che scuote e rapisce. Circondato da due satiri traditori come Pistola e Bardolfo, il cavaliere panciuto giudica e mette in moto gli eventi: due lettere identiche se non per il nome della destinataria, per un identico amore per la vita e le sue gioie.

Da questo moto arbitrario come la richiesta assurda di Re Lear si scatena l’azione a cui tutti i personaggi devono prendere parte, dimostrando il meglio e il peggio di se stessi, mascherandosi e rivelandosi continuamente. Alla fine quando Falstaff gabbato e giocato, viene giudicato e costretto a pentirsi, si comprende il suo ruolo dalle sue stesse parole: Ogni sorta di gente dozzinale/mi beffa e se ne gloria;/pur, senza me costor con tanta boria/non avrebbero un bricciolo di sale./ Son io, son io, son io, che vi fa scaltri,/ L’arguzia mia crea l’arguzia degli altri.

Non dunque un vecchio crapulone e burlone, ma il nume tutelare che presiede alla vita che ribolle e che combatte le forze che vogliono a tutti i costi irregimentarla, costringerla, educarla. I veri gabbati sono infatti Mr. Ford e il Dottor Cajus, il geloso che non comprende la grandezza della donna che ha sposato e il vecchio barboso e rigidone che vorrebbe sposarsi la bella figlia di Ford innamorata di Fenton. Ed è quindi di Falstaff l’ultima risata, quando vede Ford che sposa suo malgrado Fenton e Nannetta travestiti, e il Dottor Cajus che si trova a essere sposato con Bardolfo.

Nel Falstaff di Verdi/Boito cosi come nel modello shakespiriano de Le allegre comari di Windsor, la parte del leone la fanno senza dubbio le donne capeggiate da Alice. Sono non solo più sveglie e intraprendenti, ma mettono in campo la natura migliore e più forte. Se gli uomini sono traditori, deboli, gelosi, vendicativi le donne si ingegnano per punirli e gabbarli, rivendicando il loro diritto alla felicità e libertà.

In Falstaff sono toccanti anche i toni oscuri, presenti in tutto l’intreccio. La violenza nei rapporti umani, l’incombere di decisioni che possono bloccare gli afflati più vividi della propria natura, la vecchiaia e il declino, i rintocchi di campana della morte. Soffia un’aria di precarietà e di sogno. Tutto può sfumare da un momento all’altro per lasciare la scena vuota priva di movimento e di vita. Falstaff e il suo pancione sono lì per rinnovare il fuoco, per attizzarlo affinché non perda il moto.

Teatro musicale si diceva in esordio, di cui Verdi è un maestro indiscusso. L’azione, l’intreccio e il ritmo sono tutto nell’impresa di far rivivere le sue opere sulla scena. Aldilà di ogni scelta interpretativa, oltre i gusti personali e i pensieri di ogni regista quella che deve esser valorizzata è l’incredibile capacità verdiana di abitare la battaglia, per dirla alla Carmelo Bene. Non se ne può uscire, bisogna risponder colpo su colpo, tenere il ritmo fino alla fine a costo di perdere il fiato.

Le scelte registiche di fermare l’opera per esigenze scenografiche falliscono in questo. Laddove Verdi si precipita incalzando lo spettatore, si blocca l’incedere fallendo il passo, sospendendo il pathos. Apprezzabile l’idea di Daniele Abbado, in questo allestimento in scena al Teatro Regio di Torino fino al 26 novembre, di recuperare gli strumenti spettacolari del teatro: le botole, le sorprese, i macchinari ma avrebbe dovuto metterle al servizio dell’azione più che della visione.

Purtroppo accade spesso che l’azione scenica sia sacrificata sull’altare della musica e delle esigenze liriche, e si dimentica che il teatro d’opera è prima di tutto teatro. Le due cose vanno di pari passo.

Come insegnava Mejerchol’d nelle sue lezioni del 1918, se per montare le scene l’opera ne risente abbiamo sbagliato qualcosa. E allora anziché ricreare ambienti basterebbe qualcosa di più semplice ma al servizio del ritmo. E fatalità il grande regista russo proprio a Shakespeare si riferiva criticando l’azione dei Meininger che per ricostruire minuziosamente una scena tagliuzzavano i testi e rallentavano l’azione per dar tempo ai macchinisti di montare la scena. Mejerchol’d ricordava che il Bardo concepì i suoi capolavori conoscendo perfettamente le modalità espressive del teatro nelle O di legno, e che alla semplicità apparente di quel teatro si deve tanta meraviglia.

Con Verdi potremmo dir la stessa cosa. Il ritmo, l’azione, i tempi ce li detta già la musica, a noi non resta che abitare la battaglia e dargli spazio e luce.

Con questo non voglio certo dire di aver assistito a un allestimento fallace, quanto esprimere una riflessione e un invito. L’idea era buona ma si poteva fare di più, lasciar esprimere il teatro nella sua potenza, mettersi al suo servizio più che imporre un ambiente macchinoso che ne blocchi il suo naturale sviluppo. E non parlo di aderenza al testo, e nemmeno di scelte di rappresentazione e interpretazione, quanto di composizione del movimento sulla scena. Avrei detto la stessa cosa se questo Falstaff fosse stato ambientato in un’odierna Windsor oppure su Marte con tutte spaziali se questo avesse inficiato il magistrale ritmo battagliero di Verdi e del suo teatro.

Gli Omini

GLI OMINI: CI SCUSIAMO PER IL DISAGIO. Riflessioni a volo di piccione sul PROGETTO T

La recensione che non si poteva scrivere. Quando ho lasciato il Teatro delle Moline dopo aver visto lo spettacolo Il controllore della compagnia toscana Gli Omini – in programmazione per il VIE Festival emiliano, terminato ormai da un mese – il pensiero è stato: no, su Il controllore non voglio dire nulla. Né formulare pareri né elaborare sinossi soprattutto perché in quel particolare momento mi sarebbe sembrato un esercizio più retorico che di osservazione e restituzione scritta.

Può accadere che uno spettacolo piaccia, giri bene ma non si riesca a intuire esattamente perché. È un meccanismo che ha a che fare non solo con le sensazioni, ma col lasciar sedimentare, lasciarsi tempo. In questi casi una qualsiasi ricerca di aggettivi e commenti – e questo l’archetipo dello spettatore appagato lo sa di default – stanno sicuramente più larghi e comodi in forma orale, rilassata. Nel secondo caso invece, perché la sinossi c’è già. Dunque evitare pedanti ridondanze, quando possibile.

Ma l’archetipo dello spettatore appagato (eccolo che torna) tiene comunque le orecchie ben aperte: evitando di aggrapparcisi quanto di ignorarli, piuttosto gustandoseli tutti (è pur sempre una forma di di osservazione), sente i commenti a cui si lascia andare il resto del pubblico attorno a sé, e considera in maniera approfondita quanto confermato dalla compagnia stessa al termine dello spettacolo. Dicono de Gli Omini: drammaturgia autentica, personaggi autentici, ricerca autentica. Tre anni per tre spettacoli sulla linea Pistoia-Bologna. Il controllore è l’ultimo e, ascolto bene, in qualche modo “il più amaro”, il termine del Progetto T. Non ho visto i precedenti, ma qualcosa gira dentro. È un paradosso, mi ritrovo come un passeggero del treno che sa dove sta scendendo ma non da dove è iniziato il suo viaggio. Pur essendoselo goduto tutto.

A fornire il biglietto per partire è l’Unione Reno Galliera, che con la sua interessante programmazione Agorà ha portato al Teatro La Casa del Popolo di Castello d’Argile il primo spettacolo del Progetto T de Gli Omini: Ci scusiamo per il disagio. E finalmente faccio opera di sintesi. Finalmente mi vien fatto di pensare che Irvine Welsh avrebbe dovuto farsi un giro alla stazione di Pistoia.

Basta poco: una panchina, sei “lampadoni” ai lati, una luce rossa sulla sinistra, l’altoparlante a stelo sulla destra, l’anima di Sergio Leone che aleggia. Che se la Porrettana fosse il vecchio west, i suoi cowboy restano comunque l’orgoglio dei manicomi cantati da Battiato.

I tre componenti de Gli Omini Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi e Luca Zacchini (cui aggiungere in regia il “quarto-omino e donna-piccione”, come verrà presentata, Giulia Zacchini) dimostrano una incredibile naturalezza, una onesta semplicità che convince, ed è di sicuro una delle carte vincenti della compagnia: impersonando quadro dopo quadro le strambe personalità che si succedono nella stazione di provincia, facilmente riconoscibili però in qualsiasi contesto provinciale, Gli Omini coprono una fetta di umanità ben estesa e visibile, fra il disadattato e il borderline, e la traducono sulla scena attraverso variazioni leggere, nel tono e nell’impostazione fisica; il filippino, la vecchia milanese dall’avventurosa vita amorosa, il sessuomane modenese, il gruppo dei drogati, la coppia affetta da mille disturbi diffidata dalla patria potestà e tutti gli altri personaggi, ci vengono presentati semplicemente nel loro occupare uno spazio dove più che transitare treni, transitano racconti, storie, vite. Ascoltiamo ciò che la compagnia ha raccolto nel primo dei tre anni di ricerca di campo compiuta sulla linea Porrettana, facciamo gli stessi incontri, facciamo esperienza di una vera operazione di antropologia teatrale resa visibile. Ma soprattutto ci godiamo uno spettacolo che ha dell’ironia sottile e agrodolce.

La ricerca infatti si vede, ma non travalica affatto l’andamento dello spettacolo, che segue una linearità voluta. Gli affezionati della climax e del momento di massimo apice drammaturgico dovranno accontentarsi: quell’apice sono i personaggi stessi. Del resto, cosa si poteva aggiungere? In Ci scusiamo per il disagio quello che non manca è precisamente l’incontro, e un incontrarsi, del tutto convincente nel suo essere vero. La rielaborazione del materiale drammaturgico è brillante, le tinte sono leggere e scanzonate, ironiche sì, ma sempre perfettamente credibili. Un ulteriore punto forte è quello che, per fortuna, manca: tanto la gravità drammatica quanto il macchiettismo. Così facendo resta la narrazione, per sua natura umile atto di salvataggio. Ridiamo tranquilli, siamo noi.

Se si va avanti così a uno viene voglia d’ammazzarsi. Spazio per le risate. La gente, non c’è niente che la salvi.

Se Gli Omini si dimostrano eccellenti nel non calcare troppo la mano, neanche si negano il gusto della tragicommedia surreale che vuole ridersi un po’ addosso: non si nega insomma lo spazio per il cicaleccio di situazione, per gli annunci “modello-Trenitalia” che si contraddicono e aboliscono la prima classe (in questo va detto che l’arredo della stazione, così come i piccioni frequentemente evocati, sono a tutti gli effetti personaggi in carne e ossa), per un rave a luci fredde con tanto di Shock in my town di Franco Battiato in sottofondo; gli espedienti comici funzionano tutti benissimo, compreso il leggerissimo momento dell’intervallo, con gli omini Rotelli e Zacchini che offrono caffè alla platea. La ripetitività delle situazioni e il ricomparire di alcuni personaggi crea puro ritmo: e Gli Omini puntano alla semplicità della struttura. Che funziona e conquista. Il finale è un piccolo capolavoro fumoso di spaghetti western di provincia.

Solo dopo questa partenza posso tornare a riflettere da pura spettatrice neutra anche su Il controllore, sull’evoluzione di questa ricerca fra le ferrovie che è il Progetto T, e chiedermi: cosa ho visto, cosa ho sentito, cosa è rimasto. La variazione della scenografia a incentivare il trasformismo, i personaggi che virano verso un grottesco ancora maggiore ma trattati forse anche con una distanza maggiore, e un ritmo più rallentato. Un elemento che mi aveva sorpreso ne Il controllore e ritrovo in Ci scusiamo per il disagio, la leggera sensazione che compare a volte di una eccessiva lunghezza, di uno stiracchiamento di tempi non so in che misura necessario. Della necessità di dare un termine, di fermarsi prima, anche di poco. E l’interrogativo finale, sul perché lo si stia pensando. E sul paradosso di pensarlo a riguardo di un ciclo di spettacoli che trova il suo centro nell’immagine di una stazione affollata solo di bestie, di un treno che non partirà mai, o che resterà fermo in mezzo alla Porrettana, ostacolato dagli “uomini gialli”, o da sacchetti della spazzatura abbandonati sul binario.

Ritrovarsi a predicare fra le tante possibilità della scena quella di poter arrivare alla potenza di una lente d’ingrandimento sul mondo, e parallelamente sentire di averne esperito abbastanza. Un paradosso, chissà. E nel frattempo, sentire anche che qualcosa si è sedimentato, e qualcosa continua a circolare. L’intelligenza artistica della compagnia Gli Omini forse emerge anche da questa inaspettata capacità: quella di lasciare che le storie e le situazioni si attacchino addosso, e non si possa fare a meno di ripensarci, riconsiderarle in ogni caso. E restano, infine, le stesse parole del controllore: “che anche se noi escludiamo il mondo, il mondo viene poi a visitarci sotto forma di mosche”.

Di Maria D’Ugo

Ritratto di

Differenti sensazioni: RITRATTO DI di TIDA/Elena Pisu

Ritratto di. Manca l’oggetto. Cosa si ritrae? Una massa informe all’inizio. Un bozzolo che il pittore inizia a ritrarre nella sua immobilità. Poi quell’impossibile mucchio inizia a muoversi, si dimena e quando ne emerge una mano e poi un piede si prova a supporre che sia un uovo.

Il movimento però genera un cambio di prospettiva che chi dipinge prova a seguire, modificando la pennellata e il disegno. Ciò che viene ritratto non è più l’oggetto ma il suo movimento nello spazio, la forma sfugge nel dislocarsi e diventa traccia, percorso, sentiero.

Ritratto di. Non più il bozzolo ora ma il corpo nudo della danzatrice. E il dipinto diventa un nudo di ragazza ma non come è come la vede il pittore. E ancora il movimento che modifica il risultato. Il confronto è quindi con l’occhio che vede. Una miriade di occhi dipinti, umani e animali circonda quel corpo che si muove e l’osserva, ma non è più il corpo è lo sguardo che lo vede il protagonista. E infine ancora il ritratto, l’occhio che restituisce ciò che vede.

Nel mito greco del rapimento di Persefone l’atto di Ade non si compie fino a che la pupilla di Persefone non incontra quella di Ade e lì si riflette. L’occhio che vede rende possibile ciò che accade. E Persefone è appunto anche nel nome La Pupilla. Il problema, si fa così per dire, e quando l’occhio restituisce ciò che vede, se ne appropria, lo muta, genera significati altri. Questa non è una pipa. È l’immagine di una pipa non l’oggetto. È un’altra cosa ancora. Così come quando Kossuth pone nello stesso spazio una sedia, la sua immagine fotografica e la sua definizione. La sedia cos’è? E quindi il corpo nudo davanti a noi che vediamo muoversi cos’è e cosa ci dice?

In Ritratto di Elena Pisu propone una riflessione interessante non solo sul corpo in movimento ma anche sullo sguardo che lo osserva. È un interrogativo interessante anche per la critica: cosa vediamo quando vediamo? Il già visto quanto influenza quanto vediamo nell’attimo fuggente dello spettacolo? Quanto la nostra visione modifica quello che realmente è in scena? La visione è una forma di tradimento dell’essere? Non c’è risposta o, per lo meno, ce n’è una per ciascuno. L’importante è averla posta.

Un buon lavoro Ritratto di, ben strutturato nel suo incedere e nella sua drammaturgia che risulta sempre chiara in ogni suo passo. Forse l’unico suo difetto è di essere un po’ algido e glaciale. Si genera una domanda quasi tecnica che non sviluppa emozione ma solo riflessione. Non è detto che sia un male. È semplicemente una modalità. Solo guardandolo a me personalmente sembra mancare qualcosa. Ma è una mia personale impressione.

Ph: @Daniela Bramanti

WS Tempest

Differenti sensazioni: WS TEMPEST Teatro del Lemming

WS Tempest del Teatro del Lemming, andato il scena alle Officine Caos per Differenti sensazioni, è il terzo anello della catena della Trilogia dell’acqua dedicata al Bardo e i cui precedenti capitoli erano Amleto e Romeo e Giulietta.

Come consuetudine l’esperienza per lo spettatore è intima e, mi si passi il termine, violenta. In pochi e totalmente immersi nella scena, partecipanti e non spettatori, si condivide uno spazio, i movimenti, l’atmosfera, la scena; e nello stesso tempo si è in balia di qualcosa che accade nonostante la nostra presenza, un evento di cui non conosciamo, come pubblico, le regole del gioco e non resta che abbandonarsi fiduciosi e timorosi a ciò che avviene intorno a noi.

Si entra in uno spazio che ci circonda. Gli attori sono seduti a terra in cerchio con dei fogli e delle candele che illuminano fiocamente lo spazio che circoscrivono. E subito si è sull’isola di Prospero. E le voci degli spiriti/attori ci chiamano a iscriverci sulle pagine dei libri del mago. Come alla dogana ci chiedono di declinare le generalità: una volta iscritti siamo parte della storia.

Ma chi è Prospero se non Shakespeare stesso? E tutti quegli spiriti non sono forse i suoi personaggi? Amleto, Macbeth e la sua tremenda sposa, il geloso Otello, e poi Cordelia e l’infelice Ofelia. Ecco le voci che sussurrano sull’isola dove siamo approdati. L’isola è la mente che partorisce i suoi mostri e i suoi spiriti.

WS Tempest non è quindi un confronto con il Bardo sul piano del testo e della rappresentazione, quanto più con la modalità di pensiero. Come Otello è parte della mente di Shakespeare così egli è dentro di noi, nel nostro quotidiano agire/patire.

WS Tempest è un’esperienza nel labirinto, un percorso alla cieca tra le stanze di questo palazzo sconosciuto in cui ci aggiriamo cercando un’uscita. Suoni e immagini ci appaiono, parole che appartengono alle grandi tragedie e commedie ci ricordano la fragilità e l’evanescenza di una vita che è sogno e fatta di sogni. Si passa senza lasciare segni duraturi, come il teatro impermanenti e volatili. Finita la rappresentazione non resta che la scena vuota e spoglia.

Molto riuscita la scena finale dove una donna nuda immersa nell’acqua come una ninfa, viene coperta di pagine bagnare che diventano vestito e maschera. Gli attori la circondano ma nell’accendersi e spegnersi della luce fioca che illumina la scena, piano piano le figure svaniscono, finché non resta che un povero mucchio di carta straccia e bagnata.

Meno riuscita la scena in cui un tribuno su un palco munito di megafono affronta temi di politica teatrale che andrebbero invece indagati con più profondità piuttosto che lanciati sulla folla come sampietrini. Quale il ruolo dello spettatore? E la ricerca non si è allontanata da lui? Non protegge una torre d’avorio incomprensibile? E lo spettatore cosa vuole? Divertirsi e non pensare? Dormire? Forse sognare?

WS Tempest è spettacolo che, come consuetudine del Teatro del Lemming, propone una relazione con lo spettatore molto diretta, quasi aggressiva. Fin dagli ormai lontani anni ’90 quando vidi un loro lavoro per la prima volta (era Edipo), fui colto da un certo disagio per questo confronto pugnace con gli attori. Si è quasi dei pugili impegnati in una lotta. Il mio disagio è comune a tutti quelli che assistono ai loro lavori e non può essere altrimenti. Vi è sempre qualcosa di illecito quando l’attore ti tocca, perché in quel momento non è uomo, è posseduto da forze altre e misteriose, è privo di identità nota perché in lui appaiono anche spettri di un altrove. L’attore quando fa il suo mestiere come si deve è prima di tutto sciamano.

Essere nella zona di azione degli attori, è essere clandestini in una terra pericolosa di cui non si conoscono usi e costumi. Il pubblico è materiale di scena, attore inconsapevole, parte di un gioco di cui non comprende pienamente le regole, e per quanto più attivo che quando semplicemente seduto al suo posto, resta passivo e inerme.

Certo queste cose sulle modalità del Lemming sono già state dette e quindi queste mie parole non aggiungono né tolgono niente, eppure nonostante ormai si sappia quale sia la modalità e quindi la si accetti di buon grado e non sia più una sorpresa, il disagio resta e mi obbliga a ripormi il problema come nel lontano passato. E penso anche che laddove WS Tempest funziona di più è proprio quando abbandona quella modalità aggressiva, e torna a essere immagine distante che appare come un miraggio, più che presenza fisica che contatta e contagia lo spettatore.

WS Tempest è un’esperienza teatrale complessa e impegnativa, che non lascia indifferenti e colpisce per la forza delle sue immagini. Una modalità altra di partecipare a un evento scenico nonostante tutte le perplessità che propone.