Valentino Mannias

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A VALENTINO MANNIAS

Per la trentaduesima intervista de Lo stato delle cose andiamo in Sardegna per incontrare Valentino Mannias. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Valentino Mannias si è formato alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. Nel 2015 ha vinto il Premio Hystrio come migliore attore. Nel 2018 è stato selezionato per l’Ecole des Maitres (a guida Thiago Rodrigues). Collabora con Sardegna Teatro che sta producendo la sua Orestea.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità della creazione scenica, come per altre creazioni, credo consista nel suo compiersi esclusivamente in presenza di un pubblico che ne modifica l’essenza.

Ad oggi per me la sua possibilità di essere efficace si misura proporzionalmente alla necessità che riunisce un gruppo di persone, alimentata dallo studio dedicato alle creazioni di altri artisti e al pensiero umano nel corso della storia. Studiando quasi sempre ci si rende conto che non c’è nulla di veramente nuovo se non il proprio stupore e amore per il sapere. Prendendo spunto dal pensiero dell’artista e filosofo Gino De Dominicis, possiamo osservare che veniamo al mondo dopo chissà quanti secoli di storia del teatro, risultando di fatto molto più vecchi di un drammaturgo del VI secolo a.c, nel quale poter scorgere la ricchezza di un incontro politico, spirituale e agonistico ad oggi parzialmente perduto. Pertanto, benché sia stato piacevolmente colpito dall’inserimento del mio lavoro all’interno della “giovane ricerca italiana”, devo ammettere di trovare lo stimolo per creare non tanto nella ricerca di nuove espressioni sceniche quanto nella consapevolezza di quelle già esistenti senza pormi l’obiettivo di rinnovarle. Per scrivere i primi testi teatrali ho ascoltato i racconti dei miei parenti, finché loro sono scomparsi fisicamente e mi sono rimaste le loro storie. In fondo sto facendo la stessa cosa adesso con l’Orestea di Eschilo, in quanto trovo il nostro rapporto col sacro, contenuto anche in alcuni classici, più vivo e necessario di qualsiasi volontà di rinnovamento, offrendo all’arte scenica la possibilità di farci cogliere misteriosamente un senso unitario del nostro essere nella vita e nella morte, di cui la società del nostro tempo non sa parlare se non come esperienze separate.

Valentino Mannias

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Ci sono molti più strumenti ma con molte meno risorse. Questo non provoca solo danni economici al mondo del Teatro ma alla sua stessa natura, creando però le condizioni storicamente ideali per elaborare una nuova gestione delle economie rivalutando un modo antico di intendere la società artistica e teatrale.

E’ evidente per tutti che lo Stato, oltre a quello che già fa, dovrebbe tornare a far Teatro, godendo del suo potenziale umano, politico ed economico. D’altra parte a fronte degli ultimi 70 anni della nostra storia e dopo l’odierna crisi mondiale, è possibile che maturi nella nostra civiltà il desiderio di un confronto tangibile con sé stessa, con la propria vita politica e delle proprie comunità religiose, riconoscendo una certa mancata eticità nella totale sostituzione del virtuale all’essere, e riscoprendo almeno per un tempo limitato la ricchezza di un confronto fisico con la realtà.

Proviamo allora a immaginare insieme un Teatro e una Danza che possano essere utili quel giorno, beneficiando del loro potenziale anacronismo rispetto alla società teatrale odierna. Il MiBACT e il Miur potrebbero nominare ogni anno un certo numero di registi teatrali, cinematografici e coreografi, tra under 35 e non, e invitarli a esprimersi attorno a dei temi di attualità senza limiti di genere e durata offrendo al pubblico la possibilità di partecipare a un evento che offra delle prospettive differenti sui temi e prodotto per l’occasione in grandi spazi delle diverse città a cielo aperto. Ogni opera, laddove fosse previsto il linguaggio verbale, dovrebbe prevedere necessariamente la fruizione in diverse lingue, favorendo così un impatto ad alto flusso turistico atto anche a sostenere i costi. Dando vita a un’olimpiade dell’Arte Scenica Italiana il nostro Paese avrebbe così la possibilità di valorizzare finalmente la propria tradizione artistica agli occhi del mondo e i cittadini avrebbero di nuovo uno spazio ad oggi inesistente dove ragionare dal vivo sul presente della propria vita politica e spirituale attraverso l’arte drammatica, oltre che a beneficiare per gli anni a venire di un prestigioso e innovativo contesto di formazione. La grande rete di “fondazioni bancarie, festival, istituzioni” esprimerebbe così il suo effettivo potenziale convogliando tutte le energie verso un unico grande avvenimento: il Teatro.

Vedendo le cose da una prospettiva realistica possiamo invece notare sistematicamente che ci sarebbe la necessità di più fondi per il teatro, che si potrebbero distribuire con più equilibrio quelli già stanziati nel FUS, che andrebbe sostenuta l’intermittenza del lavoro di un’artista invece di chiedergli di produrre ciò che il mercato non potrà comprare, che l’internazionalizzazione del nostro sistema produttivo e distributivo vede lontana la luce della propria nascita e del proprio sviluppo senza un investimento nella formazione delle adeguate figure professionali, o ancora, che bisognerebbe sperimentare nuove forme di produzione seguendo in altri modi gli artisti, privilegiando il rapporto di una compagnia con una comunità di riferimento e attivando dei percorsi paralleli piuttosto che badare semplicisticamente alla compravendita di uno spettacolo che, come sappiamo, non basta mai a coprire le paghe e le spese di una compagnia. Personalmente sono grato a Sardegna Teatro e a Massimo Mancini per aver potuto realizzare gran parte di quello che ho scritto sopra. Ma se parliamo di migliorare la produzione di Danza e Teatro in Italia dobbiamo riunire interessi pubblici e privati in un’unica visione che riscopra la potenzialità stessa del teatro in un’economia dinamica e sostenibile nell’interesse di tutti. Se si guarda invece al denaro premiando progettazioni con una logica a ribasso, ad ù affondare saranno le idee e con esse, a seguire, l’economia. Finché un grande sogno non genererà un business capace di abbracciare realtà diverse, e di sostenere anche l’economia di quelle autonome che non ne vogliono far parte, per ognuno di noi risulterà innaturale fare un mestiere che non è nato come intrattenimento, ma per essere il cuore pulsante della società civile, l’organo principale che deve battere a prescindere per tenere in vita l’esperienza democratica della collettività, nel bene e nel male.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Ricordando alcuni esempi virtuosi del nostro recente passato credo che in questo momento gli artisti e gli organizzatori teatrali, lavorando insieme, abbiano l’opportunità di pensare nuovamente al senso stesso della distribuzione di un prodotto innescando un sano dialogo tra diversi contesti. A fronte di questo stimolo trovo per esempio che le compagnie, disponendo possibilmente delle figure professionali di riferimento, non debbano più concentrarsi esclusivamente nella vendita del proprio spettacolo in quanto tale, ma ancorarsi sopratutto al perché sarebbe importante distribuirlo in un determinato territorio, studiandone le specificità sociali ed economiche e mettendo in relazione con esse la propria arte come moderne compagnie di giro che fanno tesoro della propria tradizione artistica. L’idea della lunga tournée per come la intendiamo ora è recente e in generale porta con sé una gestione dispersiva delle economie, difficilmente sostenibile. Nel settore gli artisti tendono spesso a considerarla erroneamente solo come una tradizione ideale, un’esperienza preziosa per far maturare il proprio lavoro nel tempo e questo è vero, potrei confermarlo in prima persona. Ma è al contempo importante saper cogliere la possibilità odierna di non mostrare la stessa creazione scenica in due regioni che hanno una storia differente, partendo comunque da una motrice comune. Il processo della creazione acquisirebbe maggiore importanza rispetto alla rappresentazione di per sé, amplificando l’idea di mercato e favorendo un’offerta diversificata al pubblico. In particolare la possibile presenza di quest’ultimo durante il concepimento dell’opera potrebbe offrire anche un’esperienza più interessante rispetto a quella di una creazione scenica agita nelle prove senza l’attore-pubblico per poi “essere mostrata” adesso in occasione di un ipotetico punto d’arrivo.

Un ulteriore aspetto da considerare maggiormente rispetto al secolo scorso è il concepimento di un’opera pensata per un uditorio che non sia solo italiano con la traduzione diretta o indiretta in lingue diverse a partire dal primo giorno di lavoro. Questo riguarda anche le accademie di formazione che non possono più pensare a un’espressione artistica che non prenda in considerazione una dimensione internazionale e la valorizzazione delle diverse lingue e dialetti che convivono linguisticamente nel nostro Paese. Non farlo significa accettare la prossima eredità di queste problematiche nel mercato e rafforzare muri invisibili tra diverse culture. Chiaramente l’elenco delle questioni non si esaurirebbe qui approfondendo comunque

questa linea di pensiero.

In sintesi quello che a cui assistiamo oggi è un modo di fare le cose, già ampiamente

collaudato e che ha dimostrato una relativa efficacia. Ma è evidente che in futuro il criterio che decreterà la fine o la sopravvivenza dei teatri consisterà nella loro attitudine a diventare dei luoghi abitati non tanto dal maggior numero di persone quanto da realtà sempre diverse. Gli artisti che vogliano evitare il solito servilismo alla logica della visibilità televisiva per riempire le sale, dovranno cercare un seguito nelle comunità di riferimento condividendo con esse un’indagine sui temi che le riguardano, prendendo seriamente un’altra strada, diversa e insostituibile. Pensare alla distribuzione in maniera diversa però non riguarda solo degli interventi da attuare “dall’alto” come l’olio su una catena arrugginita, ma cambiare anche nel nostro piccolo alcuni aspetti del modo sclerotico in cui ci siamo abituati a vivere il teatro.

Bisogna cogliere l’opportunità di non ridurre la vita dell’arte teatrale a un qualcosa che “mi è piaciuto o non mi è piaciuto”, che “funziona o non funziona” per un un pubblico che “andrebbe educato” e al quale si chiede solo di “spegnere i telefoni cellulari” e di “stare in silenzio”, un silenzio di lutto per la morte stessa del Teatro che ancora vanta la triste reputazione di essere un luogo per pochi che se lo possono permettere. Probabilmente, insieme alle rappresentazioni, i teatri tornerebbero ad essere invece dei luoghi di interesse per il pubblico, sostenibili per lo Stato, unici e liberati dalla forma mentis per la quale lo “spettacolo” ha vinto in Occidente, ma non l’arte teatrale.

Questa è un’arte sottopagata e svilita, dagli autori drammatici agli attori, perché finché non si farà chiarezza sul perché produrla sprigionando la sua vera luce, sarà di

conseguenza sempre più oscura la ragione per cui la si debba distribuire.

Valentino Mannias

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Mi viene in mente la famosa scena di “2001 Odissea nello spazio” della scimmia che giocherella con l’osso di un tapiro morto finché scopre che ciò che ha in mano può diventare un un’arma per uccidere; e quella di pochi minuti dopo in cui a seguito dell’uccisione di un altro capobanda lancia la clava in aria e questa, roteando nei secoli, diventa una navicella spaziale. Credo che sulle nuove tecnologie in teatro siamo ancora nella fase dei palleggi sperimentali, forse perché non manteniamo abbastanza a fuoco il fine.

A mio parere la creazione scenica nel contesto computerizzato potrebbe avere la chance di utilizzare gli strumenti a disposizione per puntare allo stesso obiettivo teatrale di sempre, a meno che non abbia l’ambizione di inventare una nuova forma d’arte. In altre parole trovo che si possa verificare l’utilità di uno strumento in base a ciò che si intende comunicare con una determinata opera, perché in caso contrario potrebbe impercettibilmente diventare un’arma per ucciderla.

Credo che su questo tema abbiamo recentemente assistito a un esempio storico che voglio prendere come riferimento, la benedizione “urbi et orbi” fatta da Papa Francesco il 27/03/2020. Chiunque, laici, credenti di diverse religioni, agnostici, guardando quel video può percepire il senso di ciò che sta dicendo il Papa in rapporto

al proprio dolore, e le sue parole, le voci che cantavano l’inno eucaristico “Adoro te devote” scritto da Tommaso d’Aquino nel 1264, non perdono la loro potenza espressiva con la fruizione digitale, perché cercano di rispondere profondamente all’immenso vuoto della nostra condizione mortale.

Il procedimento opposto, ovvero partire da una semplice suggestione, ad esempio una generica voglia di utilizzare delle proiezioni, di giocherellare con uno scheletro senza un fine preciso, messo al vaglio del tempo e del confronto con gli altri, può egualmente condurre a una ragione concreta, ma nella mia condizione di quadrumane

teatrale ho sperimentato essere ad oggi una via più lunga, col rischio di compiacersi fin troppo del dubbio sul fine ultimo della nostra arte. Ad ogni ominide il suo randello.

D’altra parte in termini più generici il teatro potrebbe invece avere un approccio conservatore con questa ubriacatura dell’infanzia delle nuove tecnologie continuando

a focalizzarsi sull’incontro della polis, sua eterna essenza. Il mercato non ne sarebbe contento ma in fondo non ne patirebbe neanche perdite così ingenti. Il punto è che sono strumenti e come tali vanno usati se e quando servono.

A questo proposito una volta Pasolini si chiese ironicamente se, per soddisfare la coerenza pretesagli da un giornalista, fosse il caso di fare film per raccontare il suo pensiero critico nei confronti del capitalismo, o di suicidarsi per la dolorosa presa di coscienza che quegli stessi film si servivano della logica capitalistica per essere realizzati. Decise comunque di girare i suoi film e poi sappiamo come andò a finire. Il poeta non rinunciò alla ferma convinzione che la sua arte in questo caso cinematografica, pur servendosi dei mezzi che gli son più propri, dovesse indicare una via di giustizia. Quale sia questa via chiama tutti noi a uno sforzo etico ben maggiore rispetto a decidere se usare o meno delle proiezioni in una scena, ma può illuminare anche questo aspetto facendo chiarezza sul proprio vivere quotidiano. Personalmente trovo l’essenzialità una chiave interessante per la scena e per la vita lasciando all’immaginazione le elaborazioni di senso e di forma di cui per sua natura

è capace.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il dolore e la morte sono reali, l’arte deve rievocarli per ritemprare la vita attraverso una metafora. Quello che viviamo in questi giorni purtroppo o per fortuna può aiutarci a fare il punto su questo tema: il lutto e la sofferenza sono il primo metro affidabile per conoscere il reale. Ma questa realtà sarà oggetto di manipolazioni dei media che ne parleranno in temi bellici, a mio avviso impropri o in termini scientifici, preferibili, cambiando in parte la nostra percezione del problema. Addirittura sarà la mente stessa, come sappiamo, a cambiare subito le carte in tavola, elaborando ciò che stiamo vivendo finché ognuno di noi racconterà di aver vissuto una cosa diversa dagli altri. A questo punto si rivela centrale il ruolo assunto dall’arte che con un atto di volontà creativo, e manipolando comunque la realtà nel perpetrare il suo essere, può aiutarci a ristabilire un contatto con quel dolore per compiere una scelta sulla nostra vita. In questo senso pratico riscopriamo l’utilità concreta di alcuni riti dai quali trae fondamento la nostra arte. Tuttavia, com’è noto, in un luogo deputato alla rappresentazione scenica vi sono delle realtà che precedono ogni creazione artistica e influiscono su di essa: l’ecosostenibilità della struttura, la legislazione dello spettacolo che tuteli i diritti e i doveri dei lavoratori, la lingua parlata in quella determinata città per cui il testo necessita di una traduzione, i finanziamenti adeguati senza i quali la troupe di Friedrich Munro rischia di fermare i lavori a metà riprese etc… Si tratta sempre di danzare e cantare affinché il cielo pianga sulla terra ma in linea di massima il teatro italiano è irreale in relazione a questi temi.

Detto questo, chi parla di circostanze reali senza occuparsi di creare una metafora scenica per raccontarle, a mio parere non consente un incontro col reale a chi partecipa poiché non crea la distanza necessaria per consentirgli di richiamare alla

mente il suo dolore. Chi invece non parla di circostanze reali concentrandosi esclusivamente nella costruzione di una bella forma, non consente un incontro col reale in egual modo perché offre la metafora di un nulla di fatto. Personalmente credo

che valga sempre la pena vivere in teatro un confronto col reale attraverso una metafora che rievochi le ferite da cui siamo nati, che ci caratterizzano e dalle quali poi guardiamo il mondo.

Cristina Kristal Rizzo

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CRISTINA KRISTAL RIZZO

Per la trentunesima intervista incontriamo la coreografa, autrice, danzatrice Cristina Kristal Rizzo, une delle personalità più poliedriche della nostra danza. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Cristina Kristal Rizzo dagli ’90 è protagonista della danza contemporanea italiana. I suoi lavori sono stati apprezzati nei più prestigiosi contesti italiani e internazionali. Tra i suoi molti lavori voglio ricordare solo i suoi due ultimi visti dal vivo: VN Serenade e ULTRAS Sleeping dances_solo

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Sabato 11 aprile 2020, oggi é il trentacinquesimo giorno di ‘ distanziamento sociale ‘ in cui ci troviamo e dunque questa intervista, queste domande, risuonano tra un prima e un dopo, mi permettono forse di generare un luogo di pensiero molto più in bilico e di aprire prospettive.

La creazione scenica ha soprattutto bisogno di essere liberata, di essere svincolata dalla produzione di prodotti per il mercato culturale, per entrare in contatto con il reale e davvero espandersi verso l’altro – il mio vicino di casa che in questi giorni sto cominciando a riconoscere – deve poter essere libera di inventarsi come vuole, di crearsi nella gioia e non nell’algoritmo del potere. Paradossalmente proprio adesso che non abbiamo più niente, nel senso che non dobbiamo preoccuparci d occuparci di organizzare, promuovere, progettare, sopravvivere ecc. ecc. proprio adesso che non c’è tutta quella parte del lavoro che ormai era diventata la condizione principale del nostro fare, siamo nuovamente liberi di usare l’immaginazione e il desiderio creativo, quello più intuitivo, quel bisogno semplice e diretto che non ha bisogno di capitalizzare per esistere. Questa gioia non si vende ma anche non si svende. Intendo dire che questa risorsa umana perché affettiva, toccante, etica ci appartiene, é un bene comune che ha bisogno di cura e di intelligenza collettiva per essere efficace. Oggi ci dobbiamo occupare di trovare una potenza per agire sulla realtà, dismettere il virus del narcisismo generato dal precariato e dalla produzione permanente, sintonizzarci sulla lacerazione del corpo, tirare il fiato, pensare, discutere, scrivere, perché la catastrofe è un’occasione formidabile per far emergere altri stati percettivi del tempo e ritrovarsi da un’altra parte tutti insieme.

Settembre 2019 Museo del 900, Firenze Dance Cristina Kristal Rizzo e Giuseppe Vincent Giampino

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Lunedì 13 aprile, é mattino, sempre in isolamento, il presente sembra essere divenuto ingombrante ed anche queste domande appartengono ad un’idea di evoluzione che non riconosco più. Sto smantellando il più possibile l’impulso di dover essere efficiente e impegnata per non avere sensi di colpa, cosa che in verità già avevo cominciato a fare prima di questo lock down nel tentativo di sganciarmi dai mortiferi incatenamenti di questi ultimi anni. Percepisco sempre uno scollamento, come se i miei problemi o di chi come me ha già un’esperienza ed un percorso molto lungo alle spalle, siano di intensità diversa o di contingenza diversa, ma in verità é tutto connesso. Forse la mia presenza nel panorama danza italiano potrebbe essere presa come paradigma di tante cose che non sono funzionate come dovevano, come se avessi accumulato tanti errori, il mancato riconoscimento di un percorso che si é tracciato come un corpo di esperienza e malgrado la mia singolare storia potrebbe essere considerata solo un’eccezione, sicuramente in tutto questo c’è un dato simbolico e politico che non va sottovalutato. Prima mi interrogavo quotidianamente sulla mia responsabilità nel continuare a sostenere il sistema produttivo e fare parte di una comunità comandata a nutrire competizione, isolamento, mercato. Adesso che ci siamo fermati , crollati direi senza margini, ho finalmente capito che la mia intuizione di abbandonare quel mare torbido in cui ero immersa, non è solo un lamento solitario di stanchezza e di perdita di desiderio, ma è un disagio che può generare altro. Ci sono molte cose che dovremmo tutti dismettere. Non credo a nessuno che mi dice che poi riprenderemo come prima e neanche a chi mi parla di Audience Engagement come risorsa e rilancio, quando invece è una solidarietà radicale ciò di cui abbiamo bisogno per evolverci da questo scacco matto, da questo impasse del tocco.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

E’ pomeriggio adesso, sto ascoltando su mixcloud DANCE INSIDE FRANKO B BLACK FIRST LIVE STREAMS IN CORONA TIMES, un amico, mi ha scritto un messaggio su WhatsApp inviandomi il link, condividendo il desiderio di fare al più presto un rave in spazi pubblici in pieno giorno. Rispondere a queste domande in questo momento mi sembra una tortura, una finzione, un errore, qualcosa nel paradigma del linguaggio che non funziona più.

Siamo delle entità fragili, forse tutto questo è anche una buona lezione per de programmare l’ego della specie, il cambiamento è evoluzione e solitamente l’evoluzione comincia in una rivelazione spirituale, attraverso la creazione e in tutte le forme di arte.

Lei disse: Usciremo da tutto questo? E dove andremo?

Lui disse: Non siamo mai stati fuori da tutto questo.

E’ in gioco la scomparsa dei corpi in quella che chiamano Shut In Economy, a questo punto non ci resta che tentare di salvarlo il corpo, toglierlo di mezzo almeno per il momento, solo un tatto interno ci proteggerà dall’aridità programmata bi-dimensionale in cui vogliono farci sprofondare. Sono passati diversi giorni ma i segnali che sono arrivati appaiono completamente scollegati con la realtà che gli artisti stanno vivendo, dicono che tutto ripartirà ma sono quasi esclusivamente gli operatori che prendono parola sul come. Il sistema non funzionava prima e non funzionerà dopo se continueremo a considerare ciò che facciamo come un prodotto quantificabile nel mercato estrattivo della produzione permanente ! Ciò che è in gioco nella presenza sono le intensità e queste sono sempre difficili a trasmettersi e a farsi apparizione, ma sono il raggiare di qualcosa che eccede il dato, il disponibile, il commensurabile, sono la materia che si fa vibrante. Perché dunque un corpo, tutti i corpi, per sempre i corpi? Perché solo un corpo può essere accarezzato e sollevato, solo un corpo può toccare, può essere toccato e può anche non toccare.

Settembre 2019 Museo del 900, Firenze Dance Marta Bello e Angela Burico

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

I giorni passano veloci stranamente, oggi è il 17 aprile le giornate sono lunghe e con cieli aperti e azzurri, esco e vedo molte persone, siamo tutti stanchi di stare a casa, siamo tutti annoiati di non capire cosa sta accadendo, cosa accadrà nella fase 2, sono felice di percepire questa non resilienza, l’urgenza dei corpi che spinge spinge spinge, ci allontana dalla paura.

Mi ripeto da giorni che il 900 é finito, finisce qui, così. Da un paio di giorni gira la voce non ufficiale che i teatri non potranno riaprire prima di dicembre, questo mi crea un’ansia feroce, sto nuovamente immersa in pensieri orrendi di precariato e competizione, come sempre non sento chiarezza intorno a me, gli operatori si sono silenziati o immaginano affollamenti di performances e spettacoli, nessuno che abbia avuto l’onestà intellettuale di domandarsi di che cosa avremo tutti bisogno dopo? Continuo a ripetermi che la danza non può prescindere dall’evento dal vivo, la danza è una cosa viva. In queste settimane ho avuto il rifiuto totale di qualsiasi sollecitazione che mi è stata fatta ad intervenire in streaming con il corpo, non è proprio possibile immaginarsi una coreografia a distanza, ma neanche la lezione di danza davanti ad un computer è davvero possibile, molti lo stanno facendo, lo prendo come un segnale positivo di apertura e necessità di rimanere connessi al mondo, ma non sopporto le dinamiche di sfruttamento o auto sfruttamento che si stanno applicando sempre uguali, malgrado il dispositivo sia completamente diverso e non sopporto che si tratti la danza come una qualsiasi lezione di yoga. Ma invece di auto affondarci nella rete e scomparire nel nulla unificato possiamo provare a reinventare l’architettura dei nostri futuri incontri ? Possiamo provare a praticare un’altra qualità del tempo per incontrare l’opera ?

Non ricordo più esattamente quando ma l’affermazione più potente mi é arrivata da un intervento di Paul B. Preciado su EL PAIS, che conclude un lungo e intenso scritto sulla dematerializzazione del desiderio domandandosi e domandandoci a quale condizioni e in quale modo la vita sarà ancora degna di essere vissuta dopo la grande mutazione del Covid-19, ecco ci invita a generare una forza comune ed esprimere il dissenso: Utilizziamo il tempo e la forza dell’isolamento per studiare le tradizioni della lotta e della resistenza minoritaria che ci hanno aiutato a sopravvivere sino a qui. Spegniamo i telefoni cellulari, disconnettiamoci da Internet. Facciamo un gran blackout in faccia ai satelliti che ci vigilano e immaginiamoci insieme la rivoluzione che viene.

Ho bisogno di tornare a danzare, ho bisogno di vedere altri corpi danzare.

Cristina Kristal Rizzo
Cristina Kristal Rizzo VN Serenade @lucadalpia

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Domenica 19 aprile.

ciao Matteo, credo che il futuro sarà decisivo per un cambiamento radicale, ma dovremo lottare tutti, ognuno nel suo ambito e ambiente, lottare contro le solite forme di potere che sinceramente non sono più possibili. Ma soprattutto proteggere ciò che facciamo, le nuove generazioni si sono svegliate ma non comprendono che l’arte non è un prodotto che si compra come qualsiasi altra cosa al supermercato, adesso hanno bisogno di rivendicare i diritti del lavoro e dei lavoratori, e fanno bene, ma il linguaggio che stanno usando é terrificante perché ci rende tutti uguali e tutti potenzialmente nemici. Penso che dobbiamo smettere di produrre per esempio, c’è un repertorio tutto italiano, di spettacoli che hanno girato pochissimo che é una risorsa da sostenere e mettere in risalto…a me interessa la creatività libera, mi interessa la qualità alta, un linguaggio raffinato per tutti…molti scompariranno, è inevitabile, ma anche c’è troppa individualità che spinge persone a fare ciò che forse non vorrebbero neanche veramente fare e come sappiamo bene un sistema basato solo sull’estrazione di risorse umane che ha spianato tutto, che da tempo ormai gestiva le risorse ripetendosi il ritornello che era meglio avere molti prodotti mediocri a costi bassi, piuttosto che il rischio creativo e l’investimento a lunga durata. Credo che dobbiamo immaginare contesti nuovamente sobri, quasi nascosti, lenti, dove proteggere l’innocenza creativa e poi battersi per un’intelligenza collettiva, smarginare tutti insieme, credo sia proprio ilmomento.

Ieri sera ho scritto di getto questo messaggio ad un amico coreografo che mi chiedeva parole sul futuro, ma in verità credo che é del presente che dobbiamo occuparci ! Oggi é uscita la notizia che il Ministro Franceschini vorrebbe creare una sorta di NETFLIX della cultura Italiana, questo significa la resa definitiva di qualsiasi idea di spazio pubblico, fine.

Da giorni sto scrivendo un allenamento teorico per il corpo, é da ripetersi come una liturgia, un’orazione, un’invocazione, un’imprecazione:

TOCCARE

considerare la magia proibita sul bordo delle cose

continuamente fare corpo

TOCCARE

dare sensibilità alla complessità trans individuale

continuamente fare corpo

TOCCARE

far accadere un’azione trasformante al di là dell’interesse personale

continuamente fare corpo

TOCCARE

attuare la danza della contingenza: essere fuori controllo ma necessari

continuamente fare corpo

TOCCARE

intendere la libertà non come una scelta ma come un’invenzione

continuamente fare corpo

TOCCARE

praticare l’intuizione come un atto politico

continuamente fare corpo

TOCCARE

praticare un’ intensità non edenica

continuamente fare corpo

TOCCARE

generare il luogo dove il senso fa senso

continuamente fare corpo

TOCCARE

reclamare il futuro del potenziale collettivo

continuamente fare corpo

TOCCARE

allenare la pratica che diventa percezione

continuamente fare corpo

TOCCARE

fare pensare sentire

FARE CORPO CONTINUAMENTE

P.S Lunedì 20 aprile, mattina, mi è appena arrivato questo messaggio:Spostamenti limitati per

chi non scarica Immuni. L’ipotesi del governo per incentivare l’uso della app (Huffpost ).

Ma come abbiamo potuto accettare tutto questo?

Caroline Baglioni

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CAROLINE BAGLIONI E MICHELANGELO BELLANI

Per la trentesima intervista per Lo stato delle cose incontriamo due giovani autori Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani sono autori e drammaturghi, interpreti e registi. Di loro ricordiamo la Trilogia dei legami conGianni, Mio padre non era ancora nato e Sempreverde.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Caroline Baglioni: La grandezza di un’opera è direttamente proporzionale al numero di persone che riesce a coinvolgere intimamente, il rapporto unico che si crea tra chi sta sopra il palcoscenico e chi sta lì a guardarlo è la forma più assoluta di fiducia che ci può essere tra persone. Quando qualcuno si siede in platea e decide di stare ad ascoltare uno sconosciuto e la sua storia, inevitabilmente mi chiedo cosa stia cercando e cosa cerco io che sto lì sopra. Ecco, credo che tutti in teatro ogni sera cerchiamo qualcosa, qualcosa che si avvicini più possibile al prenderci per mano e fare un viaggio insieme per scoprire nuovi mondi, punti di vista, traiettorie possibili. E per far sì che questo possa accadere e diventare uno scambio alla pari sono imprescindibili almeno tre cose: l’ascolto reciproco privo di giudizio, la condivisione intima di un mondo, il desiderio di lasciarsi rapire senza gridare Aiuto!

Michelangelo Bellani: La creazione scenica potrebbe fare a meno di tutto, ad eccezione della ‘relazione’. Tento di spiegarmi. L’arte teatrale è un forma di creazione spuria. Essa ricorre sovente a numerosi elementi creativi: parola, azione fisica, musica, immagini, etc. E questo sembrerebbe compromettere la possibilità di rintracciarne un’essenza. Tuttavia, tutti questi elementi, concorrono alla dimensione dello ‘spettacolo’. Il Teatro invece si basa sulla relazione. La relazione di almeno due esseri viventi che si pongono uno di fronte all’altro in un tempo presente. Da questo punto di vista non si tratterebbe tanto di identificare un luogo deputato o un particolare stile di azioni, ma appunto di appurare l’esistenza di questa relazione. È l’azione che muove verso questa relazione profonda di significanza, il porsi dinnanzi a guardare/mostrarsi, (vedersi vedenti) a fare Teatro, come la stessa etimologia della parola testimonia. Certo, questa relazione potrebbe valere anche al cospetto di un tramonto, o di un cielo stellato sopra di me, ma in quel caso parleremmo della meraviglia del pensiero, la meraviglia di fronte al mistero dell’universo a cui gli antichi greci legavano la nascita della filosofia. Mentre quando gli uomini si pongono gli uni di fronte agli altri per comprendere il dolore, la nascita, la morte, il sogno e la realtà, lì accade il Teatro.

GIANNI ispirato alla voce di Gianni Pampanini di e con Caroline Baglioni regia Michelangelo Bellani supervisione alla regia c.l.Grugher luci Gianni Staropoli suono Valerio Di Loreto assistente alla regia Nicol Martini organizzazione produzione Mariella Nanni produzione La società dello spettacolo

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Caroline Baglioni/Michelangelo Bellani:

Il discorso è complesso da fare e meriterebbe un ampio confronto. Indubbiamente le possibilità si sono moltiplicate a livello strettamente quantitativo, ma se della creazione artistica ci interessa anche e soprattutto l’aspetto qualitativo, la situazione non è altrettanto entusiasmante. La stessa idea di bando, come strumento egemone per il finanziamento, sembra mostrare non poche criticità. Se da un lato il bando è uno strumento volto a incrementare accessibilità e trasparenza nella gestione delle risorse; dall’altro rischia di compromettere il libero accadimento della creazione e, fatto ben più grave, rinuncia alla responsabilità di una direzione artistica/produttiva intesa come fondamentale relazione sinergica fra ente produttore e artista. La coercizione al bando, ha allevato una generazione di artisti sempre più affannati a reperire e compilare moduli, piuttosto che impegnati nello studio e nella creazione e ha abituato gli organizzatori a pescare nel mare indistinto delle proposte invece di coltivare relazioni proficue sviluppate nel tempo. Per di più la categoria più in voga dei bandi riservati ai così detti “under 35” (oramai anche under 30) rischia di generare un buco nero per tutti gli artisti che, una volta compiuto il 36esimo anno di età non trovano più referenti. Nel proliferare delle occasioni, bandi e festival, molti dei quali rappresentano una reale opportunità e sono gestiti con passione e competenza, ve ne sono purtroppo altrettanti che rappresentano dei veri e propri specchietti per le allodole. Fra bandi a premio che premiano con una replica a costo zero per chi la organizza, magari dopo aver ricevuto un finanziamento regionale per organizzare il proprio festival; teatri con finanziamento pubblico che propongono repliche a incasso senza garantire un minimo cachet; produzioni di teatri nazionali che costringono gli artisti a paghe al minimo della sopravvivenza, mentre la gran parte delle risorse pubbliche vengono destinate al mantenimento organico della struttura; è tutto, ancora troppo spesso, drammaticamente sulle spalle degli artisti, che pur di riuscire a vedere realizzate le loro creazioni si piegano a condizioni inaccettabili.

Bisognerebbe in primo luogo creare una normativa adeguata al settore che riconosca le specifiche professionalità. Riconoscere che essere artista significa anche svolgere una professione con specifiche tutele sindacali. Distinguere con adeguati strumenti giuridici le realtà professionali dal calderone delle tante attività amatoriali, e forse anche distinguere la creazione artistica di interesse pubblico, dall’impresa teatrale prettamente commerciale imperniata esclusivamente sul personaggio noto di turno.

Il concept, perlopiù squisitamente algebrico, dell’attuale normativa ministeriale, sin dalla sua entrata in vigore, ha mostrato evidentemente tutti i limiti del caso e rischia di azzerare i veri indici di salvaguardia della creazione scenica.

Ma c’è bisogno anche della passione e del cuore. Bisognerebbe anche che i ‘produttori’ tornassero a innamorarsi dell’arte degli artisti con cui scelgono di avere un rapporto e come fanno tutti gli innamorati ricominciassero a fare ‘pazzie’ per rendere avvincente un panorama teatrale (per non dire mercato) oramai tanto disciplinato e prevedibile da risultare sempre più simile a una fotocopia mal riuscita della televisione.

Caroline Baglioni – Michelangelo Bellani

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Caroline Baglioni/ Michelangelo Bellani:

La distribuzione attualmente in Italia è contingentata. Gli enti teatrali finanziati pubblicamente hanno degli indici da rispettare che di fatto disincentivano la circuitazione. Le realtà più virtuose cercano di ricavarsi dei piccoli spazi per dare ossigeno alle produzioni indipendenti più interessanti al di fuori del ‘mercato ufficiale’, ma sono gocce nel mare di chi si adegua e fa buon viso a cattivo gioco inventandosi meccanismi ancora più perversi fra scambi di date e falsi borderò, pur di mantenere gli indici di quantità necessari, a totale discapito dell’evento teatrale e della sua promozione e diffusione. Inoltre la cattiva pratica delle stagioni ‘off’ ha diffuso la fuorviante nomenclatura di un teatro di serie A (con le grandi facce nei cartelloni) e un teatrino ‘semiclandestino’ di serie B in cui insensatamente finiscono anche artisti di valore assoluto con trent’anni di carriera alle spalle. La domanda è: chi difende questo valore? Perdurando in questa separazione potrà mai avvenire il passaggio dall’off all’on? La critica, ormai deportata (come del resto tutta la comunicazione della comunità teatrale) nei social network, non ha più nessuna voce in capitolo per contribuire alla costruzione di un valore artistico. Come i politici con i sondaggi elettorali, i gestori delle risorse spesso si nascondono dietro l’idea che il ‘pubblico’ – nel generico indistinto in cui è proiettato – “vuole questo”; e così non propongono uno stato dell’arte, ma semplicemente lo subiscono. Di fatto avviene qualcosa di molto simile a una censura preventiva. Artisti che non trovano nessuno spazio di confronto con il pubblico, magari se adeguatamente promossi, avrebbero la possibilità di attirare una fascia di persone che attualmente viene scarsamente presa in considerazione. L’innovazione e la distribuzione culturale è anche un fatto di coraggio e di anima, se ci arrocchiamo nelle nostre ormai così poco stabili posizioni acquisite non andremo troppo lontano.

Nel 2016 abbiamo vinto il Premio InBox, uno dei pochissimi che attraverso una rete mette in palio il vero ossigeno per gli artisti teatrali cioè le repliche. L’anno precedente il Premio Scenario Ustica, e poi altri bellissimi riconoscimenti. Ma si riparte sempre da zero. Non c’è continuità perché quasi nessuno investe in un progetto artistico pluriennale. Occorrerebbe moltiplicare la possibilità e gli incentivi alla circuitazione retribuita con cachet equi; non sprecare risorse in teatri o festival che non garantiscono condizioni dignitose; riorganizzare il sistema della gestione dei finanziamenti pubblici in modo tale che, contrariamente a quanto avviene, il costo di mantenimento delle strutture e del personale non artistico, non superi la quota destinata alla creazione e diffusione delle opere. Ma è necessario più di ogni altra cosa il fattore umano, senza il quale nessuna riforma strutturale potrebbe produrre risultati. Credere nelle persone. Nell’arte. Al bisogno interiore e collettivo di respirare bellezza, che seppur non può salvare il mondo è da sempre la spinta di chi il mondo lo salva davvero.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Caroline Baglioni: Siamo da poco entranti nella quarta settimana di quarantena nazionale, eventi live online di ogni genere, (letture, poesie, video integrali di spettacoli, conferenze, etc) hanno iniziato ad affollare le nostre bacheche e le nostre mail. Se all’inizio l’ho trovato il modo più efficace e diretto per sostenere il teatro e il nostro lavoro, già dopo pochi giorni mi sono resa conto di quanto questo genere di virtualità tradisca la natura specifica del teatro veramente live, (vivo, immediato, vibrante per respiro o colpo di tosse) che non può bucare lo schermo, né avvicinarsi minimamente a poter essere un’esperienza. La specificità del teatro è proprio la relazione, come abbiamo già sottolineato più volte, e tradurlo per immagini lontane, sfocate o nitide che siano, non può rendere giustizia a nessuna caratteristica che definisce l’esperienza dal vivo. Il video, già solo per la possibilità che apre ad essere visto e rivisto, stoppato, ‘pausato’, filtrato, non può sorreggere la potenza del qui e ora, anzi, appiattisce e allontana lo spettatore che cerca l’immediatezza e la vicinanza. Non a caso alcuni lavori che ci paiono strepitosi in video a volte dal vivo ci deludono e viceversa. Il teatro non ammette mediazione, né virtuale, né umana.

Michelangelo Bellani: Il teatro non è un luogo (tòpos) del tempo. È un luogo della coscienza. Coscienza di un gesto. Di una parola. Di una scelta. Di un’azione. È dunque molto difficile proiettarlo, ‘spammarlo’ nella totalità digitale e iper-connessa dominata dal ‘tempo reale’. In teatro non esiste una durata nel senso Bergsoniano del termine, poiché non vi è alcuna preoccupazione feticistica di conservazione o archiviazione. È un’arte deperibile che contravviene alla vocazione dell’estetica tradizionale. Infatti, il fine dell’estetica artistica – sia che si tratti della ‘fissazione’ dell’impressione del sentimento, sia che si tratti di un’espressione concettuale – mantiene una sottile quanto imprescindibile tensione all’eternità, per la quale il grado di riuscita estetica è commisurato a una bellezza universale cui risulta indispensabile durare nel tempo. L’estetica di una situazione teatrale, al contrario, si distingue per la rinuncia a voler realizzare un’opera durevole e per il suo essere-per-la-fuga del tempo in quanto espressione concreta di un vissuto. Il teatro è un’esperienza che si compone della stessa ‘stoffa’ dell’esistenza e dunque, come è naturale che sia, è mortale. Vivere qualcosa di unico e irripetibile e viverlo sulla propria pelle. Non è da sempre questo il desiderio più o meno velato di chi partecipa a un’esperienza? Far accadere qualcosa di nuovo e imprevisto nel corso di ogni replica, non è forse il segreto del vero talento dell’attore? Da questo punto di vista, una continua reperibilità e accessibilità non può che svilire l’esperienza teatrale. Può valere come strumento promozionale, caso di studio, ma in nessun caso come surrogato dell’esperienza. Il teatro non è tempo reale è presenza. Per me, fare teatro significa soprattutto riflettere la contemporaneità. L’apertura dell’arte teatrale, proprio per la sua natura di evento immediato e deperibile, lontano dal real-time della comunicazione di massa, riceve e produce valore in una società come atto di partecipazione collettiva ovvero come compresenza attiva in un determinato momento storico, ma che si nutre anche di una certa distanza, di un certo ‘scarto’ dal tempo reale, di un certo ‘mosso’ dato all’apparenza delle cose. Coscienza, appunto di ciò che ‘rappresentiamo’ nel presente e delle implicazioni del nostro modo di parlare e di agire.

Caroline Baglioni – Michelangelo Bellani: Mio padre non era ancora nato

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Caroline Baglioni: Sottrarsi a ciò che per definizione chiamiamo ‘reale’, per quanto ci sforziamo, è forse impossibile. Personalmente negli ultimi anni, anche attraverso la scrittura, ho preso a prestito come basi dei miei testi, fatti estremamente concreti, che fanno parte del quotidiano e che se anche non riguardano in prima persona tutti, sono entrati a far parte della storia di tutti, come ad esempio il crollo del ponte Morandi nel 2018, la battaglia di Dj Fabo per il suicidio assistito, etc. La mia personale sfida col reale è sempre quella di partire da esso per discostarmene, veicolarlo cioè attraverso vie inaspettate che portino da un’altra parte, il reale come una porta per entrare in un altro mondo, universale, che riesca ad intercettare una storia comune, un’umanità comune. Non trovo quasi mai interessante riportare la realtà nuda e cruda su un palcoscenico, il teatro ha la forza per fare molto di più, proprio perché parte dall’opposto, da una ‘finzione’, e allora si tratta di reinterpretare la realtà in modo da renderla tridimensionale, elevarla a qualcosa di tanto impossibile quanto significante, e compiere un giro tale per cui la realtà possa tornare, per magia, a superare la fantasia.

Michelangelo Bellani: Per me non si è mai trattato di imitare la realtà. Semmai di essere autentici. L’autenticità non è una categoria che si specchia necessariamente nella realtà. Anche un fatto immaginario, un sogno, un invenzione, possono essere autentici come vissuto. Essere autentici significa esprimere il momento di un Essere, più che la sua essenza. Esprimere la manifestazione di un tempo finito, piuttosto che l’assoluto di un ideale . Anche se una certa idealità non può essere del tutto impedita.

Tutto questo mi porta a considerare lo spettatore un incontro, non un fronte, nel quale incontro, agisce come metafora il più ampio rapporto che riguarda lo ‘spettacolo’ del gran teatro dell’esistenza, delle categorie del pensiero, del vedere e decifrare l’estensione della realtà. Mi pare allora che in teatro ci si possa porre la questione di come condividere un’autenticità di cui si è naturali partecipanti dal momento in cui le categorie della simulazione, tanto nella vita che nel palcoscenico, sono perennemente in agguato.

Non c’è una mimesis perfetta della realtà, così come non c’è qualcosa come un’assoluta distinzione di ciò che è vero. Senonché, la mimesis perfetta della realtà è la realtà stessa. Così come (Essere) ciò che siamo, è per sua natura, e non per strabismo umano, una relazione e non un’essenza immutabile da disvelare. In questo senso, allora, il teatro vale non come semplice imitazione, ma in un qualche modo come ‘produzione’ di realtà. Vedere ed Essere-visto: esso stesso accadere.

Drammatico o post-drammatico sono puramente esercizi dello stile. La cui possibile de-costruzione ha abbondantemente superato ogni possibile esito programmatico.

Teatro e mondo digitale

PENSIERI SPARSI SU TEATRO, STREAMING E MONDO DIGITALE

In questi giorni mi è tornato in mente un libro di Isaac Asimov appartenente al Ciclo dei robot, Il sole nudo. In questo romanzo il detective umano Elijah Baley, accompagnato dal robot umanoide R. Daneel Olivaw, indaga su un omicidio sul pianeta Solaria. Tra la Terra e questa colonia spaziale non vi può essere maggiore distanza culturale: la prima vive sovraffollata, compressa, sotto cupole in immensi agglomerati di cemento e acciaio; gli abitanti di Solaria vivono invece isolati, in vasti appezzamenti, comunicando con gli altri solo tramite trasmissioni olografiche, rifuggendo non solo il tocco con un altro essere umano, ma persino il vedersi dal vivo se non per brevi e assolutamente gravi motivi. Tra due civiltà tanto distanti non sembrerebbe possibile la nascita di alcun dialogo, eppure il seppur breve contatto tra il terreste e i solariani cambia radicalmente i pregiudizi culturali di entrambi i popoli.

La distanza abissale tra la Terra e Solaria mi è sembrata assonante con la questione tanto dibattuta in questi giorni tra teatro e streaming o più in generale tra teatro e mondo digitale. Non potremmo immaginare arte più distante dall’asettico mondo etereo della rete eppure in questo periodo di obbligata e dolorosa distanza dai palchi di legno, il teatro sembra di necessità sbarcato sul web. Probabilmente questo incontro era inevitabile, forse addirittura necessario. Certa è l’irreversibilità delle conseguenze ora difficilmente calcolabili.

Alcuni potrebbero pensare che mai il teatro potrà prescindere dal contatto umano di una comunità riunita nel qui e ora dell’istante, per dibattere questioni civili, politiche etiche e morali; altri potrebbero dire che tale comunità si fosse ridotta a riserva indiana e che il web è una se non l’unica via d’uscita dall’isolamento. Quando si adotta una nuova tecnologia da sempre il dibattito si divide manicheo tra i sostenitori e i detrattori, pessimisti e ottimisti, luddisti e futuristi. La storia umana ci dice che quando si adotta uno strumento tecnologico non si torna indietro. Scoperta la stampa la pratica di confezionare libri da artigiani amanuensi per quanto non sparì andò il soffitta per sempre, così come il cellulare ha mandato in pensione le cabine agli angoli delle strade. Nell’adottare un nuovo strumento si guadagna qualcosa e si perde qualcos’altro. Bisogna essere consci di cosa si lascia e cosa si ricava. Non solo. Come afferma James Bridle: «Nel momento in cui creiamo uno strumento diamo forma a una certa interpretazione del mondo che, una volta reificata, è in grado di produrre un dato effetto su quel mondo. Diventa così un altro ingranaggio della nostra comprensione del mondo – per quanto spesso per via inconscia».

L’incontro tra teatro e mondo digitale quindi provocherà inevitabilmente una modificazione del concetto che l’arte scenica ha avuto per noi fino ad oggi. Possiamo decidere se controllare questo cambiamento o subirlo. L’adesione alla rete è avvenuta per il teatro in un momento di crisi totale. Potremmo quasi dire che l’arte scenica, come tutte le altre arti dal vivo, non ha potuto far altro trovandosi improvvisamente, a causa della pandemia, in un vicolo cieco.

Per quanto soprattutto la mia generazione, quella dei quarantenni, sia stata portata a considerare il web come una tecnologia neutra se non addirittura super democratica e antisistema (immensi archivi gratuiti, costi ridotti di promozione, accesso più o meno legale ma gratuito ai prodotti culturali e infine accesso alle notizie che i media tradizionali tendono ad occultare, per citare alcuni di questi cliché culturali), internet è tutt’altro che un luogo privo di pericoli. Bernard Stiegler usa la parola greca Pharmakon per riferirsi al web: veleno e medicina. Un luogo dunque di chiaroscuri in cui è bene avventurarsi sapendo quali rischi si corrono dal momento che il DNA teatrale sembra ormai innestato di fibre ottiche e bit digitali. Ne La mosca di Cronenberg quando Seth Brundle aziona il teletrasporto non sa che nella cabina c’è una mosca. La macchina di sua spontanea volontà non trasporta due esseri distinti ma mischia il loro DNA e se, in un primo momento, lo scienziato sperimenta grandi vantaggi, con il passare del tempo l’ibridazione lo porta alla morte.

Bernard Stiegler

La questione di un alleanza/connubio tra arti dal vivo e web è ovviamente di vasta portata e non sarà certo un articolo a dipanare una matassa quanto mai intricata. Ci limiteremo a indicare qualche percorso di riflessione.

Partiamo dall’ovvio: in teatro (come nella danza o nella performance) oltre all’incontro tra performer e pubblico nel qui e ora si opera anche un montaggio della visione unico per ciascuno spettatore. Il suo occhio è libero di incontrare sul palco quello che gli suscita maggiore curiosità, interesse, affezione, commozione. Nel semplice streaming come è stato fatto fino a oggi questo viene totalmente a perdersi. A imporsi è o una regia televisiva/cinematografica nelle produzioni più ricche o un semplice totale a camera fissa che replica il punto di vista centrale e appiattisce la visione per quelle più povere. Forse bisognerebbe trovare il modo di recuperare un modello di visione personale e unica prima di adattarsi unicamente allo stampo televisivo. Come fare? E qui sarebbe interessante una sperimentazione.

Ma non è solo una questione di spazio: il tempo del web è abissalmente più rapido e instabile di quello percepito in una esperienza artistica dal vivo. Per farsi un’idea empirica della questione basta vedere l’oscillazione di presenze nelle dirette Facebook o Instagram. Il tempo lento della presenza è in assoluto contrasto con il tempo rapido e discontinuo di internet. Persino l’on demand viene spesso spezzettato (il termine tecnico è “spacchettamento dei contenuti” es. Santa estasi di Antonio Latella, spacchettato in episodi come una serie TV) così perdendo lo sprofondarsi nel tempo dell’opera. La visione è distratta tanto quanto la lettura. Questo però non è necessariamente un male. Il jazz riadattò i tempi di esecuzione dei propri brani a quello dei 78giri e nelle esecuzioni dal vivo niente impedì il perpetuarsi di brani di ampio respiro. È dalla comparsa dei mezzi di riproduzione di massa che le arti si sono adattate e modificate.

Santa estasi Antonio Latella

Il principale pericolo per qualsiasi contenuto voglia sbarcare sul web è invece la logica computazionale, quella che Antoinette Rouvroy e Thomas Berns chiamano “la governabilità algoritmica della rete”. Tale criterio volto a quantificare più che a qualificare è figlio della logica neoliberista e di fatto ha già contaminato le modalità di accesso ai finanziamenti. Non si premia il progetto più interessante, meglio realizzato o più fecondo in una strategia a lungo periodo, ma quello che ottiene migliori valori e prestazioni quantificabili: numero di borderò, biglietti staccati, giornate lavorative, etc. Google, Facebook, Amazon e Apple, i cosiddetti “quattro cavalieri dell’apocalisse”, attualmente i veri padroni di internet, stanno implementando solo logiche computazionali che inevitabilmente modificano il nostro modo di pensare il mondo.

Stiamo esagerando? Pensate: quale ristorante scegliete su Tripadvisor? Quello con centinaia di recensioni o quello che ne ha solo una decina? Su Netflix scegliete d’istinto La casa di carta o la sconosciuta serie turca o indiana? Su Spotify di un gruppo che non conoscete, per farvi un’idea, non scegliete forse la canzone più gettonata? Siamo ormai influenzati a scegliere ciò che riscontra maggiori consensi senza troppo domandarci quali sono le ragioni e le radici di tale consenso. Nel mio paese, meta turistica per milioni di persone da tutto il mondo, con l’avvento di Tripadivsor i ristoratori, per protesta al nuovo mezzo che legittimava chiunque a interpretare la parte di Joe Bastianich, spinsero al primo posto in classifica un salumiere che faceva semplici panini al prosciutto!

Se la questione è la quantità vi sono molti modi per ottenerla, e soprattutto la logica computazionale è legata al culto del profitto e per questo tende ad eliminare le singolarità alla ricerca di ciò che incontra maggiormente i gusti dei potenziali utenti. Credete che questo non influenzi le arti? Epagogix è una società inglese incaricata dai maggiori produttori hollywoodiani di sviluppare delle reti neurali per dragare la rete e scoprire quali scene dei film vengano considerate migliori e più divertenti dal pubblico in modo da replicarne i risultati.

Se la rete offre indubbi vantaggi nella messa a disposizione degli archivi di teatri, festival e istituzioni, finalmente raggiungibili non solo dagli studiosi ma anche dai semplici appassionati, qualche dubbio si affaccia sulla questione in questi giorni molto dibattuta sulla reale possibilità di aumentare i pubblici raggiungendo fasce per ora restie a frequentare le sale teatrali. Come fa notare il già citato Bernard Stiegler gli algoritmi dei social e di Youtube mettono in relazione chi è già in relazione, chi già esprime inclinazione verso, il resto viene quasi totalmente escluso. Se guardo un video o ascolto un album dei Metallica difficilmente mi capiterà nei suggerimenti Tricky o Paul Kalkbrenner. Lo possiamo notare tutti semplicemente dando un’occhiata alla sezione “persone che potresti conoscere” sulle nostre pagine Facebook e constatare che quasi tutte fanno parte in qualche modo del nostro giro di interessi. Questa modalità è logica in un contesto neoliberista in cui quello che conta è vendere dei prodotti e dove quindi è necessario non mettere in evidenza le singolarità ma la maggior fetta possibile di interessati in base a preferenze già espresse. Se posto una foto di fiori è persino ovvio che gli algoritmi suggeriscano pubblicità e contatti con fioristi e vivaisti, ma nel caso di un oggetto culturale questa tendenza a settorializzare gli interessi non andrebbe a replicare la chiusura che già c’è nella realtà? Ricordiamoci che le macchine portano in sé i difetti dei loro costruttori, anche se a volte sorprendono per la libertà di prendere decisioni autonome.

Conseguenza di questo aspetto è quella che viene definita “delaminazione dei dati”. Un articolo scritto da un grande reporter con fonti verificate e verificabili, dagli algoritmi di ricerca viene accostato per assonanza a qualsiasi altro che riporti nell’indicizzazione simili o identiche catene di parole chiave. Tale prossimità comporta l’incapacità per la maggior parte degli utenti di distinguere la qualità delle fonti e delle notizie, cosa di cui si avvantaggiano gli inventori di fake news o chiunque sia interessato a confondere le acque. Per fare un esempio in campo teatrale Acqua di Colonia di Frosini e Timpano in chiaro sulla rete potrebbe essere tranquillamente accostata a video di apologia del fascismo o che inneggiano all’intolleranza e alla discriminazione razziale. Il pubblico si troverebbe a dover ricostruire un contesto e non sempre, come nel caso delle news, ne sarebbe in grado. Bisognerebbe cercare di avviare azioni a contrasto di questi meccanismi, verso una reale messa in relazione di ambiti diversi ma compatibili (pensiamo alle neuroscienze come a tutto il mondo dell’educazione per esempio). Un campo di sperimentazione fecondissimo sarebbe dunque quello di implementare strategie per ricostruire un’agorà di singolarità in un mondo digitale regolato dalla similarità e replicabilità.

Acqua di colonia Compagnia Frosini Timpano

Altra questione di cui tener conto è come far fronte al diluvio dei dati. Lope de Vega in Todos los ciudadanos son soldados scriveva: «quanti libri, quanta confusione!/Intorno a noi un mare di carta stampata/e per lo più piena di fandonie». I tempi cambiano ma le questioni restano. Viviamo oggi un periodo in cui il teatro e la danza sono affette da iperproduzione e questo proprio per il meccanismo dei finanziamenti pubblici e privati concepiti a partire da assunti economici neoliberisti. Come critico lo scorso anno ( ma è così da almeno cinque) ho assistito dal vivo a circa duecentottanta spettacoli in dieci regioni e due stati esteri, partecipando a ventotto festival, oltre alla partecipazione a svariate rassegne di teatri. Molto al di sopra della media nazionale dello spettatore medio e nonostante questo ho una ben parziale conoscenza di quanto venga effettivamente prodotto in questo paese. A volte diventa difficile scoprire nuove realtà o talenti emergenti proprio perché non si ha proprio la possibilità di vederli. In un passaggio sul web questo aspetto verrebbe portato a un eccesso difficilmente risolvibile aggravato dalle regole interne di internet: pageranking e tecniche SEO. Chi si avvantaggerebbe sarebbero ovviamente i soggetti con maggiori disponibilità di fondi da investire. I piccoli come sempre dovrebbero arrabbattarsi, oltre alla difficoltà di reperire il tempo per occuparsi della questione.

Per concludere questo breve quanto incompleto excursus parlare di un Netflix teatrale o di uno sbarco sul digitale come si parlasse della conquista di Marte dovrebbe essere accompagnato da una riflessione veramente approfondita delle modalità di ibridazione di teatro e mondo digitale. La necessità e il bisogno spesso fanno fare scelte foriere di conseguenze non sempre positive e, come appurato dalla storia, adottare uno strumento non solo diventa irreversibile ma modifica inevitabilmente il nostro modo di percepire e di pensare. È quella che gli i neuroscienziati chiamano neuroplasticità del cervello, ossia la capacità di riorganizzare i percorsi neurali a seconda degli stimoli provenienti dalla realtà. Plastiticità però non significa elasticità. Una volta adattato, il cervello non fa passi indietro. Lo sa qualunque ex fumatore.

La tecnologia esiste e non ha senso scagliarvisi contro o osteggiarla. Essa va utilizzata con coscienza, adattandola alle esigenze e alle necessità. Non bisogna subirla. Equivarrebbe a esserne schiavi. Sarebbe desolante dover constatare come Nicholas Carr che :«Lo schermo del computer dissipa i nostri dubbi con i suoi vantaggi e le sue ricompense che sembrerebbe ingeneroso osservare che è anche il nostro padrone».

Letture consigliate

Nicholas Carr Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Cortina Raffaello, 2010

James Bridle Nuova era oscura, Produzioni Nero, 2019

Alfie Brown Capitalismo e Candy Crush, Produzioni Nero, 2019

Bernard Stiegler Il chiaroscuro della rete, Youcanprint, 2014

Yuval Noah Harari Ventuno lezioni per il XXI secolo, Bompiani, 2018

Mark Fisher Realismo Capitalista, Produzioni Nero, 2018

Jean Baudrillard Cyberfilosofia, Mimesis, 2010

Jean Baudrillard La scomparsa della realtà, Fausto Lupetti editore, 2009

Simon Sellars Ballardismo applicato, Produzioni Nero, 2019

www.arsindustrialis.org

Stefano Tè

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A STEFANO TÈ

Ventinovesima intervista per Lo stato delle cose. Questa domenica si va in Emilia Romagna, a Modena, per incontrare Stefano Tè de Il teatro dei venti.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Il Teatro dei venti è compagnia di grande impegno civile la cui attenzione è rivolta alle fasce deboli della nostra società: i carcerati, i migranti, i disabili mentali e fisici. Stefano tè e Teatro dei venti sono organizzatori del Festival Trasparenze a Modena luogo di incontro e di scambio tra teatro e comunità. Nel 2019 con Moby Dick vince il Premio Ubu per il miglior allestimento scenico e il Premio Rete Critica per per l’organizzazione/progettualità.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

A mio parere la creazione artistica ha come aspetto necessario il rischio. Considero un grande problema l’adagiarsi su questioni e soluzioni già investigate. Esiste una zona di conforto nel nostro mestiere, spesso alimentata dai tempi serrati delle produzioni e da un certo timore di uscire da parametri nei quali si è riconoscibili, catalogati. Per questo motivo ho scelto di accostare attori della compagnia e attori detenuti. Per lo stesso motivo prediligo presentare spettacoli in spazi urbani. In entrambi i casi emergono diversi aspetti di rischio. Vi è certamente il tema dell’omologazione ed incasellamento per generi, nel nostro paese soprattutto, ed è questo una prima sfida che amo correre. Superare un certo tipo di aspettativa quando ci si trova davanti ad uno spettacolo in piazza, ad esempio. Sfidare le aspettative lo trovo molto stimolante.

Allo stesso tempo sento una grande attrazione verso quella creazione che sfugge dal mio controllo. Esercito con grande caparbietà un contenimento delle soluzioni in fase di creazione. Cerco di limitare tanto l’improvvisazione durante i miei spettacoli, adottando un sistema di partiture molto precise, spesso definite e contenute dalla musica. Ciò nonostante, per la tipologia di attori e per il luogo nel quale avviene l’azione, l’imprevisto è una presenza costante.

C’è una tendenza naturale all’imprevisto che tiene in tensione il mio rapporto con il mio teatro.

Stefano Tè Moby Dick

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Esiste ancora una atrofizzazione del sistema che dovrebbe sostenere il teatro, soprattutto le realtà più giovani. Ci sono stati sforzi importanti, ma per una realtà artistica è certamente più complesso ora rispetto a decenni fa. Ci sono sostegni che incoraggiano giovani artisti alla creazione di prime opere e progetti, ma latitano ancora prospettive vitali durature, capaci di stimolare e testare chi si approccia al mestiere nel tempo. L’affiancamento dovrebbe durare almeno tre anni, durante i quali le giovani realtà possono sentirsi tutelate, nonostante gli inciampi. E’ necessario a mio avviso una accurata e rigida selezione per evitare gli avventori occasionali del mestiere e avviare poi processi di affiancamento e monitoraggio a giovani compagnie e artisti singoli, per lunghi periodi. Questo monitoraggio andrebbe esteso anche ai non più giovani. Ci si affida troppo spesso esclusivamente ad un ritorno burocratico dell’investimento, ad una prova del lavoro svolto più sul versante amministrativo che artistico. L’efficacia artistica e sociale del mestiere andrebbe monitorata sempre, perché esistono piccoli gruppi di artisti sconosciuti, che non hanno una struttura capace di accogliere importanti finanziamenti, ma che hanno da molti anni un importante ruolo nelle comunità in cui vivono, che si barcamenano e si arrangiano per rientrare in parametri burocratici che non tengono conto della loro esistenza. C’è quindi uno sforzo enorme ed uno sperpero di energia, che queste piccole realtà devono compiere per adeguarsi, contro natura, ai parametri imposti, tenendo conto esclusivamente del teatro che si conosce, che sta nello schema d’azione prestabilito. E’ necessario quindi un costante monitoraggio della realtà.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

La questione è soprattutto legata, anche qui, al tema del rischio. Ci sono festival e programmazioni ai quali è impossibile accedere. Vengono proposti e riproposti nomi, spesso provenienti dall’estero, che rivestono con una patina di confortevole lustro i cartelloni. Le realtà emergenti vengono collocate in apposite sezioni, a parte. Così per quel teatro che nella definizione ha un accostamento di rischio. Il teatro sociale sta nei cartelloni di teatro sociale. Il teatro di strada sta nei cartelloni di teatro di strada. Sono pochi gli sconfinamenti e spesso, anche qui, con il conforto del nome conosciuto. Il rischio è ciò che manca. Si crede ancora di risolvere il problema dell’assenza di pubblico con cartelloni confortevoli. Spesso le compagnie più interessanti sono quelle provenienti dall’estero, ma dubito che esista solo altrove una certa qualità da sostenere. Allora i canali di distribuzioni andrebbero ripuliti con coraggio. Ridefiniti i ruoli nel teatro ed i suoi obiettivi.

Moby Dick Ph: @Ilenia Tesoro

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Un evento da viversi, come si vive l’istante qui ed ora, ha una funzione arcaica, semplice. Deve tornare ad essere l’evento pubblico dove è possibile testare l’azione reale. Dove incontrare fedeltà e credibilità di azione e quindi di emozione. L’esperienza di sangue e carne che solo a teatro puoi ritrovare. Questo è possibile se riconduciamo la nostra esperienza d’artisti nelle traiettorie che portano al magico, all’impossibile che si realizza, alla straordinarietà dell’evento, alla meraviglia che risiede nel semplice gesto reale, credibile. Allora ci si deve liberare di orpelli e maniere per ritrovare quel punto di partenza che fa del teatro una esperienza irripetibile. Torno al tema del rischio. Ora più che mai tutto è messo in discussione e la realtà sembra distruggere ogni piano futuro. Ora è necessario innovare la nostra presenza ed è fondamentale riavviare tavoli di confronto su temi anche pratici e artistici. Ora che tutto sembra sfumare resta il desiderio di mettersi in azione e manca come l’aria quell’elemento che rende unico il nostro mestiere: l’incontro reale.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Credo di aver risposto sopra anche a questa domanda

Vico Quarto Mazzini

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A VICO QUARTO MAZZINI

Ventottesima intervista per Lo stato delle cose. In questo appuntamento incontriamo Michele Altamura e Gabriele Paleocà di Vico Quarto Mazzini.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Vico Quarto Mazzini è compagnia con sede a Terlizzi in provincia di Bari. Tra le loro opere più significative ricordiamo: Diss(è)nten, Amleto FX, Boheme!, Karamazov, Vieni su Marte.

D: Qual è per voi la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La costruzione di un’impalcatura di senso, di un edificio creativo da dare in mano allo spettatore. Un giocattolo con cui farlo giocare, lo spettatore, il tempo necessario a far sì che ritenga imprescindibile quella porzione di vita che gli ha dedicato. La creazione scenica è qualcosa che causa dipendenza, ti causa dispiacere per chi non può provarla ma è anche un vortice dove spesso non ti vorresti trovare. E’ un lavoro da alchimisti, da divinità mancate, da studiosi incalliti e artigiani istintivi. Ha bisogno di cura e di follia, di costanza e istinto. Si deve sapere da dove si viene, da dove veniva chi prima di noi ha avuto la prontezza di lasciare una traccia che possa fare un minimo di chiarezza, e poi si deve andare senza paura, sperando che la “tua” traccia si imprima senza che tu te ne renda troppo conto. 

Ogni volta che decidiamo di dar vita a una nuova creazione impieghiamo mesi interi a interrogarci umanamente chiedendoci cosa davvero riteniamo urgente. Non ricerchiamo un’urgenza generica (l’urgenza non va confusa con l’attualità) ma cerchiamo di scavare umanamente in noi stessi alla ricerca di un magma che ci spinga a creare, a costruire una drammaturgia e salire sul palcoscenico. Non facciamo teatro militante ma siamo alla costante ricerca di un teatro “politico”, e per essere politico è necessario che sia estremamente personale, che ci riguardi personalmente senza essere per forza biografico. Abbiamo bisogno di pensare molto in fase preliminare perché abbiamo sperimentato che è l’unico modo per non essere mentali durante la creazione vera e propria e concentrarci, invece, sui meccanismi che liberano l’istinto. Non è l’unico approccio possibile, non è un metodo né un impianto teorico. E’ il modo più funzionale che abbiamo faticosamente sperimentato per mettere a disposizione il nostro corpo di attori al servizio delle nostra arte. Alimentare l’istinto vuol dire approfondire la nostra pratica attorale, registica e drammaturgica, prova dopo prova, replica dopo replica.

Perché sia efficace il nostro lavoro necessita di tempo e di risorse produttive. Ci piacerebbe poter immaginare di disporre delle stesse risorse produttive di cui disponevano i grandi maestri che tanto ci piace rimpiangere. Abbiamo bisogno di avere la libertà di poter comprare un pianoforte per poi poterlo bruciare in scena, abbiamo bisogno di mangiare mentre cestiniamo un’idea per mesi interi, abbiamo bisogno di poter pagare una decina di attori, dei più bravi, per poi guardare tutti insieme, incantati, un maestro delle luci che fa gridare la scena durante le prove.

L’istinto teatrale non ha a che fare con la spontaneità, piuttosto ha a che fare con lo studio, con la pratica. In un sistema che ti chiede di essere sempre pronto a cogliere le occasioni produttive, a partecipare ai concorsi, ai bandi, ai premi, abbiamo deciso di prenderci il nostro tempo.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Se è insufficiente a livello nazionale, figurarsi quanto può essere faticoso costruire la propria casa al sud, dove si sente fortissima la mancanza di fondazioni che possano sostenere il lavoro di un’impresa creativa, dove i contributi regionali (quelli comunali non esistono) arrivano con mesi (se non anni) di ritardo, dove le strutture non hanno la forza (e a volte la volontà) non solo di sostenere, ma addirittura di ospitare semplicemente una replica del tuo spettacolo. Il nostro ultimo lavoro in Puglia è stato replicato per sole due volte. Non è una polemica, è un semplice dato da cui far partire un’analisi.

I festival si moltiplicano è vero, ma questo moltiplicarsi causa un progressivo assottigliarsi delle risorse e, con queste poche risorse, i festival con un occhio volto alla ricerca devono sobbarcarsi tutte le istanze di quelle compagnie che non trovano spazio nei circuiti ufficiali, quindi, i questuanti alla porta dei direttori artistici di questi festival aumentano.

La percezione che si ha delle istituzioni (stato, regioni, comuni) è quella di un proprietario di casa che cerca continuamente, in tutti i modi, di metterti alla porta. Tutto quello che è rimasto di buono nel rapporto tra istituzioni e cultura sono le briciole di una gestione politica che nei decenni scorsi ha finanziato, lautamente, lo spettacolo dal vivo. Ma adesso i politici non ne possono più di noi teatranti, ci vedono come un peso: “Piange l’intero stato sociale, voi di cosa vi lamentate!”. Avremmo bisogno di politici che vadano a teatro, che leggano di teatro, che ne riconoscano il ruolo educativo all’interno della società per far sì che le poche risorse che ci sono vengano distribuite non per questioni clientelari ma per vero spirito di servizio pubblico. 

Ma non vogliamo lamentarci e basta. Noi, nel nostro piccolo, cerchiamo costantemente di proporre soluzioni. Ad esempio, crediamo che si debba potenziare il rapporto tra le strutture e le compagnie. Durante una riunione di C.Re.S.Co., qualche mese fa, abbiamo lanciato una provocazione: non dare più contributi ministeriali alle compagnie oberandole di lavoro amministrativo e di parametri al limite della follia, e istituire dei bonus per le strutture che sappiano prendersi cura delle realtà produttive dando loro una casa, sostenendole (non solo economicamente) nel loro percorso di crescita. E’ un’utopia?

Vico Quarto Mazzini Vieni su Marte

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Se la gente tornasse a teatro, reclamasse teatro, ecco che i problemi di circuitazione finirebbero. Ma, l’amara verità, è che la gente non va più a teatro. Le statistiche dicono che siamo i più ignoranti di Europa. Dobbiamo rassegnarci al fatto che noi italiani non siamo come (un esempio a caso?) i tedeschi, che vedono nell’accesso al teatro un proprio diritto.

Forse dobbiamo considerare defunto il concetto di circuitazione come lo abbiamo sempre immaginato, più dai racconti dei nostri “genitori artistici” che dalla nostra diretta esperienza a dirla tutta.

Forse è il momento di capire che per salvarci dobbiamo fare le cose “insieme”, mettere in comune le competenze e non immaginarci più come delle monadi, gli uni contro gli altri per giunta. Siamo troppo impegnati a garantirci la sopravvivenza per alzare la testa e capire che solo facendo rete potremo salvarci. In Italia c’è un reale problema di sovrapproduzione: si produce più di quel che il mercato può realmente sostenere. Non lo diciamo noi, lo dicono i dati. Il sistema dovrebbe favorire le sinergie, le relazioni. Un buon direttore artistico dovrebbe esser capace di proporre delle visioni che prevedano la collaborazione tra gli artisti, non fare “la spesa” per la sua programmazione come si farebbe al mercato. Allo stesso tempo, noi artisti dovremmo dialogare di più in modo da arricchire la nostra cifra artistica con nuovi incontri e contemporaneamente potenziare la nostra “voce” politica.

Vico Quarto Mazzini Vieni su Marte

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la vostra opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Finché il teatro non diventerà un’App non morirà mai. Mai. E’ un’arte demodè, lo sappiamo bene. In un momento storico in cui tutto deve essere facile, veloce noi dobbiamo rivendicare il diritto a essere complessi, lenti. Il teatro richiede uno sforzo per chi lo fa e per chi lo guarda (critico o spettatore) è in questo c’è ancora la sua unicità. La superficialità in cui siamo immersi si scioglie come neve al sole di fronte alle “grandi storie” che il teatro sa raccontare. Sarah Kane diceva che il teatro non morirà mai perché qualsiasi comunità di esseri umani, anche dopo un disastro nucleare, avrà la necessità, nell’istante successivo al soddisfacimento dei propri bisogni primari, di raccontarsi storie. E non è una questione stilistica perché le grandi storie le si possono raccontare con le parole, con la danza, con la performance. Sopravvivremo se sapremo essere all’altezza delle grandi storie di cui è pieno il mondo, tutti i giorni.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Chi decide di fare arte lo fa perché un giorno lontano e sbiadito ha sentito una “vocazione”. La vocazione è fatta di tutte le immaginazioni che hanno popolato la sua infanzia, èqualcosa di misterioso. Risiede nella memoria, nelle visioni che hanno origine fuori dal teatro. La scintilla della vocazione nasce da elementi esterni che hanno a che fare intimamente con la nostra realtà. Tenere viva quella vocazione, ricercarla costantemente è un modo per confrontarsi col reale, per non scollarci mai del tutto da quella dimensione quando creiamo in teatro. Solo tenendo vivo questo legame in maniera intima e totalmente personale saremo capaci di produrre creazioni che non siano “a tesi”, militanti o civili. Quando si dice che il teatro debba essere specchio della realtà spesso si cade in equivoco. Lo specchio non riflette soltanto: riflette e ribalta l’immagine. Senza quel ribaltamento non esiste rappresentazione.

Sotterraneo

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A SOTTERRANEO

Per la ventisettesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Daniele Villa di Sotterraneo. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Sotterraneo è un gruppo di ricerca i cui membri fissi si affiancano, a seconda dei progetti, a diversi collaboratori. Sotterraneo nasce a Firenze nel 2005 ha vinto svariati premi tra cui due Premi Ubu (2018 come Miglior Spettacolo e nel 2009 come Progetto speciale). Tra gli spettacoli ricordiamo: Shakespearology, Overload, Be legend!, Be normal!

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Se dobbiamo scegliere una-e-una-sola peculiarità diciamo la liveness. Per dirla con un anglismo. Il suo accadere dal vivo garantisce in fondo una dimensione collettiva, partecipativa, ludica anche, carnale a volte, una ritualità laica – insomma ha i tratti dell’esperienza, questa cosa che ci è sempre più sconosciuta man mano che l’avanzamento tecnologico muta i nostri standard di percezione della realtà. Infatti confidiamo che il teatro guadagnerà centralità nelle diete culturali contemporanee proprio in risposta alla febbre della digitalizzazione. Ci piace illuderci che il bisogno di piccole adunanze sediziose incentrate sull’estetica e il pensiero aumenterà nei prossimi anni.

L’efficacia purtroppo rimane un mistero democratico: uno spettacolo per alcuni funziona e per altri no, a volte funziona quasi per tutti ma magari non funziona alla replica successiva, a volte sembra non aver funzionato e invece alla fine viene giù il teatro dagli applausi, altre ancora non funziona e basta ed è giusto così. Di base per funzionare un’opera dev’essere complessa ma accessibile, profonda ma comunicativa, spiazzante e perturbante ma capace di connettersi in modo trasversale con le persone, deve durare né più né meno del tempo necessario e deve essere composta da un sistema di segni e azioni essenziali e oneste ma anche dotate di carica poetica. Facile no?!

Sotterraneo

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Risorse. Tutto ciò che cresce cresce grazie alle risorse. Nel teatro italiano ci sono competenze, talenti e grandi capacità di sacrificio. Per crescere come movimento però, per far sì che il teatro torni a occupare una porzione significativa del tempo “libero” delle persone servono risorse che potenzino tutti gli aspetti coinvolti: comunicazione, produzione, studio e progettazione (anche dal punto di vista manageriale). Dopodiché le risorse vanno vincolate agli obiettivi: spingere perché il contemporaneo diventi una priorità non sarebbe male. Come dice Milo Rau, abbiamo bisogno anche di nuovi classici. Detto ciò esistono moltissimi fattori contingenti e ogni spazio/teatro/festival fa storia a sé ma se le più importanti realtà riuscissero a imporre a una qualunque agenda di governo l’idea che la cultura è una risorsa di cittadinanza e civiltà, che la democrazia o è cognitiva o non è e che teatri, scuole, biblioteche sono gli strumenti principali per lo sviluppo di una partecipazione attenta, razionale e civile allora forse l’Occidente tutto farebbe un salto di qualità. Però non siamo sicuri che la nostra classe dirigente persegua obiettivi del genere. Viviamo il tempo della post-verità, del narcisismo compulsivo, della crisi dell’intermediazione – insomma, per il momento la cultura è ancora “soltanto” un antidoto e non uno stato di salute permanente su cui investono i governi.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Domanda cui operatori e critici forse saprebbero rispondere meglio di noi artisti. La nostra impressione è che al momento l’unica cosa che fa vivere un’opera più a lungo e in contesti diversi è solamente la forza dell’opera stessa, che è troppo poco per creare cambiamenti strutturali. Di nuovo, o i cambiamenti sono sistemici o non sono. Bisognerebbe riequilibrare il rapporto di forze vigente fra tradizione e contemporaneo, bisognerebbe automatizzare in qualche modo il passaggio di certe proposte dai festival alle stagioni, facilitarne l’incontro con pubblici diversi, rendere l’immaginario teatrale più dinamico e privilegiare i progetti che riportino il discorso teatrale nel presente, combattendo quel cliché ormai diffuso per cui il teatro è luogo dell’archeologia culturale invece che un’avanguardia visiva e concettuale. E già che ci siamo potremmo partire dalla scuola: forse farne una materia curricolare lo priverebbe della sua carica interdisciplinare e “dionisiaca”, ma intanto discutiamo e vediamo cosa ci viene in mente, sicuramente educare al teatro come alla lettura e alla matematica significherebbe seminare cultura teatrale, diffonderne un po’ di più l’abitudine, instillare fame di discipline sceniche nei ragazzi. E lo sappiamo che nonostante la scolarizzazione di massa siamo un paese ad altissimo tasso di analfabeti funzionali… ma è proprio in questa contraddizione che bisogna operare per non perdere ancora più terreno.

Tdanse
Sotterraneo Overload

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Il teatro accade dal vivo, porta le persone fuori dalla dimensione domestica, è un’esperienza non mediata, è un rituale laico, è un evento collettivo e contemplativo, è basato su una socialità diretta prima e dopo lo spettacolo come anche su una socialità non verbale durante, genera discussione fra spettatori e professionisti, nelle occasioni migliori genera spiazzamento e stupore, spesso vi si entra impreparati non sapendo a cosa andiamo incontro, spesso ci delude e ci fa arrabbiare su un livello collettivo e di senso (che è molto diverso che bestemmiare al volante o in coda alle Poste), è un evento comunitario che però crea una relazione col pubblico di tipo interrogativo e non necessariamente consensuale (come più spesso accade nei concerti), a volte ci cambia la vita o almeno alcuni nostri punti di vista su essa, a volte ci rende più intelligenti facendoci sentire più stupidi, a volte a teatro ci sembra che ci sia successo davvero qualcosa. La rivoluzione digitale ci sta in un certo senso costringendo a rinegoziare il nostro principio di realtà e sta narcotizzando l’attenzione profonda, mentre il teatro è una palestra di pensiero complesso e attento. Se riusciamo a trasmettere l’idea che venire a teatro significa espandersi, significa penetrare la superficialità del nostro tempo sperimentando la verticalità e soprattutto se riusciamo a far capire che a teatro si va per posizionarsi in modo personale di fronte a qualcosa e non per essere sottoposti a un esame di sofisticazione culturale, allora avremo sale sempre più piene e forse, ma forse, un dibattito pubblico di livello meno deprimente. 


D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

La questione della realtà è forse la questione cruciale di questo inizio millennio (non che non fosse già la questione ai tempi di Aristotele…) e il teatro è fra i mezzi che si interrogano in modo più puntuale e chirurgico sul problema, a partire dalla crisi radicale della rappresentazione in cui lavora come disciplina ormai dal ‘900. Moltissime delle opere che vediamo (e realizziamo) si fondano in pratica sulla continua rivelazione e messa in stato d’accusa del medium stesso, e questo modo di fare spettacolo non si limita a svolgere un qualche esercizio meta-teatrale ma sempre più spesso mira a portare in scena il trauma, la fatica e il disagio per l’aumento costante di stratificazioni, manipolazioni e falsificazioni che intercorrono nel nostro rapporto con la realtà. Per questo le discipline che noi come Sotterraneo sentiamo più vicine in questo momento sono le neuroscienze e la psicologia cognitiva, perché se l’inaccessibilità del reale è un problema che risale indietro nei millenni forse è giunto il tempo di spostare il dibattito dai colpevoli di ogni epoca alle nostre stesse teste, alle cause biologiche per cui ci è così difficile toccare la realtà senza pericolo di mistificazioni, allucinazioni collettive, conformismi ideologici. Il teatro in questo si assume già il rischio di accade dal vivo e di accadere nell’hic et nunc – banalità, ma in fondo banalità vera, noi lo riscopriamo ogni sera quando non sappiamo come il pubblico reagirà, quali intoppi ci saranno, quale “caduta” o imprevisto segnerà quella specifica replica. Per il resto noi che lavoriamo sul palco non abbiamo veramente mercato, non abbiamo abbastanza peso politico, non abbiamo spendibilità spettacolare per il mainstream – quindi chi, meglio di noi, periferici e appestati, può porsi il problema del principio di realtà al tempo della rivoluzione digitale? Ogni volta che facciamo finta sul palco in realtà non facciamo altro che cercare di essere vivi…

Gommalacca Teatro

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A GOMMALACCA TEATRO

Per la ventiseiesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Carlotta Vitale e Mimmo Conte di Gommalacca Teatro. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Gommalacca Teatro ha sede a Potenza e ormai da molti anni opera è conosciuta a livello nazionale. Tra il 2017 e il 2019 ha avviato due progetti paralleli, per le due Capitali Europee della Cultura 2019: Matera e Plovdiv: il progetto Aw(E)are – IO, NOI per Plovdiv2019, il progetto AWARE – La Nave degli Incanti co-prodotto con Matera2019.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Carlotta Vitale:

La creazione ha a che vedere con il complesso delle linee di forza che attraversano la scena.

Lo spazio scenico, naturalmente, propone al corpo, alla voce, alla luce e al suono che l’attraversano un’interazione, una possibilità che può, se il costrutto delle linee si intreccia, portare alla creazione.

Si danno delle “condizioni”, si propongono delle strade di ricerca che immediatamente verranno tradite, questo è l’augurio, perché è dall’interazione dello spazio e dell’essere umano che nasce un’idea di scena, una particella riconoscibile da qualsiasi occhio. La relazione che si è costruita tra lo spazio e il corpo che agisce è determinata a sua volta da chi guarda e chi viene guardato. Le linee si moltiplicano infinitamente, e si intrecciano in una serie di lanci, come quelli di una canna da pesca, tante volte quanto chi è in scena lancia segni a chi ascolta e guarda, e chi ascolta e guarda apre la sua conoscenza e il cuore all’interazione. Nel mio lavoro ho sempre immaginato che il corpo in scena fosse il frutto di millenni di evoluzione e portasse dentro il sapere “genetico” di una tradizione. Non ho mai creduto che qualcuno dei grandi maestri a cui facciamo riferimento nella formalizzazione della scena, sapesse dire qualcosa a proposito dell’efficacia della creazione scenica. Il risultato sperato, l’effetto voluto, da ciò che conosco della dimensione scenica – attraverso la mia esperienza da spettatrice e da attrice, e sicuramente più da formatrice e poi regista di gruppi informali – è un fenomeno che possiamo osservare da moltissimi punti di vista. Gli spettacoli che non dimenticherò mai sono quelli in cui la regia ha fatto un patto con sé stessa e si è mantenuta radicalmente legata ad esso, in cui gli attori, i danzatori, i performer, i cittadini erano in una condizione di generosità e ascolto, in cui il pubblico era arrivato preparato ad un appuntamento. Quindi direi che la creazione scenica è efficace quando è pensata da tutti e sognata, un po’ come per Danilo Dolci lo è il bambino, nella mia visione la costruzione della scena è pedagogia.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Carlotta Vitale:

In questo discorso bisogna distinguere in base alla funzione che una compagnia, un collettivo, un teatro stabile, un singolo artista si dà rispetto al territorio del mondo. Il compito dell’artista non è quello di rispondere ad una necessità esterna, gli spettacoli non dovrebbero essere prodotti per compiacere i gusti del pubblico, i bandi non dovrebbero proliferare offrendo occasioni sporadiche, soprattutto per le nuove generazioni, che poi senza alcun accompagnamento – in questo che è un lavoro e genera impresa – si perdono. Ho fatto un brevissimo elenco dei “non” e ce ne sarebbero ancora, perchè per negazione in questo lavoro si può capire verso che cosa si va, e in quale specifica abilità risiede la pratica culturale che si propone alla collettività. Se abbiamo compreso la nostra funzione (e mi riferisco ad un lavoro profondo con sé stessi, di funzione etica) sappiamo anche come vogliamo connetterci alla collettività, perché la pratica culturale è il lavoro con le persone.

Se al livello normativo riusciamo ad avere ben chiara la dimensione della pluralità e delle strade che gli artisti, gli operatori culturali individuano per contribuire alla produzione di immateriale e immaginario, forse potremmo dimensionare un tipo di supporto pubblico realmente commisurato alle necessità. La realtà però è un’altra. La nostra compagnia si è costruita sulla produzione teatrale, provando diverse strade espressive con grande difficoltà, producendo spettacoli per pubblico misto, contaminando i linguaggi, abbiamo avuto accesso al riconoscimento ministeriale, ma poi non lo abbiamo più alimentato e infine abbandonato. Era chiaro che non corrispondeva affatto alle nostre esigenze. Qui la questione è molto semplice da cogliere. Le condizioni richieste dai parametri ministeriali si conformano all’idea di uguaglianza, livellano le esigenze forzando il sistema ad adeguarsi, ma in realtà bisognerebbe ragionare in termini di equità per concedere a tutti le stesse opportunità. Bisognerebbe aprire una grande riflessione sulle singole regioni, chi lavora sul territorio con cosa lavora? Con quale apparato comunitario? Con quale apparato politico? Una buona parte del Sud dell’Italia si sta spopolando. Come è possibile che un circuito multidisciplinare si attenga ai parametri che forse si fa fatica a rispettare in Lombardia? Come produrre e distribuire 90 recitative in una Regione in cui il circuito è fallito due volte? Siamo riusciti a connetterci all’esterno, entrando in contatto con circuiti e distribuzione? Non l’abbiamo fatto, questa è la realtà. Abbiamo costruito impresa sui finanziamenti regionali, i progetti europei, e come per tutti la maggior parte del lavoro grava su una minoranza, ovvero c’è un nucleo centrale che lavora oltremodo per mantenere attiva una realtà delicatissima, in una regione del Sud.

Noi abbiamo bisogno di norme che intanto sappiano “nominare” il nostro lavoro, abbiamo bisogno di tutele, che in questo momento in cui mi trovo a scrivere, sono l’evidenza di un settore fragilissimo che può essere spazzato via dalla quarantena imposta da un virus contagioso. Il nostro lavoro sostiene gli spazi, i dipendenti, i CDA, gli F24, e infine gli artisti pagati (poco) e senza alcuna prospettiva. Cosa si può fare per cambiare? Individuare due linee di contributo pubblico, uno per le stabilità e i loro obiettivi di ricaduta sui territori in cui agiscono, e l’altro per la ricerca e gli artisti che ne fanno parte con le loro specificità produttive. Bisogna che i decisori si aprano alla complessità. Molti di noi non ascoltati hanno messo in campo teorie e pratiche di sopravvivenza avveniristiche e paragonate alle macchine burocratiche.

Gommalacca Teatro Plovdiv 2019

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Mimmo Conte:

Il tema potrebbe essere il più semplice da inquadrare e forse risolvere, perché riguarda una grande realtà di strutture già esistenti -almeno per il nazionale, ma diventa molto complesso quando si fa riferimento al pensiero che sta dietro alla distribuzione: oltre la visione, le azioni messe in campo. Il discorso è molto lungo e articolato da affrontare, ma si potrebbe partire da possibili “conclusioni”:

i sistemi impermeabili, sono destinati a diventare chiusi e l’esperienza umana ci insegna che i sistemi “chiusi” muoiono. Infatti i circuiti, o esperienze simili, che hanno messo in campo azioni in maggiore ascolto con i bisogni degli attori di riferimento, sono diventati possibili esempi virtuosi e di buone pratiche;

i festival nascono come risposta alle esigenze e sollecitazioni di un territorio, alla necessità dei singoli che li pensano e che decidono di creare un “ritaglio della realtà” secondo la loro visione, sentendo anche le spinte dei luoghi (cittadini e architetture) in cui nascono. Ma non hanno una funzione, se non indirettamente, di distribuzione. Potremmo immaginarli come delle isole, che si possono raggiungere o meno come artisti, e che, viste dall’alto, creano un arcipelago-panorama visibile nell’insieme. I festival possiedono un doppio carattere: produttivo e di programmazione. Tutto ciò è molto delicato, e va tutelato;

le reti in parte ci sono sia per il nazionale che l’internazionale, ma spesso hanno basi precarie, perché legate a finanziamenti “temporanei” o che rimandano a loro volta a strutture che decidono se e come finanziarle oppure sono network costituiti da piccole organizzazioni che si inventano forme nuove di collaborazione e distribuzione. Quest’ultimo punto, è ancora poco considerato in termini finanziari reali dallo Stato. Inoltre, molte reti internazionali presuppongono un cambio-di-approccio per le realtà italiane, perché operano con paradigmi e modalità molto, se non del tutto, diverse da quelle abitualmente frequentate dalle compagnie: tipo di intervento, tipo di azione, tipo di “risultato”.

Inoltre, bisogna considerare che la platea possibilmente interessata alla distribuzione è molto ampia e variegata: ci sono compagnie che quasi non conoscono il circuito teatrale come è inteso in senso “classico”, ci sono compagnie che intendono la distribuzione in modo diverso da quella abitualmente immaginata perché lavorano su forme diverse di offerta-intervento, ci sono compagnie che attraversano tanti linguaggi e non sono, per come è intesa la distribuzione teatrale, “catalogabili” in un unico senso.

Un importante punto a favore sulle questioni appena citate lo abbiamo: sono affrontate da anni da coordinamenti nazionali, aggregazioni locali e reti europee, il problema è che manca una riflessione compiuta e “definitiva” presso gli Enti statali che decidono delle politiche culturali.

Dunque, il primo intervento è: comprendere approfonditamente, a livello Ministeriale, quale è la reale condizione “esistenziale” di tutta la scena contemporanea. Per questo è necessaria un’azione di incontro-confronto finalizzata ad alimentare ed elaborare anche la visione istituzionale delle politiche per il teatro e la cultura in Italia.

Ancora: intervenire, seriamente, per verificare funzionamenti e risultati raggiunti dalle stabilità e dai circuiti teatrali, per agire di conseguenza secondo la visione istituzionale maturata e per creare condizioni utili al sistema culturale. In questa direzione, è necessario mettere in campo azioni che rendano abitabile il settore culturale a tutte le realtà artistiche che ci lavorano.

In ultimo, un passaggio molto importante è proprio quello delle professionalità da coinvolgere: sia in termini di consulenza effettiva e concreta per gli Uffici in cui si definiscono le politiche culturali nazionali e di determinati territori, senza l’influenza della “politica elettorale”; sia di figure che possano sostituirsi a punti di riferimento attualmente inadeguati (perché enti burocraticamente incancreniti e/o incapaci di pensare e agire), o ancora creare nuovi tramiti per le occasioni in Italia e nel mondo, con la capacità di snellire processi e funzioni o comunque di far nascere strutture molto più agili e che abbiamo una percezione viva della contemporaneità in cui operano.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Carlotta Vitale:

È sempre in merito alle funzioni che va elaborato il ragionamento. Il campo è molto vasto, e il mio pensiero parte dalle nuove generazioni. Gli spettatori dai tre ai diciotto anni nel 2020 sono molto lontani dall’idea di separare i piani o sentire sostituita la loro condizione di realtà o irrealtà. Sono ben abituati sia nel nucleo familiare, dei pari e a scuola (non in modo uniforme nel nostro paese) a sentirsi in dialogo critico con l’online e l’offline. Sono abituati, e non dico che tutti sappiano elaborare allo stesso livello, ed è una competenza che hanno, quella di capire la natura delle due realtà che vivono. I bambini sono spettatori partecipanti e hanno necessità della relazione analogica in tutti i campi, i preadolescenti sono capaci di riconoscere i cliché del linguaggio da youtuber, esercitano il corpo a teatro e sanno usare Zoom ad occhi chiusi, gli adolescenti non usano Facebook, che è invece il regno rutilante dei loro genitori; gli adolescenti estremizzano il rapporto con l’irrealtà fino agli hikikomori, oppure la rifiutano completamente scendendo in piazza, facendosi parte attiva e politica. Non vedo criticità dialogiche con l’off/on-line se guardo alle nuove generazioni, anzi credo che se il teatro nella sua funzione di attivatore sociale, strumento mediatore nei gruppi, entrasse a far parte sistematicamente dell’assetto della programmazione scolastica nazionale, conserverebbe la sua funzione di esperienza unica e irripetibile e si rinnoverebbe nell’idea sclerotica che le nuove generazioni hanno della sola parola “teatro”, si arricchirebbe nell’apertura al confronto con le tecnologie, la pedagogia e la scuola. Ora il ragionamento dovrebbe ricadere su una fascia di popolazione fuori dagli ambiti che ho citato, parliamo di chi proprio in questo momento storico nella nostra nazione per esempio, si trova a fruire di uno spettacolo online, e del come colmerà il vuoto tra sé e l’attore. Esistono forme d’arte che di natura hanno elaborato strumenti che possano colmare quel vuoto. Il teatro non potrà farlo mai a mio avviso. Nei cinema è possibile da molto tempo assistere a spettacoli operistici in streaming, o concerti, sicuramente. Esistono allestimenti teatrali girati in video da registi cinematografici, eccellenti. Ma non credo si tratti di questo. Non credo che in nessuno modo possa essere tradotta online l’esperienza della creazione scenica, del “fare esperienza” con un gruppo piccolo o grande che sia. In nessun modo potrà essere tradotta quella comunità che si riunisce in un dato giorno in un dato momento per condividere quell’esperienza. Per questo penso che la società teatrale non dovrà mai abdicare dalla sua funzione, anche se significa per molti rischiare la pelle. Letteralmente.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Mimmo Conte:

L’arte, il teatro, può decidere di ritagliarsi uno spazio a sé stante e staccato dal resto, può intrecciarsi fortemente con la realtà, può creare un varco: una via ancora non battuta e inaspettata. Questa qualità, questa possibilità l’arte la avrà sempre. Gli strumenti per confrontarsi con il reale sono gli strumenti che l’arte ha da sempre.

Noi possiamo limitarci ad osservare. A definire l’epoca che viviamo un’era di post-verità; e che quindi quello che prima facevamo noi: spostare l’attenzione, far credere nell’impossibile, forse giocare con l’animo umano, ora è una funzione “diffusa”. Addirittura possiamo parlare di post-logica, quando tutti i piani dei discorsi fatti, della realtà vissuta e raccontata, prendono una strada ancora inesplorata e inafferrabile; e qui ne usciamo sconfitti, se pensiamo che il nostro compito sia di avere un “compito specifico”. Credo che un artista non debba preoccuparsi di occuparsi di qualcosa di preciso. La funzione arriverà se e deve arrivare, e magari l’artista se ne accorgerà. L’artista seguirà il suo bisogno, parlerà attraverso quel bisogno. La realtà, se per realtà intendiamo il modo di vivere e pensare delle persone, cambierà sempre: l’artista, nel profondo, parla attraverso il “sentito”, crea una strada sotterranea con chi gli sta intorno, scava nel buio un passaggio che nessuno vede e probabilmente non vedrà mai. Questo l’arte ce l’ha e ce lo avrà sempre, questa è la prima possibilità che è data ad un artista per toccare il reale.

neoliberismo

A NON PIÙ COME PRIMA: NEOLIBERISMO E TEATRO

Quella da Coronavirus non è la prima pandemia che ci troviamo a vivere. L’AIDS è molto più silenziosa, più letale, vive tra noi da vari decenni, ma facciamo in modo di ignorarne la presenza. Questo nuovo virus al contrario si è imposto all’attenzione del mondo con prepotenza, obbligandoci a trincerarci nelle nostre case. La principale causa del suo manifestarsi è la medesima del suo ben più letale predecessore e di altri virus dai nomi inquietanti apparsi negli ultimi anni come Ebola, Marburg o Nipah: l’economia neocapitalista sfruttando e invadendo ogni tipo di nicchia ecologica ha portato a una contiguità senza precedenti tra animali e l’uomo favorendo il fenomeno dello spillover e delle conseguenti zoonosi. La globalizzazione ha poi permesso il rapido viaggiare di questi scomodi passeggeri in ogni angolo del pianeta.

Questa pandemia, al contrario dell’altra, era attesa da anni e non solo dalla scienza (Obama ne parlava già nel 2014 cfr. https://www.youtube.com/watch?v=pBVAnaHxHbM ). Al suo apparire ha avuto come principale effetto di bloccare intere nazioni tra cui il nostro paese dove è esplosa con particolare virulenza e dove tutte le attività economiche e sociali hanno rallentato, quando non si sono del tutto fermate. Uno degli ambiti che più si sono trovati spiazzati e colpiti è stato sicuramente il comparto delle arti dal vivo e non solo per la lontananza dal proprio pubblico ma soprattutto per la precarietà degli artisti e dei lavoratori, a cui pochi negli anni hanno cercato di porre rimedio. Lo spettacolo dal vivo si è trovato impreparato, ma è anche senza un piano per affrontare non solo l’emergenza del momento ma soprattutto l’azione di ricostruzione. Tutt’al più spera di ripartire al più presto e questa è solo l’idea con meno conseguenze dannose.

La stasi obbligatoria a cui tutti siamo stati costretti poteva far pensare a un momento di riflessione e di dialogo costruttivo per cercare di risolvere i problemi che erano già presenti, per tentare di emendare gli errori e le aberrazioni esistenti del sistema produttivo-distributivo, invece si è assistito a risposte per lo più frettolose, dettate dall’emozione quando non a dolorosi silenzi. Da una parte dunque il ricorso da parte di molti artisti, così come di molti enti, dello streaming, ora abbracciato anche dal Ministro Franceschini, e che pone molte questioni a un’arte come il teatro che nasce in Occidente con agorà. Di questo non parleremo in questa sede in quanto il discorso che vogliamo fare è di altra natura, anzi semmai è la dimostrazione dell’infiltrazione di un pensiero che tende a considerare la cultura niente più che un prodotto di consumo al pari di un detersivo. Dall’altra un ricalendarizzazione degli appuntamenti e dei festival come se questo tempo che ci è imposto non esistesse e tutti non si aspettasse altro che riprendere da dove eravamo rimasti. Tutto questo dimenticandosi che la crisi del comparto non è nata con il coronavirus ma era persistente da anni, e che il presente lockdown ha semplicemente fatto esplodere.

Da lungo tempo i continui tagli alla cultura, l’incertezza sui pagamenti delle istituzioni, la colonizzazione da parte dell’economia degli obbiettivi propri dell’arte, la precarietà del lavoro (quando è riconosciuto), e l’incapacità degli artisti come degli operatori di sentirsi parte di un unico sistema (per difendersi si necessitava di posizioni unitarie e come dice Fredric Jameson :«una cultura veramente nuova potrebbe venire alla luce soltanto attraverso la lotta collettiva per la creazione di un nuovo sistema sociale»), da tempo tutto questo incide sulla capacità del sistema teatro di rinnovarsi veramente, di costruire e implementare strumenti veramente utili agli artisti, veri protagonisti insieme al pubblico, di tutti i nostri discorsi e senza i quali nessun sistema teatro sarebbe possibile.

Questa crisi quindi da dove deriva? Da mancanza di idee degli artisti, dalla loro incapacità di rispondere alle sfide del Ventunesimo secolo? Oppure sono venute meno alcune condizioni a partire dal sistema educativo, per passare alla produzione, distribuzione e promozione? Non sarà che lo spettacolo dal vivo è malato perché le condizioni economiche imposte dal neocapitalismo sono difficilmente compatibili con un’attività che prevede: incertezza, fallimento, mettersi in dubbio, ricercare l’incerto e l’improbabile e tempi di produzioni lunghi e riflessivi?

Partiamo dagli obiettivi del capitale: per accrescersi deve potersi accumulare e parte di quell’accumulo deve essere reinvestito, ma vi sono a volte degli ostacoli che possono provocare delle crisi. David Harvey a tal proposito dice: «Esaminando il flusso del capitale attraverso la produzione si scoprono sei potenziali ostacoli all’accumulazione, che il capitale deve superare per potersi riprodurre: 1) l’insufficienza di capitale monetario iniziale; 2) la penuria o le difficoltà politiche nell’offerta di lavoro; 3) l’inadeguatezza dei mezzi di produzione, anche a causa dei cosiddetti “limiti naturali”; 4) l’assenza di tecnologie e forme organizzative appropriate; 5) le resistenze o le inefficienze nel processo lavorativo; 6) l’assenza, nel mercato, di una domanda sostenuta da una capacità di spesa». Non sarà difficile leggendo queste parole applicarle a una qualsiasi produzione teatrale e constatare: spesso se non sempre è sotto finanziata alla partenza, i lavoratori che vi partecipano sono precari e non tutelati, la mancanza di fondi comporta la conseguenza che i mezzi spesso siano inadeguati al progetto, così come le tecnologie applicabili e infine per un’efficiente organizzazione del lavoro si dovrebbe assumere e coinvolgere altre figure professionali le quali per lo più non possono per mancanza di fondi essere chiamate a collaborare. Da ultimo la questione di domanda e offerta: per rispondere ai requisiti di bandi e finanziamenti abbiamo sul mercato un’iperproduzione che porta più prodotti di quanti se ne possano consumare. All’artista si chiede di produrre almeno un’opera all’anno imponendogli inoltre la necessità di un risultato certo. Conseguenza: troppe opere da smaltire e in più l’artista, per soddisfare in maniera certa il pubblico e gli operatori, è indotto a ricercare la via facile e consueta ripercorrendo stilemi già accolti, sentiero che ha la controindicazione di annoiare e non rispondere veramente alle mutate esigenze.

In conclusione: eravamo malati ben prima del conclamarsi del coronavirus.

David Harvey

Il teatro si configura come una non-economia che chissà per quale motivo il capitale vuole sia gestito e trattato come un’azienda nonostante non abbia minimamente gli stessi scopi; una non-economia le cui maggiori immissioni di capitale sono elargite da benefattori e solo in parte dal pubblico. Tali “mecenati” pubblici e privati, essendo dei donatori volontari, impongono delle regole a chi vuole ottenerli e i loro scopi spesso divergono da quelli dell’arte e forse sono proprio questi obiettivi che oggi ci hanno condotto a una impasse.

Marc Fisher nei suoi scritti sostiene che una delle caratteristiche principali della nostra cultura è quella di essere affetta da hauntologia, dal verbo inglese To Haunt che indica sia l’abitare che l’essere infestati da fantasmi. Con il termine “rubato” a Derrida il filosofo e critico inglese, intende uno stato emotivo sospeso tra il “non più” e il “non ancora”, uno spazio abitato da fantasmi in cui per lo più si è incapaci di immaginare un futuro. Causa principale di questo sentimento o disposizione d’animo è per Fisher appunto il neocapitalismo. In questo passo spiega bene perché: «i sentimenti predominanti nel tardo capitalismo sono paura e cinismo. Emozioni del genere non ispirano né ragionamenti coraggiosi né stimoli all’impresa: coltivano semmai il conformismo, il culto delle variazioni minime, l’eterna riproposizione di prodotti-copia di quelli che già hanno avuto successo». Questa necessità di immediato riscontro delle proprie azioni a cui segue il conseguente pensiero per cui il fallimento non è proprio contemplato, prevede che la maggior parte dei cosiddetti successi sia in gran parte solo sulla carta e non incida minimamente sulla realtà delle cose (spesso per esperimento chiedo a colleghi e addetti ai lavori chi abbia vinto il Premio Ubu di due o tre anni fa e raramente ottengo una risposta corretta…). Questa tendenza Fisher la chiama Stalinismo di mercato ossia: «attaccamento ai simboli dei risultati raggiunti, più che l’effettiva concretezza del risultato in sé», fenomeno appunto che durante lo stalinismo era all’ordine del giorno.

Marc Fisher

Il problema è che gli obiettivi dell’arte dovrebbero essere lasciati nelle pertinenze di artisti e direttori artistici, in quanto unici e veri competenti nelle questioni che riguardano il proprio ambito, e invece vengono abbandonate nelle mani della politica e, cosa ancor più perniciosa, degli economisti della cultura. Da qualche anno laddove la politica con il suo sistema assistenziale che non premia i migliori progetti ma la sussistenza di un comparto, è venuta meno a causa delle continue crisi economiche (in Italia il 2011 è stato per esempio un anno orribile), il posto è stato preso dalle fondazioni bancarie, salutate dai più come i veri salvatori della patria. Per usare le parole di Alain Badiou :«Si direbbe che è all’economia che è confidato il sapere del reale. È essa che sa». Peccato che, sempre per stare alle parole del filosofo francese, questi signori non sono stati in grado di prevedere i disastri causati, limitandosi a constatarli soltanto in seguito, come chiunque altro.

Alain Badiou

Trattare l’arte come un’azienda, caricarla di obbiettivi quali l’incremento infinito del pubblico come fosse il PIL, vessarla di continui questionari e autovalutazioni assolutamente inutili, è la risposta ai problemi del teatro? Certo nei decenni addietro il teatro non era stato in grado di concepire soluzioni alle male gestioni, al suo proprio sostentamento, a un rapporto solidale e costruttivo con un nuovo pubblico (pensiamo all’ossessione dell’abbonato di cui già parlava Carmelo Bene) ma adottare i metodi del neoliberismo non sembra aver migliorato la situazione. Anzi si osservano sempre più eventi e spettacoli cloni rispondenti più ai parametri e agli algoritmi che ai desideri di chi li realizza e di chi li fruisce. Sempre più spesso si partecipa a festival che si distinguono solo per il luogo in cui si svolgono e per lo spirito con cui vengono gestiti che per i contenuti o per le modalità. E così pure gli spettacoli vengono ad assomigliarsi per argomento o per tipo di interazione a seconda dei parametri scelti dai finanziatori politico-economici senza considerare i reali bisogni di pubblico e artisti. Con bisogni del pubblico non intendo parlare di gusti ma proprio di temi non risolti i quali affliggono una comunità o società. Se fosse solo una questione di gusti basterebbe far scegliere agli spettatori consegnandogli le chiavi della direzione artistica (e in qualche caso qualcuno ci è arrivato vicino).

Per altro il considerare il teatro un azienda dovrebbe almeno comportare che la filiera produttiva distributiva venga implementata secondo metodi capitalisti in modo che l’investitore possa guadagnare e reinvestire. E questo si sa è cosa praticamente impossibile. Nessuno sano di mente pensa di guadagnare un surplus da reinvestire rispetto a quanto speso per la produzione. E questo dai teatri stabili alla piccola compagnia indipendente. Inoltre in qualsiasi azienda il settore ricerca e sviluppo sarebbe uno dei più cruciali invece nel teatro (e con teatro intendo anche la danza o le performing arts) la ricerca è quasi un di più, qualcosa da fare in residenze creative dislocate nel tempo e nello spazio quando ci sarebbe bisogno di continuità e in molti casi autofinanziate dall’artista stesso con la speranza che questo comporti un inserimento nella programmazione.

Tutto questo, in questa sede semplicemente accennato e non approfondito come dovrebbe, evidenzia come l’aver adottato supinamente i metodi del neocapitalismo non abbia in alcun modo migliorato la qualità delle opere e la situazione lavorativa degli artisti per cui sorge spontanea la domanda: perché tutta questa smania di tornare a come era prima? Perché non approfittare della situazione per chiedere alle istituzioni di cambiare marcia e concordare nuove strategie che comprendano i reali bisogni degli artisti? Perché non pensare insieme a soluzioni alternative che siano veramente di condivisione con il pubblico senza cercare risultati facilmente ottenibili nell’istante ma piuttosto attraverso procedure di lungo periodo? E queste famose reti di cui tutti parlano, perché non farle diventare un luogo di co-creazione invece di una forma mascherata di concorrenza gentile (i tanto sbandierati concetti di rete e collaborazione nella ricalendarizzazione sono sfumati totalmente in una totale sovrapposizione per l’autunno facendo i conti senza l’oste, ossia con il legislatore che pare invece orientato a riparlarne per la fine dell’anno)?

A questo punto del discorso mi vengono in mente due scene tratte da due film di fantascienza molto noti: la prima viene da Matrix. Cypher incontra al ristorante l’agente Smith e dice: «io so che questa bistecca non esiste. So che quando la infilerò in bocca, Matrix suggerirà al mio cervello che è succosa e deliziosa. Dopo anni sa cosa ho capito? Che l’ignoranza è un bene», al che l’agente Smith risponde: «allora siamo intesi».

La seconda scena viene da Inception di Christopher Nolan, a quel momento in cui Cobb e la sua squadra sono entrati nella mente di Fisher per impiantargli una nuova idea, che peraltro vuole fargli sgretolare un impero economico monopolistico, e si trovano a scoprire che quella mente è militarizzata e ciò mette in crisi tutto il progetto.

Questi due frammenti di film forse spiegano la mancanza di coraggio di tutti noi: dalla caduta del muro di Berlino ci è stato fatto credere che il capitalismo avesse vinto, fosse il migliore dei mondi possibili e che ad esso non vi fosse e non vi sia alternativa. Ci siamo abituati a questo pensiero il quale impedisce l’attecchire di nuove possibilità. Dall’altra ci siamo abituati alla bistecca che ci veniva elargita. Benché diventasse sempre più esigua, servita fredda e in ritardo ci siamo lasciati convincere che fosse succosa e succulenta seppur insufficiente.

Questo è il momento del coraggio. Dobbiamo scuoterci, prendere la pillola rossa e essere magari pronti a una terribile realtà, ma non ritrarre lo sguardo da una verità: quanto c’era prima era solo un lenta agonia di un sistema incapace di reale rinnovamento e colonizzato da pensieri non propri. Come dice Mark Fisher: «Il motivo per cui focus group e sistemi di feedback capitalisti non riescono nei loro obiettivi, persino quando da lì prendono vita prodotti di immensa popolarità, è che le persone non sanno cosa vogliono: e non perché in loro il desiderio c’è già, solo che gli viene occultato (anche se spesso di questo si tratta); piuttosto, è che le forme più potenti di desiderio sono proprio quelle che bramano lo strano, l’inaspettato, il bizzarro. E questo può arrivare solo da artisti e professionisti dei media preparati a dare alle persone qualcosa di diverso da quanto già le soddisfa; insomma, da quelli che sono pronti ad assumersi un certo rischio».

Milo Rau
Milo Rau

Solo nel prendere coscienza delle nostre reali competenze e delle funzioni proprie del teatro potremo inventare formule nuove e necessarie per noi e per la società o comunità che abitiamo. Smettiamola di parlare di pubblico o di spettatore, cerchiamo il contatto con chi come noi ha vissuto una storia e condividiamo il momento del racconto. Cerchiamo come suggerito dal Gent Manifesto di Milo Rau di far comprendere la necessità di una nuova filiera produttiva che integri creazione, produzione, distribuzione e che renda il teatro un luogo di condivisione vera, un luogo in cui si possa ricostruire l’agorà, dove le persone possano rielaborare le crisi, trovare soluzioni condivise, ed essere veramente una polis. Se non saremo pronti a cambiare non potrà che avvenire quanto ritratto da Laurens Bancroft, il Mat miliardario di Altered Carbon di Richard K. Morgan: «I giovani di spirito, gli avventurosi, sono partiti a stormi sulle astronavi. Sono stati incoraggiati ad andarsene. Sono rimasti i flemmatici, gli obbedienti, i limitati. L’ho visto accadere, e all’epoca ne sono stato felice perché rendeva molto più facile creare un impero. Adesso mi chiedo se sia valsa la pena pagare quel prezzo. La cultura è ricaduta su se stessa, si è aggrappata alle norme per tenersi in vita, ha optato per il vecchio e il familiare».

Letture consigliate:

David Quammen, Spillover, Adelphi, Milano, 2014
Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero Edizioni, Roma, 2018
Mark Fisher, Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, Roma, 2019
Mark Fisher, The weird and the eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018
Richard K. Morgan, Altered Carbon, TEA Libri, Milano, 2018
Richard K. Morgan, Angeli spezzati, TEA Libri, Milano, 2018
Richard K. Morgan, Il ritorno delle furie, TEA Libri, Milano, 2018
Alain Badiou, Alla ricerca del reale perduto, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2016
David Harvey, L’enigma del capitale: e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano, 2011
Fredric Jameson, Postmodernismo: ovvero la logica culturale del tardocapitalismo, Fazi Editore, Roma, 2007
Jean Baudrillard, La scomparsa della realtà: antologia di scritti (comunicazione sociale e politica), Fausto Lupetti Editore, Milano, 2009

Daniele Albanese

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A DANIELE ALBANESE

La venticinquesima intervista de Lo Stato delle cose è dedicata al coreografo parmense Daniele Albanese. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Daniele Albanese fondatore della Compagnia Stalker_Daniele Albanese è coreografo riconosciuto a livello internazionale. Tra i suoi ultimi lavori ricordiamo VON, Drumming, Digitale purpurea I, D.O.G.M.A. Elsewhere, duo con Eva Karczag è il suo ultimo progetto ancora in fase di elaborazione.

D: Qual è per te lapeculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere
efficace?

L’incontro tra spettatore e azione scenica.

La creazione scenica crea questo incontro ed è creata da questo incontro; è efficace quando questo incontro è rinnovato continuamente durante la performance.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative,bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie,festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Credo che un grande problema in Italia sia quello delle produzioni.

Ci sono bandi o situazioni particolari, almeno nella danza, ma una rosa ampia di istituzioni che ‘normalmente’ producono artisti italiani manca.

Senza produzione il produrre spettacoli diventa, ovviamente, complicato.

Credo che i cambiamenti possano solo essere strutturali.

Potrebbero esserci incentivi economici per festival e istituzioni varie al fine di produrre, o meglio ancora dei fondi destinati alla produzione – un ente dovrebbe   riceve un finanziamento con l’obbligo di utilizzarlo per produrre, come sua funzione, o come parte fondamentale delle sue funzioni.

Daniele Albanese
Daniele Albanese Drumming


D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra
loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Il sistema italiano così come è può sopravvivere con la logica degli scambi al fine di fare i numeri richiesti.

Forse togliere o diminuire il potere di queste cifre a vantaggio della qualità artistica sarebbe utile, ma vorrebbe dire ridisegnare completamente il territorio e il rapporto tra artisti e fondi pubblici.

La cultura dipende dallo stato, dalle istituzioni, da ciò che è pubblico, ma il pubblico e le istituzioni si comportano da privati, completamente e soltanto dentro ad una logica di mercato.

Il mercato è ciò in cui ci troviamo ogni giorno, ma il mercato può essere esasperato o avere dei contraltari.

Una logica di mercato portata all’estremo rischia di snaturare l’idea di cultura ed è anche un controsenso perché se di mercato parliamo allora forse dobbiamo parlare di cifre molto maggiori – parlare di mercato ad esempio nella danza contemporanea è una assurdità per le economie presenti, converrebbe fare mercato con altri prodotti.

Inoltre, basti pensare al mercato pornografico, tutto ha un mercato basta che ci sia un contesto adeguato per saper indirizzare il prodotto.

Ma se non cerco solo il prodotto giusto ma voglio la merce perfetta per il mercato in questo preciso momento ( e il momento oggi dura molto poco) posso solo dilapidare un potenziale, come forse è avvenuto con la televisione italiana da Berlusconi in avanti.

I processi di rinnovamento possono solo avvenire se c’è un tessuto connettivo che funzioni e che abbia un ritmo diverso dal ‘massimo profitto minimo sforzo’.

Daniele Albanese
Daniele Albanese


D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere
tra online e offline. In questo contesto quali sono
oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si
certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

La creazione scenica ha lo scopo di alimentare un possibile incontro, fisico sensoriale reale qui e ora.

E’ ripetibile e sempre nuova.

Questa che dico è ovviamente una banalità ma nelle banalità a volte troviamo delle risposte.

La creazione scenica permette la creazione di questa bolla temporale di realtà, un tempo sospeso per ‘vedere’.


D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della
post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Forse la coscienza della molteplicità di piani presenti è una possibile risposta.

Nel passare da un piano all’altro, nel mostrare questi movimenti e passaggi, scarti e cambiamenti logici ed estetici la creazione scenica può mostrare al tempo stesso le ‘cose’ e i meccanismi tra le ‘cose’.