Tommaso Serratore

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A TOMMASO SERRATORE

Per la quarantunesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Tommaso Serratore, friulano di nascita e torinese d’adozione. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Tommaso Serratore è danzatore e coreografo associato a VersiliaDanza e più volte collaboratore di Virgilio Sieni. Tra i suoi lavori recenti ricordiamo: L’esatto Colore del Dubbio, La Leggerezza del Divenire, Passenger_ il coraggio di stare, Mr. Furry.

Tommaso Serratore
Tommaso Serratore Mr. Furry ph: @Andrea Valenti

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

I processi creativi degli autori sono molteplici e soprattutto personali; ognuno trova la sua modalità di approccio ad un tema che può essere più o meno di richiamo sullo spettatore. La particolarità della creazione scenica sta proprio nella capacità dell’autore di esternare il suo immaginario in maniera unica e riconoscibile, portando lo sguardo dello spettatore dentro a una personale visione.

Da spettatore, le rappresentazioni più avvincenti sono quelle che mi coinvolgono non solo per l’interpretazione dei protagonisti, ma anche per la cura di tutta la regia. Luce, suono, azione e ogni aspetto drammaturgico ed estetico devono fondersi all’unisono per rendere spettacolare una creazione.

Qualche anno fa mio padre, all’epoca era un ragioniere cinquantacinquenne, è venuto a vedere un mio spettacolo nel carcere di Teramo. La location e gli interpreti (semiprofessionisti e detenuti) erano sicuramente eccezionali e l’insieme dei mestieri (suono, luce, videomapping) ha trasformato quattro mura di uno spazio grigio e senza immaginario, in qualcosa di magico e possibile.

Mio padre alla fine della performance era commosso in silenzio, senza sapere effettivamente perché. In quella occasione ho percepito l’efficacia di una mia creazione, site specific, facendomi comprendere la responsabilità come autore di dover portare in Teatro quel tipo di suggestioni.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Non so se è corretto definire “evoluto” questo sistema, sicuramente sono aumentate le possibilità, si sono moltiplicati i bandi per accedere a benefici, ma spesso questi si riducono a una rendicontazione economica senza una reale cura, attenzione o investimento sull’artista.

Personalmente posso dire che tutte le esperienze più significative e più durature del mio percorso artistico fanno riferimento a contatti diretti, conoscenze sul campo, scambi tra individui.

La drammatica situazione conseguente al COVID19 sta sicuramente mettendo allo scoperto la realtà del sistema: finalmente gli artisti stanno cercando di fare corpo unico all’emergere delle criticità concrete di un mestiere che presenta una serie di specificità. Superata questa emergenza, i lavoratori dello spettacolo dovranno rimanere uniti per riorganizzare l’intero impianto, dalle scuole di danza al sistema produttivo e distributivo ministeriale, non per sopravvivere, ma per essere riconosciuti come lavoratori e dare dignità a coloro che alla danza hanno dato il valore di una professione. Parlando con alcuni colleghi anche stranieri si è pensato alla necessità di istituire un provvedimento unico europeo in grado di equiparare i titoli di studi, tutelare gli artisti in egual misura, oltre che favorire la mobilità.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Effettivamente gli artisti sono per lo più autodidatti, si fanno da sé, diventando autori, interpreti, videomaker, manager delle proprie creazioni. Ci sono quelli che riescono a mantenere una propria identità intellettuale e quelli che procedono secondo le richieste del sistema distributivo contemporaneo. Sono strategie diverse, scelte che ogni artista è portato a fare. Attualmente i budget di produzione sono minimi e i festival premiano i lavori agili, assoli senza scenografie e con impianti tecnici ridotti al minimo. Tutto ciò uniforma il livello artistico.

In questo momento l’artista si ritrova a doversi occupare più di questioni amministrative e gestionali e meno di ricerca artistica, al punto che gli spettacoli spesso rispondono a una disponibilità economica e non a una necessità comunicativa. Spesso non c’è alle spalle un percorso creativo che va a costruire un messaggio esplicito da condividere con il pubblico. Inoltre questa tendenza sta provocando la scomparsa di figure professionali come quelle di costumisti, scenografi, macchinisti e tanti altri. L’artista continua ad essere il manager di se stesso in quanto, ad oggi, non è sostenibile economicamente avere accanto un manager che provvederebbe al meglio nelle forme contrattuali, mantenendo così separati i ruoli. Ad ogni modo sembra non esserci spazio per gli artisti che cercano un dialogo con gli operatori del settore. Questi, nonostante gli inviti, non si muovono molto volentieri per andare a vedere gli spettacoli degli artisti, se non in contesti a loro dedicati. Mi piacerebbe vedere più operatori e direttori con occhi curiosi nei teatri, penso dovrebbe parte del loro mestiere. Per questo non penso che il sistema si sia evoluto. Si risolve tutto con un bando, un video, con link, quando lo spettacolo dev’essere guardato dal vivo.

L’idea che potrebbe alleggerire gli artisti nel lavoro di comunicazione e promozione dei propri lavori potrebbe essere quella di istituire un albo annuale degli spettacoli prodotti in Italia cosi che anche gli operatori, direttori e critici, possano avere una panoramica completa delle produzioni promosse in tutto il Paese; un documento da redigere ogni anno che include tutte le schede complete degli spettacoli prodotti dalle compagnie italiane nell’arco di 12 mesi. Ciò garantirebbe una visibilità a tutti gli artisti e la possibilità, per i direttori artistici, di manifestare interesse agli spettacoli secondo la mission specifica del festival o della stagione, in particolare in un periodo come questo in cui sarebbe auspicabile sostenere il “made in Italy”.

Tommaso Serratore Passenger ph: Salvatore Insana

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Il Teatro oggi ha perso la sua funzione sociale; è venuto meno, da parte del pubblico, tutto il rituale che si accompagna alla visione: spesso si arriva in ritardo e si scappa al termine, manca quel momento di condivisione tra pubblico e artista che spesso è la parte più gratificante per una persona che crede nel suo lavoro. Siamo nell’era dell’istantaneo, ma il teatro è un’altra cosa. Bisogna concedersi il lusso di prendersi del tempo.

Sicuramente i social network e le varie piattaforme hanno accelerato il processo di uniformità delle poetiche riducendo l’apporto creativo e artistico, collocando l’attenzione su ciò che è più riconoscibile. Il digitale è una bella vetrina, è allettante, può rendere tutto brillante, ma se le aspettative diventano alte, poi la realtà deve corrispondere alle attese.

Per me questo mestiere è artigianale, vivo, materiale. Amo vivere il teatro, allestirlo, costruirlo, inventarlo, disegnarlo con le luci, ambientarlo con i suoni. Il Teatro è una stratificazione di mestieri, è quindi il risultato di tante competenze messe assieme. Lo spettacolo dal vivo coinvolge i nostri sensi, si percepisce la profondità, si sentono i respiri, si godono i vuoti, ci avvolge in una atmosfera unica che di volta in volta crea una nuova empatia.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il processo creativo di un artista trova la sua forza nella realtà in cui vive, che attraversa, che incontra. Non a caso, le diverse correnti stilistiche della danza si riconoscono per ambito geografico, a seconda della realtà in cui si risiede. Un atto creativo è porre l’attenzione su un aspetto della realtà che altrimenti rimarrebbe invisibile; la bellezza di un lavoro sta proprio nel riuscire a trasporre una situazione, un concetto, un pensiero reale inducendo chi osserva a entrare nell’immaginario dell’artista. E’ solo attraverso l’incontro con lo spettatore che la performance rivive la realtà. L’efficacia dell’atto creativo sta nella lettura visiva, nel saper cogliere ciò che c’è di autentico in quello che si vede. In questo campo i bambini sono straordinari, stimolano lo sguardo, i sensi e la fantasia, rendendo possibile ogni visione. Risvegliare quel tipo di sguardo permetterebbe all’adulto di non ricercare sottotesti in quello che vede ma di scendere al concreto prendendo per buono quello che c’è.

Piccola Compagnia della Magnolia

LO STATO DELLE COSE, INTERVISTA A GIORGIA CERRUTI

Per la quarantesima intervista de Lo stato delle cose, andiamo a Torino per incontrare Giorgia Cerruti della Piccola Compagnia della Magnolia. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Giorgia Cerruti è attrice e regista e fonda insieme a Davide Giglio La Piccola Compagnia della Magnolia nel 2004. Tra i lavori di Giorgia Cerruti ricordiamo: Mater Dei da un testo di Massimo Sgorbani, Zelda, Moliere o il Malato Immaginario, Hamm-let, studio sulla voracità.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Penso alla creazione scenica come ad un viaggio, da un punto ad un altro, certa è la partenza, meno l’arrivo, fortunatamente. Si guida. Il viaggio inizia con un gruppo di persone che si attrezzano per gestirlo al meglio. Un gruppo che si trova bene insieme e che ha la sensazione netta che, unendo le forze in un tempo comune, ne possa scaturire qualcosa di utile. Il Noi del gruppo è un’arma a doppio taglio, rischia di essere un grimaldello deresponsabilizzante, laddove invece la creazione scenica rivela le Unità, richiede che ciascun Io sia ricco nell’apporto di competenze specifiche / desideri / bagaglio culturale ad ampio spettro / coraggio per far affiorare il non saputo / audacia per mettere la vita a disposizione / golosi furti artistici per far nascere altro dal furto.

Questo processo è un primo movimento, teso a creare un oggetto estraneo a tutti Noi, ma che – per essere efficace – è Noi.

E qui sorge il secondo movimento che si apre all’Altro me, lo spettatore, nell’incontro con lui in un tempo abusivo, spesso abusato. In termini di efficacia il manufatto che si crea deve riguardarCi.

Per veicolare questo obiettivo molti sono i livelli di incontro possibili, tanti quanti la pluralità dei segni scenici, delle correnti, delle possibilità formali. Ma prima delle forme (bestiacce seducenti che si travestono da identità, quest’ultima essendo invece valore assoluto e ricerca di un’intera vita), c’è un elemento di autenticità del lavoro che permette l’empatia, il riguardo reciproco (spettatore e operai della scena) e la nascita di un altro Tempo che abbiamo voglia di vivere insieme.

Tutto questo processo è naturalmente accidentato e perennemente a rischio di sabotaggi ad opera dell’ego, dell’eccesso di zelo, dell’umiltà mal collocata, della paura di giudicare e essere giudicati. Ma quando il lavoro di tutti riesce – attraverso il suo medium (l’attore, il performer, …insomma chi opera direttamente in scena) – a compiere quel salto vertiginoso dell’anima che trapassa l’involucro corporeo personale per farsi vaso risonante di Noi, allora si è manifestato a metà strada un nuovo mondo, pur temporaneo. Ma chissà che questo nuovo mondo non possa avere strascichi meravigliosamente inaspettati nella vita a seguire, nel giorno dopo, nell’attimo futuro,…il mondo dopotutto è perfettibile, come suggeriva Brecht.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Gli strumenti produttivi esistenti attualmente in larga misura non funzionano, è molto evidente; lo dimostra la sfasatura tra la precarietà economica degli artisti (le compagnie indipendenti) e la mole di manovre affannate e di corta visione che essi possono intraprendere per tentare di produrre un lavoro, di stringere una relazione peraltro sporadica con un teatro. Soluzioni? Proviamo a ragionare lasciandoci orientare dalle nazioni più ispirate, come ad esempio il Belgio o la Francia (sebbene non sia più la Francia di una volta, hélas!) accettando che siamo – salvo poche preziose eccezioni che pur esistono – un paese di direttori senza azzardi, nostalgici e senza visione, succubi di una razionalità novecentesca. Sia chiaro, alcuni lavorerebbero egregiamente sul presente-futuro perché hanno una visione, ma non hanno i soldi per metterla a frutto.

Che fare? A monte bisognerebbe in primis aumentare il danaro pubblico messo sul capitolo produzione. A seguire servirebbe un sistema che privilegi i rapporti di lunga durata. I teatri nazionali, i tric, i centri di produzione potrebbero pensare ad accogliere le compagnie come “associate”, ossia invitate a creare per la durata di tre stagioni (una stagione è già qualcosa ma non investe sul percorso del gruppo, si limita alla tematica o all’attrattiva del singolo spettacolo), o per la durata del mandato del direttore. La compagnia riceve un finanziamento per produrre uno spettacolo nuovo all’anno e presentare due lavori del suo repertorio in stagione; se possibile dispone anche di un luogo in cui provare la nuova produzione, se non in via continuativa almeno per qualche sessione. La compagnia si impegna inoltre a rispettare una serie di accordi stabiliti con la direzione nel rispetto delle reciproche identità: azioni con la comunità locale, incontri con le scuole, percorsi di reciproco scambio con le altre compagnie associate, incontri con la comunità teatrale e con gli spettatori, audizioni sul territorio per creare un’équipe artistica e tecnica mista, dove la compagnia accoglie nel lavoro nuovi elementi. Teatri abitati dagli artisti e dai loro progetti, senza forzature nei tempi, senza atteggiamenti paternalistici di sostegno al figlio bisognoso, in reciproca fratellanza di intenti.

Veniamo alle residenze creative a sostegno delle nuove creazioni…ben vengano se correttamente pagate e inserite in una sana reciprocità di “prestazioni” e necessità. Molto spesso invece – salvo preziose eccezioni che pur esistono e che rappresentano il luogo della ricerca avverabile – per alcuni teatri le residenze sono un modo per costruire a basso costo una stagione (altrimenti impossibile da farsi, perché non dispongono di sufficienti fondi), e la visibilità offerta alla compagnia è l’“occasione”. Diciamocelo… se non accettassimo talune residenze, sovente ridurremmo molto le nostre repliche annuali e il colofone delle nostre produzioni sarebbe troppo magro. C’è insomma un sistema tossico che favorisce la speranza che “da cosa nasca cosa”, ma questo non è un pensiero strutturato, è l’oppio del teatrante, che – sia chiaro – fumo anche io. Non c’è nessun cattivo in questo cortocircuito delle residenze, mancano i soldi pubblici sufficienti, non la progettualità.

Rispetto invece alle Fondazioni bancarie che propongono bandi di sostegno alla produzione non ho un pensiero ancora chiaro mentre ti scrivo. Vorrei comunque richiamare l’allerta sulla necessità tassativa di comitati adeguati alla selezione e liberi nelle scelte. Forse però l’azione più utile per una Fondazione è il sostegno ai luoghi della produzione, affinché sia poi il luogo stesso a strutturarsi al meglio, forte delle sue dirette competenze teatrali e di una visione coraggiosa e di lungo respiro.

Per quanto riguarda invece le Fondazioni per l’arte (mi viene in mente ad esempio il bando New Settings della Fondation Hermès), ritengo che in Italia le numerose fondazioni di questo tipo dovrebbero urgentemente rivolgere un pensiero allo spettacolo dal vivo, strutturando bandi di sostegno alla produzione che accompagnino i gesti creatori degli artisti. L’apporto di questo tipo di Fondazioni potrebbe essere cruciale. Purtroppo anche su questo siamo tremendamente in ritardo rispetto all’Europa.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

La distribuzione è un punto disastroso, almeno quanto la produzione. La mancanza di distribuzione del teatro indipendente (le compagnie di giro) moltiplica le disuguaglianze insinuando l’ipotesi che il teatro sia una professione per benestanti che lo praticano ogni tanto (e a loro va bene così) oppure per furiosi operai della scena che vi si dedicano ogni giorno, replicano ogni tanto e vivono in condizioni di precarietà ormai connaturata (e a loro non va bene così) che limita molte scelte della vita.

Che si potrebbe fare ? A tal proposito mi sembra che il lavoro maggiore vada ancora fatto sui teatri di medie e ampie dimensioni e sui circuiti. Si tratta del teatro degli abbonati principalmente. Sai, sono felice di portare un nostro lavoro in un festival appositamente pensato per esso, con un pubblico ad hoc, ristretto e di origine controllata. Ma sarei ancor più felice di sapere che anche la mia Compagnia può provare a comunicare con una sala di spettatori eterogenei. Questo lavoro deve partire in primis dal ministero che – ad oggi – lavora prioritariamente per mantenere le vecchie roccaforti, non per orientare le nuove generazioni di cittadini-spettatori che verranno. Bisogna invece smetterla di pensare al contemporaneo (terreno d’azione primario delle compagnie indipendenti) come fetta marginale delle programmazioni. Esso deve confluire nella programmazione main stream, deve essere legittimato travasandolo nell’ufficialità di un unico cartellone coraggioso che accetta i contraccolpi numerici dati magari dalla reazione diffidente del target 50/75 anni in cambio di un pensiero più grande sulle conseguenze luminose che sorgeranno a lungo termine. Parlo di conseguenze che forse neanche io vedrò, ma che hanno a che fare con un nuovo umanesimo, una società da rifondare.

E poi – mi rivolgo al Ministero (Enrico conto su di te, trasmetti la missiva) – vi rendete conto che gli scambi tra Stabili e Teatri Nazionali stanno uccidendo il vero grande tessuto di questa nazione, uccidendo la pluralità del teatro di giro e saturando spesso i cartelloni di carrozzoni costosissimi (spesso brutti brutti e montati in due settimane tra sconosciuti) che muoiono dopo due-tre scambi ?

Vorrei vedere dei teatri abitati dagli artisti, dove gli spettatori possono invece seguire il percorso degli stessi, costruendosi i mezzi del giudizio. Viviamo in un paese disastrato, dove la maggioranza degli spettatori ad oggi è formata da analfabeti del gusto, reazionari incattiviti, timorati di Dio, amanti del trash televisivo. I programmatori hanno una grande responsabilità: affidare la costruzione dei cartelloni al gusto attuale del pubblico esteso, pregando il dio consenso, oppure tentare un pensiero eretico che ambisca a ricostruire – nei decenni – il tessuto del paese. Il teatro è anzitutto un servizio pubblico ed è il barometro di una nazione.

Venendo ai Festival, essi necessitano di molti più fondi, per pensare a costruire reti che dialoghino tra loro, in una logica di equilibrio sano tra la conferma dei consueti artisti invitati e il rinnovamento delle presenze. E soprattutto credo che debba partire dai festival italiani la missione di proporre all’estero, presso altri festival, l’operato delle compagnie italiane che accompagnano. Mi sembra che questa assunzione di responsabilità sia urgente: lo immagino proprio come un lavoro parallelo alla costruzione del proprio cartellone; un compito da svolgersi nell’anno per sostenere la contemporaneità italiana nel mondo, oltre il tempo breve del proprio cartellone. I festival sanno molto bene che le singole compagnie questa forza di proporsi singolarmente all’estero non ce l’hanno, salvo sporadici eventi fortunati.

Venendo invece alle Compagnie, porto un ricordo personale: circa dieci anni fa il telefono squillava e molto, la compagnia concordava – senza troppo mercanteggiare – un cachet e presto fatto si costruivano i calendari. Negli ultimi cinque, sei anni il tempo speso al computer (tentando di fare bandi, telefonando a tizio e caio, sperando in una mail, stilando budget ovviamente falsati, riscrivendo lo stesso progetto per sei diversi soggetti con le parole giuste) è immane, triplicato; superiore al tempo dedicato al palco, alla ricerca, all’errore artistico, all’ambizione di lasciare il proprio segno in questo tempo. Forse non sono più i tempi storici per sopravvivere come artisti esclusivamente come compagnia di giro? Forse. Ma fare il proprio teatro è un’idea, una vocazione, un bisogno. Irrinunciabile per molti. E allora oggi c’è maggior bisogno di figure specifiche che – in strettissima e confidenziale comunione con gli artisti della Compagnia – si occupino di tradurne il pensiero in progetti, costruendo relazioni fruttuose e genuine, proponendone l’operato con competenze specifiche e in costante aggiornamento. E con uno sguardo mirato sull’internazionalizzazione.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Non mi interessa troppo definire il teatro rispetto alla distinzione tra reale e virtuale, mi sembra che non gli si faccia un favore. Lo definisco invece rispetto alle sue regole, che stanno nello spazio squisitamente concreto della realtà dove ogni attimo è unico, come un bacio, e sta sulla soglia di un viaggio che non finisce mai. Altra cosa sono i metodi e le forme che desideriamo attraversare: per esempio la nostra nuova produzione farà dialogare l’eresia pasoliniana con il teatro d’attore e la video-art, tesseremo quindi piani di comunicazione tra reale e virtuale. Sono gli attrezzi che servono al nostro lavoro. La sostanza dell’incontro tra noi e il lavoro però non cambia, permane analogica, e si disfa nel suo farsi per poi rifarsi. E la stessa cosa avverrà tra noi e gli spettatori quando ci incontreremo.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Per ragionare sulla tua domanda non parlerei di vita, sono dentro ad essa, fino ai piedi, non posso parlarne se non per opposizione alla morte.

Ma parlerei di realtà.

Se penso ad un reality (…giusto un secondo ! ) penso al bisogno di reale di chi guarda.

Se penso al teatro posso pensare alla realtà di tutti, che comprende i vivi, i morti, gli alieni che verranno, Molière che sputa sangue, l’accoppiamento dei cervi, i calli di mia madre, il parrucchino di Trump, le mani insanguinate di Lady M., il cinema di Lynch, Giordano Bruno al rogo, i malati in terapia intensiva,…

Questo materiale – per organizzarsi in arte – si prepara con fatica, tempo, mezzi tecnici. Si ricrea, è artificioso ovvero voluto. È finto.

Un reality invece è banalmente falso. Orribilmente falso. Ingiuriosamente falso.

Quando guardiamo alle tante forme in cui il teatro può tradursi (cito a titolo di esempio Ostermeier, Milo Rau, Danio Manfredini, Binasco, Korsunovas, Latella, Pippo Delbono, Peeping Tom,..) non dobbiamo – io credo – interrogarci sulla presenza o meno dell’ artificio quale elemento a garanzia dell’autenticità-bontà della creazione o – peggio ancora – a garanzia delle persone che la traducono in scena. L’artificio è infatti condizione essenziale dell’Arte.

Dobbiamo interrogarci invece se quel lavoro si confronta col sentire dei suoi contemporanei, con i loro sentimenti, se comunica con la scia luminosa della vita. In questa prospettiva credo che la magia (non intendo la poesia ma la magia, la puzzolente magia del teatro, la fregatura per la quale tutti i bambini fanno ohhhhhh) sia forse la cosa che oggi non può più essere efficace.

Pensiero finale: sto scrivendo oggi 4 aprile 2020 da casa mia, chiusa come tanti, cercando di ripararci dal coronavirus, mentre altri purtroppo muoiono senza nessuno accanto e senza saluto. Auguro al nostro mondo che dall’arte del futuro prossimo nasca un Guernica di Picasso. E mi auguro che noi tutti sapremo rifondare la realtà del “dopo” costringendoci a ripensare un modello di vita-lavoro che operi contro le disuguaglianze e accolga l’ Altro me con gentilezza.

Liberté-Égalité-Fraternité.

Giorgia Cerruti

Piccola Compagnia della Magnolia

Carmelo Alù

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A CARMELO ALÙ

Per la trentanovesima intervista incontriamo Carmelo Alù. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Carmelo Alù è regista e attore diplomato all’Accademia Silvio D’Amico. Tra i suoi lavori ricordiamo: Filottete di Letizia Russo, Cani Morti di Jon Fosse, Un anno con tredici lune di Reiner W. Fassbinder.

D. Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

A febbraio sono andato alla Galleria Borghese di Roma. Bisogna prenotare e spesso il proprio turno arriva dopo qualche settimana, costa 20€ ma chiaramente ne vale la pena. È stato curioso perché la mattina ero stato al Bioparco e avevo ancora dentro le solite riflessioni che mi palleggiano in testa ogni volta che vedo animali in gabbia: starà soffrendo, è giusto, sì ma guarda che la natura selvaggia è molto crudele, qui stanno bene, no qui non hanno scelta, però sono belli da vedere, ah si viene qui anche a S. Valentino? Insomma soliti dubbi amletici. Quando due ore dopo mi sono ritrovato dentro il museo ho pensato: certo che tutte ‘ste povere opere d’arte, stipate così, dentro ‘sti stanzoni, chiuse in cattività. Sarà giusto? Aveva ragione Giorgio Manganelli quando diceva che i musei sono lager di squisitezze? Togliere a un’opera d’arte il suo contesto non significa negarne il suo profondo senso? L’Apollo e Dafne per esempio: Bernini ha finito di scolpirlo quando non aveva ancora trent’anni (e non ha partecipato a nessun bando under30) ed era un lavoro commissionatogli dal cardinale Borghese. Qui la storia si fa interessante: il cardinale aveva bisogno di cacciare dai suoi giardini i ragazzini che scavalcando le mura presenti allora andavano lì per, più o meno, innocenti evasioni d’amore. Sulla base del gruppo scultoreo c’è scritto: «Chi amando insegue le gioie della bellezza fugace riempie le mani di fronde e coglie bacche amare.»
Insomma non bastava un cartello: NON SONO AMMESSI SPORCACCIONI.
Ma scherzi a parte il punto è proprio questo: un artista, uno dei più grandi al mondo, scolpisce un episodio della mitologia greca a favore di un messaggio moralistico. L’Apollo e Dafne era possibile ammirarlo proprio in mezzo al giardino, era lì che trovava la sua ragione di esistere. Certo, anche al centro di un museo fa la sua figura per carità. L’opera è talmente grande da superare il messaggio. Ma vale la pena lo stesso oggi ringraziare l’invidioso cardinale Borghese.

La mia risposta a qual è la peculiarità di una creazione scenica efficace quindi non può che essere il contesto, il presente vivo, vivissimo, che ne ha permesso la nascita. E il teatro è solo presente. Non esiste senza la presenza, umana prima ancora che scenica. Di cosa parla il contesto in cui viviamo? Cos’è che devo intercettare io artista prima degli altri cittadini? Ci servono ancora Edipo, Amleto, il S. Giovanni di Caravaggio, Apollo e Dafne di Bernini, la musica di Mozart, le poesie di Quasimodo? Tutti sappiamo dentro di noi che la risposta è sì. Tocca a noi artisti però ambire al loro stesso valore.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Letizia Russo, che in Italia è una vera fuoriclasse della drammaturgia, mi ha insegnato che se una scena non funziona la colpa quasi sicuramente è della scena precedente. Dico questo perché per rispondere a questa domanda c’è bisogno di fare un passo indietro: il problema principale del nostro settore non è strettamente produttivo, semmai è quello della carenza di domanda.

Senza volermi improvvisare economista mi sembra che proprio le “esigenze effettive” siano la vera causa delle nostre difficoltà. Gli italiani non vanno a teatro. La situazione non cambia da anni ormai e non sembra destinata a cambiare, e del resto come potrebbe?

Il resto dell’Europa non è più agile e più efficiente, ha semplicemente più spettatori. E la loro “campagna abbonamenti” parte dalle scuole.Le nostre aule invece continuano a puzzare di morto e non perché gli insegnanti siano vecchi ma perché “guardiamo al futuro!”.

Drogati da un’idea stucchevole di futuro già alle scuole medie i bambini devono scegliere a che indirizzo iscriversi alle superiori; i cinque anni che precedono il diploma poi sono ormai un iter formale il cui unico scopo è quello utilitaristico dell’accesso all’università. Il teatro, così come l’arte intera, con il suo piacere del “qui e ora”, la passione per il presente, i lunghi tempi di creazione, i voli che solo l’immaginazione permette, è sempre più lontano dalle dure esigenze dell’uomo contemporaneo.
Per migliorare la situazione esistente c’è solo una possibilità: chiedere alla politica di migliorare la scuola. Chiederlo tutti, chi è genitore, chi non lo è, chi si è diplomato cinquanta anni fa, chi trenta, chi dieci, chi l’anno scorso. Il problema teatrale è un problema culturale e l’amore per la cultura hai il diritto di impararlo a scuola, quando sei bambino. Non possiamo sempre sperare nella vocazione. Tutti hanno il diritto di essere artisti. A patto che se ne assumano anche i doveri.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Qualche anno fa ho avuto la fortuna di recitare al Teatro Greco di Siracusa. In compagnia c’era anche Ugo Pagliai che spesso, vista la cornice mitica, raccontava a noi giovani la gioia che prova ogni volta che lo chiamano a lavorare alle rappresentazioni classiche in Sicilia. Gli aneddoti pescati dal baule dei ricordi erano tutti legati al piacere di ritrovarsi in un festival estivo ogni volta sorprendente. Il suo racconto dell’arrivo in Ortigia del coro delle baccanti, quell’anno interpretato da un gruppo di danzatrici creole, era da un lato velato di nostalgia per una Sicilia anni ’60 rurale e con le strade non ancora asfaltate e dall’altro era colorato di battute politicamente scorrette ma senza dubbio vitali. La dimostrazione che ancora una volta tutto ciò che siamo lo dobbiamo ai greci. Potremmo definire le Grandi Dionisie come il primo grande festival teatrale estivo. Il teatro è nato lì, in un festival. I primi allestimenti scenici degli agoni drammatici avvenivano in primavera, quando il mare era di nuovo navigabile e Atene era piena di gente, del posto e straniera. Insomma una cartolina del passato che descrive però la nostra realtà teatrale nei mesi di maggio, giugno e luglio. Mi dilungo sull’importanza dei festival cosiddetti estivi perché sono una tradizione mediterranea, sacra e antichissima. Ed è bello pensare che anche oggi il teatro nasca lì.

Partiamo col dire che in questi festival tendenzialmente si sta bene. Anche i più cinici e i più polemici sono inclini a rilassarsi, a lavorare bene e a divertirsi. I meno socievoli sono tranquilli, per loro la sofferenza si limita a un massimo di tre giorni. Il pubblico non solo è eterogeneo ma è anche curioso. Paga meno rispetto al resto dell’anno e a volte esperisce il teatro o la danza solo in quell’occasione e quasi sempre l’anno successivo ritorna. Ai festival ci si conosce come artisti (“mi serve la sala per 4 ore e gli spettatori devono entrare uno alla volta”, “do you speak English?”), come umani (“io sono vegetariano”, “io mangio solo arancini”, “io sono agnostico”, “io buddista”), come cittadini (“io ho preso la disoccupazione ad aprile”, “io non so fare la differenziata”). I festival sono gli unici contenitori culturali dove è il territorio che lavora sul teatro e non viceversa: Castiglioncello, Dro, Bassano del Grappa, Spoleto, le Colline Torinesi, Palazzolo Acreide, Santarcangelo, Asti, Castrovillari, Radicondoli, ogni anno ne scopro uno nuovo. Tutti hanno qualcosa di unico, un’identità chiara e riconoscibile. Lo spettatore sa benissimo chi e cosa lo aspetta. Quando parliamo di canali efficienti personalmente parliamo solo dei festival. A loro bisogna puntare. La distribuzione degli spettacoli è una sana contraddizione del teatro che è e resterà sempre principalmente un luogo. Senza smettere di affrontare il problema della distribuzione che oggettivamente esiste bisogna pure accettare che nessuna riforma ci farà mai felici: sogno di portare il mio teatro in giro per il mondo e sogno di portare spettatori di tutto il mondo a vedere il mio teatro. Nel frattempo colleziono aneddoti e ricordi sui festival che mi hanno ospitato.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

“Il malato immaginario” trovo che sia un titolo perfetto per questa domanda.
Ovviamente i clisteri e i raggiri subiti dal povero Argante non ci azzeccano niente. Dovendo parlare però del rapporto tra teatro e reale/virtuale credo valga la pena riscrivere, o meglio rileggere, la grammatica del titolo di Molière: abbiamo un problema con la nostra immaginazione, oggi è l’immaginario il malato e non viceversa. Già con il mito della cecità di Stesicoro gli antichi greci avevano centrato il punto. Pare che il poeta del VI secolo dopo aver scritto un’elegia contro Elena di Troia, accusandola ovviamente di essere infedele e unica responsabile dei dieci anni di guerra, abbia perso la vista. La riacquisterà solo dopo aver riconosciuto la realtà: la donna che ha tradito Menelao scatenando la guerra per antonomasia non era Elena bensì il suo simulacro, la sua raffigurazione, l’eidolon (termine da cui deriva il nostro “idolo”).
Stesicoro perde la vista poiché è già cieco, viene punito per non aver saputo riconoscere la differenza tra la realtà e la sua immagine, proprio come noi non sappiamo più distinguere reale da virtuale.

In questo contesto il teatro ha quindi nuovamente il compito di renderci meno ciechi rispetto a prima del nostro ingresso in sala. È proprio il teatro, il suo essere “dal vivo”, che dovrebbe venirci in aiuto in questi tempi. La percezione di ciò che ci circonda attraverso la virtualità si è lentamente sostituita alla realtà, la situazione ci è palesemente sfuggita di mano. Ma l’artista, in tutti i campi, può ancora una volta fare la differenza: continuare a osservare il reale con gli occhi dell’immaginazione; il teatro osi il valore dell’arte, sia senza filtri, senza inquadrature, senza dirette e trasmissioni virtuali. Tornare a una funzione ambiziosamente profetica del nostro lavoro. L’artista come uomo capace di interpretare un indizio di qualcosa che avverrà.
Lo so, il compito è difficile ma il rischio è quello di perdere un altro mondo già inquinato e malato da tempo, quello dell’immaginazione.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

La verità non interessa più a nessuno. Se Pilato fosse vissuto ai nostri giorni non si sarebbe preoccupato di chiedere a Cristo «Cosa è la verità?». E certo fa specie che il nostro paese, così ampiamente cristiano e cattolico, abbia smesso di porsi questa domanda. Dopotutto non è lo stesso Gesù a dire di essere via, verità e vita? Ad ogni modo, chiunque neghi la verità accetta l’abolizione di qualsiasi forma di pensiero critico. Se poi sei anche credente accetti la negazione del Figlio di Dio, quindi la pena oltre a essere terrena è pure eterna. Uomo avvisato mezzo salvato.
Superare la verità, vivere appunto nella post-verità significa deificare lo stato delle cose, una pericolosa azione da cui già Gramsci nei suoi Quaderni del carcere ci ha messo in guardia: tutto ciò che esiste nella nostra società è naturale che esista. Ebbene, questo concetto che sta alla base della post-verità è semplicemente falso. Trovare un’alternativa alla realtà che ci circonda è possibile e chi dice il contrario è solo un codardo.

Il teatro, nel suo essere arte, è ancora il luogo del coraggio, perché nell’epoca della post-verità l’attore ci restituisce il diritto allo scandalo, il diritto alla verità. È scandaloso oggi vedere il lavoro di certi nostri attori e certe nostre attrici: la cura che hanno per il loro vissuto mai ostentato eppure pudicamente esposto a ogni replica; il loro scandaloso parlare di trama e personaggi, l’attenzione che mettono alla drammaturgia, testuale o gestuale non fa differenza; la paura beata di chi in quel buio prima dell’inizio si riconosce fragile e antieroico. E tutto questo accade nonostante il pensiero mainstream della post-verità li vorrebbe invece preda di mode, seppure prestigiose, come quella dell’attore/performer. È un’idea scorretta perché cerca di superare il concetto di attore, un post-attore quindi, a discapito sia del teatro sia dell’arte performativa. Inoltre questa pericolosa moda contribuisce sempre di più ad allargare il divario, tutto italiano, tra gli attori che lavorano in teatro e quelli che lavorano in cinema e tv. Questo negli anni ha permesso un impoverimento di tutti i settori, soprattutto del cinema, dove i film d’autore di qualità sono un’eccezione. E a proposito di qualità, risulta ancora dispersa la tv italiana. L’orizzonte d’attesa nei confronti dell’arte si è così rimpicciolito permettendo l’esplosione su scala nazionale del pensiero semplicistico rispetto al pensiero critico, del populismo e del pressappochismo.
Questo è il reale con cui ogni artista dovrebbe rapportarsi.

«L’arte deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più ornamento e imitazione ma è di messa a nudo, di smascheramento, di ripulitura, di scavo, di riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza. È soprattutto nell’arte che si concentrano nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di un dire il vero che accetta il coraggio e il rischio di ferire.

La verità a qualunque costo.» Michel Foucault, 1984.

sua maestà l'algoritmo

PERICOLI DIGITALI: L’IMPERO DEI NUMERI E SUA MAESTÀ L’ALGORITMO

:«Conterò poco, è vero – diceva l’uno ar Zero – Ma tu che vali? Gnente: proprio gnente». Così diceva Trilussa. Eppure uno e zero, da poco e “gnente”, son diventati tutto. E non solo loro. Ci siamo messi tutti a dare i numeri: quelli dei morti, dei sopravvissuti, dei disoccupati, dei nuovi poveri. Numeri freddi, solidi e sfacciati, privi di pietas, senza storia né dolore, buttati lì senza riguardo alcuno. E poi i numeri teatrali, quelli che contano ancora meno di “gnente”: quelli del pubblico, delle repliche, dei borderò, e ora, alla fine di questa corsa senza ragione, i numeri delle visualizzazioni. A questi numeri brutali ci inchiniamo convinti dal pensiero economico che sian tutto: «con dati sufficienti, i numeri parlano da soli», diceva Chris Anderson su Wired.

È l’imperio del pensiero computazionale, il dominio assoluto del pensiero algoritmico portato dal neocapitalismo digitale che ha infestato ogni campo dell’umano agire patire. Abitiamo il tempo dalla Datafication, dell’ingegnerizzazione della vita quotidiana, un mondo del numero in cui non esiste alcuna etica, se non quella della crescita.

Nei Principi di organizzazione scientifica del lavoro del 1911 Frederick Taylor aveva già impresso il marchio ai successivi sviluppi di questo pensiero. Ecco i suoi sei assiomi nella loro adamantina evidenza: unico e principale obiettivo del lavoro è l’efficienza; il calcolo tecnico è sempre superiore al giudizio umano; il giudizio umano non è affidabile; la soggettività è un ostacolo; tutto ciò che non si può misurare non esiste o comunque non ha valore; gli affari dei cittadini devono essere guidati da esperti.

Frrederick Taylor

Tale assiomi non solo sono stati implementati nel capitalismo fordista ma rinnovati e riadattati nell’industria digitale neocapitalista, pensiamo ai lavoratori di Amazon, umani robotizzati e spinti al limite della nevrosi, e in particolare da Google che tutto quantifica e per cui i dati sono tutto. Inoltre tali principi hanno sconfinato in ambiti all’economia distanti, per esempio quello artistico, e sono divenuti i veri dittatori di un pensiero culturale dove, in tutta teoria, dovrebbe annidarsi una piccola scintilla di opposizione al pensiero unico e fideistico nell’onnipotenza del numero.

Ma i numeri dicono davvero sempre la verità? Sono veramente questa potenza oggettiva e inconfutabile? Davvero quello che è zero oggi, inqualificabile, merita di non essere nemmeno indicizzato? Vogliamo davvero creare e abitare un mondo culturale la cui logica algoritmica favorisce l’omologazione e le echo chambers piuttosto che il confronto con il diverso e l’inaspettato?

L’impero dei numero è governato da molti sovrani dal potere assoluto: gli algoritmi, enti oramai semidivinizzati ma per niente neutrali e super partes. Sono creati dagli uomini e si portano dietro i perenni umani difetti. Come dice Kelly McBride del Paynter Institute: «gli algoritmi sono pezzi di codici che prendono decisioni e in ogni decisione che prendono danno la priorità ad alcune informazioni rispetto ad altre» e ancora :«Le aziende che scrivono gli algoritmi possono, nella migliore delle ipotesi, contribuire alla diminuzione dello spettro delle idee e dei punti di vista, tralasciando alcune informazioni e dando la precedenza ad altre, Nella peggiore, invece, possono usare i codici per filtrare alcuni pezzi di informazione e così arrivare a influenzare l’opinione pubblica». Il caso Cambridge Analytica avrebbe dovuto far risuonare più di un campanello d’allarme.

Brittany Kaiser, nella sua biografia in cui racconta l’esperienza in Cambridge Analytica, illustra con chiarezza i principi del capitalismo digitale basato sul modeling, tecnica scientifica che serve a prevedere il comportamento degli individui, sull’analisi dei dati (che continuiamo a fornire gratuitamente ogni giorno scegliendo un film, scrivendo un post o cercando un indirizzo su Google maps), e sul microtargeting comportamentale, attraverso cui si confezionano messaggi specifici creati per certi tipi di personalità attentamente individuati tra gli utenti. Gli effetti di queste operazioni non sono paragonabili alla semplice pubblicità in cui a furia di vedere una bottiglia di Coca Cola ci vien voglia di comprarla, qui si tratta di prevedere il comportamento degli individui, di orientarli e indurli a compiere determinate scelte. Creare insomma le condizioni che portino il pubblico a comportarsi come ci si aspetta che facciano. O diano il loro voto a questa piuttosto che quella fazione politica. Questo è già avvenuto per importanti elezioni, mettendo a rischio e in dubbio il concetto stesso di democrazia.

Brittany Kaiser

Vogliamo veramente importare questo pensiero e tali processi in campo culturale? Se qualcuno pensasse che sia un pensiero complottista o esagerato invito a considerare che uno dei motti di Cambridge Analytica era: la soluzione è nel pubblico, pensiero che, guarda caso, si sente ripetere negli ultimi anni come un tormentone da qualsiasi ente finanziatore in ambito culturale, sotto la bandiera audience engagement o audience development.

In questi mesi di lontananza dai teatri e dai palcoscenici, le arti dal vivo si sono precipitate nel mondo digitale, unico luogo pronto ad accogliere ciò che era proibito in presenza. Festival digitali, residenze digitali, corsi digitali di regia, di recitazione e di danza, performance digitali e infine riunioni fiume su zoom e similari. Tutto ciò nell’emergenza è avvenuto senza ponderare le conseguenze. E poi dall’esternazione del Ministro Franceschini su una Netflix della cultura, e che ora pare diventare realtà, ecco ancora il gran dibattito vertere più sulla sua utilità e modalità che sulle sue conseguenze, eppure queste sono dietro l’angolo e guarda caso hanno a che fare con i numeri, l’imperio dell’algoritmo e l’etica, se mai ci fosse, del neocapitalismo digitale.

La piattaforma: ecco un’altra parola chiave offerta come fosse un luogo di incontro aperto, accessibile. Queste sulla rete non sono elementi neutri ma si configurano come incarnazione di una nuova forma di politica. Le piattaforme sono dei possedimenti privati che tendono a configurarsi come dei monopoli e quindi come ecosistemi chiusi. Chi possiede la piattaforma non solo sceglie le regole del gioco ma controlla dati e accessi degli utenti, nonché i contenuti da trasmettere. È quello che tecnicamente si chiama Gatekeeper, ossia qualcosa di simile al kafkiano guardiano posto a sorvegliare la porta della legge. Come dice Nick Srnicek: «le sviolinate sull’era dell’accesso sono una retorica priva di significato che oscura la realtà della situazione: le piattaforme stanno diventando proprietarie delle infrastrutture della società».

Nick Srnicek

Ancora una volta il principio che apre la porta sono i numeri. E poi c’è sua maestà l’algoritmo il quale suggerisce all’utente contenuti simili, o relazionati a quelli scelti da altri che come lui hanno visto quel contenuto. Come dice Massimo Airoldi: «la cultura risultante rispetta i canoni di significazione statistica stabiliti dal codice software, l’algoritmo registrerà e riproporrà le correlazioni più forti, nascondendo quelle statisticamente non significative». Quindi la vista dalla cima dell’Everest è meno bella perché l’hanno vista in pochi? O se oggi Grotowsky facesse la prima de Il principe costante a Woclaw sarebbe ininfluente perché pochi spettatori ne avrebbero l’accesso?

A essere sotto attacco e a rischio di estinzione sarebbero, secondo questo principio e come nel film Divergent, i cosiddetti Outlier, tutti coloro che non seguono il modello statistico, la cultura così normalizzata dalla production of prediction. E ad affondare nell’oceano scuro e profondo della rete tutti coloro che non riescono a trovare le catene di parole chiavi giuste o a investire sulla visibilità. Il numero infatti vive dell’immediato pronto a essere sostituito da un nuovo numero il giorno successivo. Nessun pensiero sull’impatto a lungo termine di un’azione civile, artistica o politica, solo risultato immediato prima di essere sommersi da un altro contenuto inneggiato da migliaia di like.

Ma oltre a questo, a frammentarsi sarebbe una comunità che dal vivo, benché ridotta ormai a riserva indiana, (e questo nonostante a teatro ci vada molta più gente che negli anni ’90), era comunque presente. Ma cos’altro aspettarsi dall’etica e dalla pratica del neocapitalismo? Come afferma il sociologo Todd McGowan: «la società contemporanea ci sollecita a massimizzare il godimento individuale. Il godimento privato diventa di importanza primaria mentre a recedere è l’importanza dell’ordine sociale nel suo insieme». Il neocapitalismo corrode il concetto di comunità per accedere all’individuo ben più facilmente misurabile, manipolabile, e controllabile ai fini del mercato.

La cultura tutta e il teatro soprattutto, nato luogo da cui si guarda, nato agorà civile laddove si dibatte i temi laceranti della società, non dovrebbe provare a resistere a questa tendenza? Non dovrebbe provare a recuperare, anche clandestinamente, i luoghi suoi propri, luoghi di incontro e ritrovare le sue funzioni, invece di soggiacere alla logica del produrre a qualsiasi costo e su qualsiasi mezzo qualunque sia il sacrificio? Bastano pochi mesi di inattività per mettere in crisi la presenza?

Nel racconto di fantascienza di Ted Chiang dal titolo Respiro leggiamo questo pensiero: «se la durata di un universo è calcolabile, non lo è la varietà della vita generata al suo interno. Gli edifici che abbiamo edificato, i quadri che abbiamo dipinto, la musica e i versi che abbiamo composto […] niente di tutto questo avrebbe potuto essere predetto, perché niente di tutto ciò era inevitabile». Non lasciamo dunque che i pensieri e le funzioni dell’arte siano decisi da economisti e informatici. Gli artisti sono i massimi esperti del loro campo, sappiano scegliere il meglio per la loro arte, perché le scelte che stiamo facendo oggi condizioneranno il nostro futuro. Quando si adotta uno strumento questo difficilmente verrà abbandonato. Facciamo dunque in modo che serva gli scopi dell’arte e non di sua maestà l’algoritmo, figlio del capitale. C’è un bellissimo racconto breve di Kafka che vorrei mettere a chiusura di questo fugace ragionamento. Si intitola Piccola favola e forse ci induce a riflettere sul momento attuale e sulle conseguenze derivanti dalle scelte affrettate

:«Ahi!» disse il topo «il mondo diventa ogni giorno più angusto. Prima era così ampio che avevo paura. Continuavo a correre ed ero felice finalmente di vedere a sinistra e a destra in lontananza delle pareti, ma queste lunghe pareti si corrono incontro l’un l’altra così rapidamente che io sono già nell’ultima stanza, e lì, nell’angolo, c’è la trappola nella quale cadrò».

«Dovevi solo cambiare la direzione della corsa» disse il gatto e lo mangiò».

Piccola bibliografia

Nick Srnicek Capitalismo digitale, Luiss University Press, 2017

Andy Bown Capitalismo e Candy Crush, Nero Edizioni, 2019

Brittany Kaiser La dittatura dei dati, Harper Collins Italia, 2019

Daniele Gambetta, antologia a cura di, Datacrazia: politica, cultura algoritmica e conflitti ai tempi dei big data, D Editore, 2018

James Bridle Nuova era oscura, Nero edizioni, 2019

Manfred Spitzer Solitudine digitale, Corbaccio, 2016

Michele Sinisi

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A MICHELE SINISI

Per la trentottesima intervista incontriamo Michele Sinisi. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Michele Sinisi è attore, più volte finalista al Premio Ubu, e regista, fondatore del Teatro Minimo. Tra i suoi lavori ricordiamo Amleto, Riccardo III, Edipo, il corpo tragico. In questi giorni di quarantena è stato protagonista con la sua famiglia del progetto Decreto quotidiano.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

Quando inizio un lavoro cerco sempre di non distogliere lo sguardo dall’azione per me principale: raccontare all’altro. Data la funzione comunicativa del linguaggio che adopero per raccontare, in questa attenzione fondo il senso politico del fare teatro. La creazione scenica è il risultato di questa tensione e tutto ciò, che progressivamente inserisco nel corpo del racconto (nel rapporto drammaturgico con Asselta, così come nel rapporto scenografico con Biancalani), diventa utile a quell’obiettivo. Il rapporto con gli artisti interpreti dei miei spettacoli anche si sviluppa sulla condivisione logica (umana e artistica insieme) del processo, che si crea in gruppo. La presenza dell”altro” è già registrata nel percorso di allestimento, anche nel senso fisico del termine. Spesso sono presenti spettatori in platea durante le prove perché non ci si ritrovi poi ad aver immaginato uno spettatore inesistente.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Il teatro, lo spettacolo dal vivo, inteso in senso popolare non può che essere contemporaneo e in questo dovremmo accettare con coraggio di volgere lo sguardo creativo sempre fuori dal teatro, perché questo accade nei paesi europei di cui invidiamo i sistemi teatrali. E questo lo intendo in senso contenutistico e formale per lo spettacolo in sé, ma anche per la comunicazione che accompagna lo spettacolo dalla sua generazione progettuale sino all’ultima replica. La società civile fuori è spesso più all’avanguardia di quello che accade sul palco, così il rito finisce per non essere più tale. Spesso fraintendiamo il senso del teatro accampando slogan quali “difendere il teatro”. Non esiste un teatro da difendere, non è mai esistito un linguaggio e un’identità da salvaguardare. Nel suo essere funzionale, il teatro nasce nell’esigenza che una comunità ha di riconoscersi tale, coesa, tesa, inquieta, e che corre a teatro per riequilibrarsi grazie alla catarsi che incontrerebbe in quello spazio. Non esiste un brevetto del teatro e le istituzioni teatrali dovrebbero, nella multidisciplinarietà, registrare continuamente la loro posizione spaziale, il pensiero, ed essere quindi concretamente in ascolto per accogliere i progetti artistici dei teatranti. Sembrerebbe una provocazione ma per me non lo è, il teatro, in quanto forma d’arte per eccellenza, non deve illuminare o insegnare, deve divertire – verbo, parola di cui si ha molta paura e che nulla ha a che fare coll’intrattenere.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

In generale quando un artista ha qualcosa da dire, ha l’ascolto di un pubblico disponibile ad assistere alla sua opera, credo che primo poi finisca per venir fuori, lo si nota, per una sua opera specifica o con tutto il suo percorso. In generale, credendo il teatro (malgrado la sua volontà) specchio della società in cui abita e prende forma, quello che accade nel mondo teatrale italiano descrive pedissequamente il gap civile rispetto agli altri paesi europei. Il livello di emancipazione in generale riflette in teatro una mancanza di fuoco sull’opera in sé. Le voci (come quella della critica) che potrebbero segnalare esiti artistici da programmare e le strutture produttive (che dovrebbero invece sostenerle economicamente) finiscono per inquinare la relazione con lo spettatore creando mancanza di fiducia col pubblico. Da qui nasce e si sviluppa progressivamente lo scollamento col pubblico, il rito perde di concretezza, non ci sono più esperienze di cui essere testimoni fino alla conclusione presuntuosa per cui “i giovani non hanno la sensibilità per andare a teatro” e “i vecchi hanno gusti datati”. Il rito perde di concretezza fino a non corrispondere più alla funzione di cui sopra. Continuiamo a chiamare teatro qualcosa che non lo è più. Da anni. Questo fraintendimento riguarda il Teatro così come la sanità, l’economia, l’istruzione (con cui il teatro dovrebbe cominciare a dialogare strutturalmente per creare il pubblico del domani), lo stato sociale in generale. Una precisazione, da quando lavoro con Elsinor, così come quando avevo la compagnia Teatro Minimo, ho sempre girato coi miei spettacoli: monologhi o spettacoli di compagnia con 5-14 attori. Magari non tutta la critica è voluta venire a vedermi, oppure non ha potuto perché nel budget di produzione non ho mai avuto viaggio vitto e alloggio per tutti i giornalisti. Qui siamo nel campo delle scelte personali che contribuiscono a creare il sistema.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Per ciò che posso dirti io, il teatro parte da un presupposto: la presenza umana dell’attore, che deve esser lì. Poi accanto a lui, tutto ciò ch’è fuori e accompagna l’essere umano nella vita quotidiana, dovrebbe o potrebbe accompagnare l’artista sul palco (lo spazio scenico). In un momento come quello che stiamo vivendo (sto scrivendo in pieno periodo di quarantena), non potendo incontrarsi di persona fino a dicembre 2020 (così s’ipotizza) si ha di fronte una doppia possibilità: stare fermi o sperimentarsi in un altro linguaggio, che non è più teatro, e ch’è rappresentato dalle uniche vie possibile alla comunicazione: la radio, la rete… con la convinzione che quando ci ritroveremo in teatro il pubblico ritornerà a vederci più numeroso. La cosa è molto semplice e forse per questo per molti di noi spietata e difficile da digerire.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Il reale nel corso della storia dell’umanità, nel suo stesso concepimento da quando l’uomo ha cominciato a riflettere se stesso, a ragionare, ha mutato continuamente la sua identità. Essendo il nostro specchio, il reale è cambiato sempre e gradualmente in base a quello che abbiamo scoperto di noi stessi. Il reale è direttamente legato a quello che noi percepiamo, a ciò che gradualmente cambia in noi e intorno a noi. Quindi, a mio avviso continuiamo ad imitare la natura e l’artificio, l’arte come fuoco della tecnica, continua ad essere necessaria per imitare il mondo intorno a noi e dentro di noi.

Compagnia Ragli

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A COMPAGNIA RAGLI

Per la trentasettesima intervista de Lo stato delle cose torniamo a Roma per incontrare la Compagnia Ragli. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Compagnia Ragli si occupa di teatro civile e sociale ed è stata fondata da Rosario Mastrota, Dalila Cozzolino e Andrea Cappadona. Ospite dei importanti festival e più volte finalista al Premio Hystrio ha prodotto numerosi lavori tra cui: Salve Reggina!, L’Italia s’è desta, Panenostro, Ficcasoldi, Border Line.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La risposta ad entrambe le domande è: il gruppo di lavoro. Attori, registi, scenografi e tecnici fanno parte della creazione artistica allo stesso modo. Ognuno accresce lo sviluppo con la propria tecnica trasformandola in arte. L’efficacia è corale e appartiene a tutti. Il pubblico stesso deve far parte di questa squadra. Non è importante che comprenda tutto immediatamente ma è essenziale che sappia interrogarsi. Le risposte non sempre servono. Ogni percorso di creazione scenica richiede, a mio avviso, un concatenarsi di relazioni essenziali che determinano la calibratura necessaria, per chi partecipa a questo rito, a soddisfare le personali urgenze

di ciascuno. La propositività determina l’evoluzione. Poi ci sono le storie, indispensabili altrettanto. Noi (Compagnia Ragli) lavoriamo in team, la maggior parte del tempo la dedichiamo all’esplorazione delle possibilità che possono derivare dall’allestimento. Attori e regista si muovono in relazione costruttiva per spianare il campo a scenografi e tecnici. Il risultato finale (lo spettacolo) seppur definito e strutturato ci riserva sempre diversi sentori e diverse reazioni del pubblico. Infatti è sempre costruttivo cogliere alcune letture recepite da un punto di vista inatteso. È capitato, per esempio, durante alcune repliche de L’Italia s’è desta. Al Nord c’era una diversa reazione rispetto al Sud, un tema arcaico come il rapimento (nello spettacolo raccontavamo, mediante l’escamotage della fake news, che la ‘ndrangheta rapisse la Nazionale di calcio a due mesi dall’inizio dei Mondiali) ha visto ilarità spensierata nelle repliche lombarde e timore e imbarazzo in quelle in Calabria.

Compagnia Ragli
  1. Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Istituire una valutazione delle proposte artistiche più pluralista. Libertà e verità dovrebbero essere metro di giudizio inequivocabili, invece troppi vincoli o cavilli tecnici rendono alcuni percorsi più complicati se non impossibili. I tecnicismi non possono valutare l’arte.

In alcuni stati esteri c’è meno settorialismo e all’Artista vengono concesse più libertà per sviluppare l’idee o la poetica, senza il vincolo di parametri o celle di Excel. In alcuni casi di questo processo produttivo italiano si punta alla celebrazione di “nomi” anziché “attori” o di “firme” anziché “storie”. Le residenze creative dovrebbero essere la normalità, un processo del sistema produttivo Italiano, come le fabbriche. Festival e concorsi idem, come Sanremo (in senso di importanza mediatica). Per migliorare il processo, sempre a mio avviso, potrebbe essere funzionale educare la gente al Teatro e alla sua importanza, non all’ammirazione della vetrina che può scintillare se in scena ci sta “quello famoso della tele…” . Da due anni, in collaborazione con Dasud e ÀP Accademia, ci occupiamo del Premio Mauro Rostagno, una manifestazione per spettacoli a tema diritti umani. Non valutiamo su criteri matematici, valutiamo l’energia dedicata dalle Compagnie alla trattazione di temi così delicati. Il nostro riconoscimento (1000 euro) è un atto simbolico per sostenere quelle volontà e legittimarne il coraggio.

Macbeth aut idola theatri, Dalila Cozzolino
  1. La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Non può esserci la distribuzione di un prodotto (creativo) se il prodotto stesso è reputato inferiore a quello di altre arti. Bravi o meno bravi non dovrebbe dirsi degli artisti. Professionisti o non-professionisti nemmeno. L’artista è libero. Chi può dire se è più bravo Van Gogh di Picasso o Carmelo Bene di Vittorio Gassman? Di certo non chi organizza, non chi gestisce la Cultura, non il numero dei C1.

La Critica si avvicina a qualcosa che sta in mezzo a questa decisione ma la missione è troppo nobile, delicata, ardua. Ce ne sono tracce in Italia, per fortuna.

Io cambierei la parola distribuzione con opportunità. Opportunità per la gente di vedere linguaggi di artisti differenti. Le tournée, che bellissimo ricordo di un periodo di grandi sperimentazioni; si arrivava un po’ dappertutto, certo non tutti erano noti ma tutti riuscivano a moltiplicare le opportunità.

  1. La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Per coerenza con quanto detto prima non posso dire cosa è unico e irripetibile e cosa, invece, è sciatto e da evitare. I linguaggi adoperati mutano, è naturale, l’arte si adegua, racconta il presente, vede il futuro e parte sempre dal passato. Uno spettacolo “da remoto”, senza corpi, con occhiali tridimensionali o proiezioni olografiche non andrei a vederlo, ma è un gusto personale. Ma è un’espressione anche quella, non so se è moda o impigrimento o addirittura necessità ma è qualcosa. Tranciare una tela o appendere una banana è un’idea artistica, una visione, esattamente come dipingere la Monna Lisa o creare Amleto. Però io mi ricorderei più nitidamente l’ebbrezza procurata dal monologo della non-follia di Ofelia, di uno spettacolo interattivo; per quel tipo di emozioni posso anche andare in sala giochi o usare una Playstation. Il teatro è fatto di carne. L’unicità della replica (ossimoro per antonomasia) è reale. Seppur ciclico, il teatro vive ogni sera di differenze: emozioni, tecniche, sociali. Il teatro è vivo per questo motivo: perché respira come le persone.

Panenostro, Andrea Cappadona
  1. Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Post -verità, per me, è sinonimo di immaginazione. Io posso immaginare un cavallo con un corno sulla fronte, posso disegnarlo, posso anche mettergli le scarpe e farti credere che esista nel mio garage e ogni sera mangia sushi fino a scoppiare. Ma non è dell’unicorno che ti sto parlando ma di un politico. Trasfigurare la Natura è un’arma innocua che detiene ogni regista, si parte da lì non c’è scampo. L’oggi e il racconto del reale potrebbero sfiduciare se raccontati solo in senso distruttivo, caotico o ipercritico. L’oggi è lì, fuori, alla portata di tutti, raccontarlo in maniera naturalistica non è teatro, diventa reportage. La critica al reale, in senso democratico, spetta alla politica, quella vera. Il teatro non è politico. La resistenza è un atto umano, la guerra è un atto politico. Spero di aver reso il concetto.

Noi (Compagnia Ragli) ci occupiamo di un teatro civile che non ha l’ambizione di educare o modificare le percezioni di nessuno. Proviamo a idealizzare alcuni atti reazionari o di opposizione di personaggi realmente esistiti e li reinventiamo nello spirito dei nostri personaggi. A volte, durante le ricorrenze per esempio, quando si ricorda qualcuno che è stato ucciso o che non c’è più, la pietà prende il sopravvento. Ci si impietosisce, si commemora, si ricorda solo l’affezione spesso dimenticando l’azione. Noi proviamo a scivolare via dal sentimentalismo e, immaginando altri mondi possibili, ricamiamo storie eccezionali a vite o personaggi invisibili.

  • l’atto che ci interessa investigare. La possibilità. La forza che ognuno ha. A volte emoziona tantissimo, altre volte interroga, spesso alimenta discussione, altre volte non piace. Sono solo quattro esempi di possibilità di reagire, ce ne sono altre. Questo ci interessa scoprire.

Uno dei nostri personaggi, Carla, de L’Italia s’è desta, per esempio, vive nel mondo reale ma è capace di vedere molti più mondi possibili, nella sua meravigliosa folle libertà.

Dellavalle/Petris

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A DELLAVALLE/PETRIS

Per la trentaseiesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Thea Dellavalle e Irene Petris della Compagnia Dellavalle/Petris. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

La Compagnia Dellavalle/Petris nel 2013 realizza Un ballo (adattamento da Irène Némirowsky), nel 2014 Suzannah di Jon Fosse e nel 2018 con lo spettacolo The Dead Dogs dal testo di Jon Fosse ha vinto la seconda edizione di Forever Young. A febbraio 2020 collabora allo spettacoloEuthalia della scrittrice Luisa Stella che debutta allo Spazio Franco di Palermo.

D: Qual è per voi la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La creazione scenica nasce sempre in un incontro tra più soggetti artistici; per quanto si possa progettare, predisporre e programmare, l’idea o il desiderio che la muove deve incarnarsi e attraversare diversi materiali, ma per primo il materiale umano, è soggetta al tempo e allo spazio e deve essere aperta a quello che l’incontro può portare e aggiungere, anche attraverso la crisi. Spesso accade, si rivela in modo imprevedibile e lo sforzo maggiore è rendere riproducibile l’atto dell’accadere. Le condizioni ideali sono quelle in cui si resta incerti ma liberi di affrontare il rischio con la consapevolezza che non si è mai soli, e questa non-solitudine include ovviamente il pubblico. E’ opportuno non dimenticare che le condizioni ideali per manifestarsi hanno bisogno di tempo, di corrispettivi materiali. E di alchimia.

Dellavalle/Petris
Euthalia
Dellavalle/Petris ph: @alessandro d’amico

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Nonostante i molti sforzi tesi a far funzionare il sistema, a rendere virtuosi i circuiti esistenti, ad aumentare le occasioni di produzione spesso la sensazione che prevale è quella di una grande fatica, anche per chi ottiene  risultati e riconoscimenti,  non solo per chi procede in direzione ostinata e contraria. L’eccezionalità del momento presente, lo stop forzato, ha rivelato in modo crudo il quadro di fragilità e purtroppo anche di storture che con fatica si teneva insieme. Nella “normalità” ci si muove a tutti i livelli in un contesto sempre precario, di incertezza che si ripercuote e riproduce dal grande al piccolo e che per tanti coincide con uno sforzo esistenziale nel tentativo di conciliare scelta artistica/lavorativa e sopravvivenza. Potremmo dirci che una crisi permanente è una condizione ideale: estremamente fertile e auspicabile in campo artistico dove può portare a risultati straordinari. Ma questa visione porta con sé un’ambiguità e in parte anche il rischio di un isolamento. Il fascino effimero dell’Arte del teatro non dev’essere scusa per non affrontare aspetti concreti, deve essere in confronto diretto con ciò che accade, parte di un contesto. Le difficoltà e anche le soluzioni si collocano quindi in un ambito più generale che non bisogna perdere di vista; servirebbe un maggiore investimento nella cultura, non solo in termini economici, né tanto meno retorici, ma un cambio di visione che restituisca dignità al lavoro culturale e artistico (ma forse in questo momento al lavoro in generale) e interesse e fiducia nel pubblico. È la percezione della cultura e del lavoro culturale che più ci distanzia dagli altri paesi europei con tutto ciò che in concreto questa percezione porta con sé: diritti dei lavoratori, garanzie economiche, dignità, un concetto di valore differente, non immediatamente monetizzabile. Per lo specifico teatrale sarebbe importante che l’orizzonte della progettualità artistica e della programmazione potesse includere tra le opzioni la scommessa e il fallimento, la possibilità di assumersi dei rischi per sostenere un’idea, per dare spazio al nuovo e per promuovere una fruizione che non sia solo a scopo di intrattenimento. E, sulla spinta anche di questo momento in cui la rappresentazione è negata o comunque “non libera”, dare spazio, dignità e diffusione alla distribuzione delle idee e sostegno a tutta quella parte di lavoro e ricerca che precede lo spettacolo.

Dellavalle/Petris
Dellavalle/Petris Dead Dogs

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

La distribuzione fino a ieri è stata questione misteriosa. Altre figure possono meglio di noi suggerire e individuare soluzioni pratiche di miglioramento della situazione presente, e su queste figure, sulle nuove visioni, bisognerebbe poter investire. Una distribuzione che funziona apre alla possibilità che uno spettacolo incontri più pubblico, che parli a un maggior numero di persone, che si confronti con diverse realtà ma c’è bisogno di un approccio di sistema. Possiamo analizzare il contesto in modo critico, individuare i punti deboli ma gli strumenti per risolverli non si possono trovare guardando solo al settore della distribuzione che continua ad oscillare tra instabilità, se troppo influenzato dai meccanismi di mercato, e fissità, quando preorganizzato (blindato) al momento della programmazione artistica (contestualmente alla scelta di un titolo ma prima della produzione vera e propria). Ci sembra, per esempio, che i limiti che tu evidenzi nella tua domanda contengano già in sé possibili risposte: rendere più permeabili i circuiti esistenti, dotare i festival di maggior forza economica, creare nuove reti aperte al mercato internazionale, ma anche dare vita più lunga agli spettacoli abituando il pubblico al repertorio. Forse occorrerebbe incrociare un po’ le logiche, farle comunicare tra loro per creare una proposta di correttivi efficaci al decreto ministeriale che tanto peso ha nell’orientare la politica teatrale. Tralasciando le splendide, fortunate e virtuosissime eccezioni, che, per fortuna, esistono ma tuttavia non bastano, ci si confronta spesso con situazioni paradossali: proprio le realtà più coraggiose e aperte e che promuovono il nuovo diventano i tuoi primi creditori o la prima causa di un debito che aumenta perché mancano delle risorse per pagare i cachet, non hanno abbastanza pubblico, o posti a sedere per garantire un incasso. Alcune logiche non dipendono solo dalla riforma del FUS. Molto dipende da noi: il nostro agire è sostenibile? a che punto smette di esserlo, a spese di chi? In Europa, in Francia per esempio, cosa cambia? Non crediamo che sia tutto rose e fiori, non siamo  sicure che la distribuzione funzioni effettivamente meglio. Ma ci sono più tutele. Se lo spettacolo debutta e non fa repliche, l’artista accusa il danno morale ma meno quello materiale: “c’est l’intermittance messieurs-dames”, e non è una piccola differenza. In assenza di tutele si alimentano circoli viziosi. Questo era vero fino a ieri ed è emerso adesso con forza drammatica. Siamo in un tempo sospeso in cui nessuno sa quale sarà il teatro futuro da distribuire, a chi e come… ad oggi non sappiamo neanche se ci sarà…, non sappiamo niente ma, anche ammesso che si tratti di una bolla, l’idea di un ritorno alla normalità non è poi così rassicurante, se la normalità “restaura”, se il ritorno al teatro spegne gli interrogativi. Anche la normalità va risignificata, occorre essere attenti, prendersi il tempo di pensare, non farsi troppo spaventare. Il thatcheriano “There is no alternative”, va per la maggiore in ambiti ben più estesi e rilevanti di quello teatrale, ma questo tempo che ha sovvertito le nostre abitudini ci ha insegnato e ci insegna che non c’è niente di immutabile. Quando il ritornello, che ha il sapore di un alibi, si sente risuonare nei pressi del palcoscenico è preoccupante. Proprio noi che ci vogliamo occupare di cultura e di arte, non possiamo rinunciare a immaginare e a creare deviazioni, quelle mutazioni del codice genetico che portano al salto evolutivo.

Dellavalle/Petris
Suzannah Bruna Rossi ph:@riccardo salari

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Il teatro per come lo conosciamo è un’esperienza senza filtro, un incontro senza schermo. A teatro il nostro essere presenti entro il limite del corpo nello spazio e nel tempo, circondati dal confine sensibile della pelle, non è vissuto come un limite, possiamo fare a meno delle protesi tecnologiche che ci fingono più veloci, efficienti e potenti di quanto non siamo, possiamo essere uomini e basta. Possiamo ricordarci che essere uomini basta. Un buon promemoria. A cui secondo noi è importante non rinunciare.

Questo non vuol dire che non si possano sperimentare altre forme e altri mezzi che mettano in discussione le abitudini. Il vincolo del presente può essere un’occasione se dà spazio ad una vera ricerca, se la sperimentazione è guidata dalla curiosità verso i mezzi, gli artisti e il pubblico, se, a partire da elementi base, presenza, relazione, sguardo, distanza, si pone in forma di domanda non se vuole essere risposta frettolosa, automatica e univoca per sostituire un’esperienza al momento non possibile. Verso che orizzonte vogliamo guardare?

Dellavalle/Petris
The Dead Dogs _ luca mammoli irene petris giusto cucchiarini federica fabiani ph: @andrea macchia

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Al di là delle forme o delle stilistiche, dei vari ismi, che sono poi nomi che diamo alle esperienze per raccoglierle e catalogarle, il teatro è in azione nel reale. Indipendentemente dal tema che sceglie è nel presente perché rivolge domande a un pubblico che vive nel presente e che riporta ciò che vede e sente a teatro alla propria esperienza. Agisce nello scarto, a volte sottile a volte abissale, tra il reale e il rappresentato; in base alle scelte di linguaggio puoi giocare con questa distanza che può tendere all’infinito senza che i due piani si possano escludere o tendere ad annullarsi senza che possano coincidere davvero. Gli strumenti variano di volta in volta ma ogni lavoro artistico continua a godere dello statuto speciale della rappresentazione: in teatro si può fare tutto, per finta, per davvero.

Vincenzo Albano

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A VINCENZO ALBANO

Per la trentacinquesima intervista andiamo a Salerno per incontrare Vincenzo Albano, direttore artistico di Mutaverso Teatro, finalista lo scorso anno al Premio Rete Critica nella categoria progettualità/organizzazione.

Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità della creazione scenica sta nel dare una forma definita e tangibile a un “abbandono romantico”, dell’uomo nei confronti del mondo, che esiste prima di ogni verifica di rappresentabilità e allo stesso tempo di ogni rappresentazione. Necessita però di diventare “comunicazione”, cioè di renderci a nostra volta osservatori privilegiati di qualcosa che spesso ci appartiene, pur se offerti nell’altrove di un palcoscenico o di una pagina bianca. Diversamente, almeno per quel che penso, l’autonomia artistica diventerebbe solo autoreferenzialità creativa. Va ricreata un’abitudine al teatro a partire da chi lo fa e lo propone. In quest’ultimo caso, e parlo come direttore artistico di Mutaverso Teatro, facendo scelte attente e consapevoli.

Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Il denaro pubblico si spreca, senza contarne l’uso privatistico di quanti al contrario sarebbero chiamati ad agire nell’interesse collettivo, ad ascoltare le istanze di chi rende realmente vivi i territori. Se mi chiedi cosa è possibile fare per migliorare la situazione esistente io partirei intanto col sottrarre del denaro da un po’ di casse, favorendo azioni piccole, periferiche, e demolendo carrozzoni ed eventifici. Risposta di pancia, ma aderente agli umori di questo momento.

La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Parlerei degli spettacoli che non girano perché manca la volontà di farli girare, perché una volta andati in scena sono già morti, perché vengono proposti a cifre irragionevoli; parlerei di spettacoli che potrebbero girare la penisola ed essere accolti da una moltitudine di sale medio piccole, in grado di formulare proposte virtuose eppure non considerate congrue. Tutto è sempre troppo poco, molto ti è reso inaccessibile, a molto altro ancora non puoi manco pensarci, ma altrove sai che è a incasso. Condivido con alcuni colleghi la spiacevole sensazione di un mercato che sembra diventi “rionale”. Se mi chiedi quali soluzioni adottare non saprei, ma ipotizzare intanto una maggiore trasparenza sui cachet è sbagliato? Applicare su di essi un maggiore controllo? Lo chiedo, perché avanzare proposte è qualche volta estenuante e deprimente. La mia è una riflessione, magari insensata, certo non una risposta, anche perché l’argomento è complesso tanto per gli artisti quanto per gli operatori. A prescindere, resto sempre dell’avviso che distribuire uno spettacolo non debba essere una caccia alla replica. Personalmente, da operatore, rifuggo questo tipo di solleciti o invadenze.

La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Con i mezzi della contemporaneità il teatro può avere sì una relazione, a volte anche artistica e drammaturgica, esperienziale, ma credo solo come cassa di risonanza di un messaggio specifico e della sua antica e immutata liturgia. Proprio perché anacronistica, la funzione del teatro, come tempo dell’ascolto e dello sguardo, oggi più che mai ha una sua portata rivoluzionaria.

Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Penso ad un rapporto prismatico, attraverso cui è possibile guardare la vita quotidiana e normale da una prospettiva multiforme, reale o irreale che sia. Il tempo di questo sguardo è un avventuroso e immaginifico viaggio in uno spazio dell’anima ancora incontaminato, dove il realistico e il fantastico, l’ordinario e lo straordinario, il concreto e il visionario, restituiscono possibilità inesplorate e inattese, o forse non ancora nate, tanto all’artista che ne avverte la necessità, quanto allo spettatore che poi concede fede al suo racconto. Penso a un senso della realtà mai disgiunto dalla saggezza del sogno, anche al limite della rappresentabilità scenica. Non parlerei in primis di strumenti, piuttosto di una propensione emotiva alla meraviglia, tanto dell’artista, quanto, appunto, dello spettatore.

Alba Porto

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA AD ALBA PORTO

Per la trentaquattresima intervista de Lo stato delle cose torniamo a Torino per parlare con Alba Porto, regista e attrice della compagnia Asterlizze Teatro. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

I lavori più recenti di Alba Porto come regista sono Arte di Yasmina Reza con Christian La Rosa, La bella e la bestia, scritto insieme a Giulia Ottaviano per il Teatro Stabile di Torino, e Something About you con Matilde Vigna.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La peculiarità della creazione scenica è quella di confrontarsi con la problematicità dello stare al mondo rendendo “vivi” pensieri, sensazioni ed emozioni tramite l’accadimento. Quest’ultimo per verificarsi ed essere registrato ha bisogno di un pubblico che ne sia testimone e, più in generale, la creazione scenica – che è spettacolo dal vivo – non è nient’altro che il tentativo di creare ad ogni performance questo accadimento cercando una connessione e scambio con il pubblico.

Il pubblico quindi è l’ elemento fondamentale affinché essa risulti efficace e, poiché nasce da un interrogativo che riguarda l’uomo,  si rivolge a una comunità che diventa destinatario imprescindibile cui riportare la propria ricerca. Credo che la creazione scenica, per essere efficace, debba in primo luogo imparare a parlare a una comunità con sguardo sincero e tagliente se necessario.

Yasmina Reza
Arte di Yasmina Reza regia Alba Porto

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Credo che un modo per migliorare la situazione esistente possa essere rimettere al centro l’importanza dell’artista. E cioè, che le istituzioni diano la giusta importanza agli artisti – che sono capaci di produrre un beneficio, forse non quantitativamente misurabile ma tangibile – pianificando strategie per sostenerli.

 Festival e bandi a  favore degli under 35  rappresentano sicuramente una una buona opportunità, grazie alla quale io e Asterlizze, la compagnia teatrale per cui lavoro, abbiamo ottenuto appoggio e riconoscimento. Mi riferisco al Bando Ora! della Compagnia di San Paolo e ad alcune possibilità di visibilità dedicate a giovani compagnie e offerte da realtà torinesi come (TST, TPE e Festival delle Colline). Tuttavia questi sostegni, che rappresentano un’occasione di visibilità e un sostegno produttivo, non sono sufficienti per garantire la possibilità a una compagnia teatrale di occuparsi realmente di produzione e più in generale di ricerca.

I requisiti per avere i sostegni ministeriali inoltre sono lontani dalle possibilità delle piccole compagnie – ci siamo accorti in questi giorni di emergenza come molte compagnie restino fuori anche dai parametri dell’Extra FUS e che non vi è una reale conoscenza delle peculiarità e differenze del settore -. Bisognerebbe quindi rivedere i parametri secondo le necessità reali e le differenze, attuando una politica di sostegno che si prenda carico anche delle più piccole e giovani realtà – che spesso sono quelle più attente nei confronti dell’attualità che le circonda – . Si potrebbe pensare a luoghi affidati gratuitamente ad artisti, affiancati da figure professionali che si occupino di valorizzarne l’ operato.

Da qui in avanti inoltre bisognerà pensare a una ripartenza che possa contenere i danni causati dalla pandemia dimostrando una maggiore collaborazione e cura. Mi riferisco a un rinnovato dialogo tra teatri nazionali, tric, regioni, comuni, realtà di vario tipo e gli Artisti.

Mi auguro che nuove forme di abbraccio possano nascere in questo periodo di distanziamento, insieme a una ritrovata fiducia e considerazione degli artisti. Nuove dovranno essere le strade da tracciare. Si tratta di offrire a noi tutti una grande libertà: la libertà della scommessa in percorsi non tracciati, nuovi, idealisti e soprattutto umani. La scommessa è un atto di fede, e potrebbe avere risvolti sorprendenti in molti aspetti della vita comunitaria.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Il discorso sulla distribuzione, argomento spinoso e sicuramente fondamentale per molte compagnie tra cui Asterlizze, dovrebbe essere inserito in una politica di azione più ampia e sinceramente sono d’accordo con quanto detto da Carmelo Rifici, nella tua prima intervista e che qui parafraso: più che soluzioni per la distribuzione, ogni artista dovrebbe avere un proprio luogo, una “casa” in cui poter creare i propri lavori. Certo, bisognerebbe supportare gli artisti cercando di garantire una tenitura distributiva più lunga forse e che permetta loro di circuitare venendo in contatto con  più realtà possibili, ma mi chiedo se questo non sia ancora una ennesima schiavitù.  Inoltre data la situazione critica che si prospetta nei prossimi anni per il teatro e non solo, la distribuzione sarà ancora più cosa ristretta a scambi tra teatri e, in ogni caso, difficilissima. Credo quindi che il problema della distribuzione (cui spesso è legata la principale risorsa di sostenibilità per le compagnie) potrebbe essere arginato e forse non sarebbe più troppo centrale, se ogni gruppo artistico avesse una “casa” in cui creare i propri lavori, dedicandosi soprattutto al contesto circostante e al contatto con il proprio pubblico, avvicinando maggiormente la comunità al teatro. Insomma diventando un fulcro di riferimento all’interno del contesto cittadino e riportando al centro anche un legame con il territorio, di cui l’artista può e deve farsi portavoce.

Alba Porto
Something about you regia Alba Porto Ph:@Andrea Macchia

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Oggi più che mai il valore della creazione scenica come evento a cui assistere e partecipare dal vivo è fondamentale. La creazione scenica impone uno scambio reale tra i partecipanti, provoca emozioni e ci impone di “stare” in connessione con l’altro – privandoci per un momento degli schermi dei telefonini -. Ci porta a recarci in un luogo deputato (spesso il teatro, ma non solo) per assistere a un racconto in qualsiasi forma e farne esperienza. L’esperienza, a mio avviso, è l’unico motore capace di generare comunicazione ed empatia. Tramite l’esperienza possiamo tralasciare i ruoli affidatici dalla società (gli artisti, gli spettatori, i critici) ma essere tutti parte di qualcosa: la nostra contingenza, l’essere umani. Lo spettacolo dal vivo è un luogo di scambio e si modifica a seconda della platea, del pubblico, in maniera sostanziale. Quindi credo che la funzione principale sia quella di produrre scambio e vicinanza allo stesso tempo. In un momento storico  come quello che stiamo vivendo ritengo che tale vicinanza debba trascendere dallo spettacolo dal vivo in sé e manifestarsi in azioni a sostegno della categoria. Questo sarebbe davvero un bello spettacolo cui assistere.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Credo che il rapporto con il reale consista prima di tutto nell’essere immersi nel reale. Il nostro reale è sicuramente complesso e interpretarlo, in un sistema che ci bombarda di informazioni, non è semplice. E tuttavia l’artista è spugna assorbente del suo tempo, interprete che si allontana dalla frammentarietà delle notizie e riporta l’attenzione su ciò che ci unisce in quanto uomini. Non si tratta per l’artista esclusivamente di valutare la verità o la falsità delle fonti, ma di ricercare con trasparente necessità i meccanismi che governano i rapporti di vario genere. L’artista sente il suo tempo e cerca di “vederci chiaro” formulando delle domande, che attingono al reale e lo trascendono allo stesso tempo. Ecco che partendo dal contemporaneo si ritorna a maneggiare testi classici creando parallelismi nei contraddittori eppure speculari meccanismi del contemporaneo. Perché tutto ciò che viviamo è stato già vissuto, e questi giorni di particolare emergenza ce lo confermano.

Stare nel reale dunque avendo curiosità e aprendosi al dialogo con altre discipline e campi di indagine, ponendosi la domanda se ciò a cui stiamo lavorando possa servire a essere stimolo per gli altri. Che cosa raccontare è il primo punto di partenza e perché. Se il perché include anche gli altri, se ha un senso oltre che personale, pubblico, allora ci stiamo rapportando al reale.

Sara Pischedda

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A SARA PISCHEDDA

Per la trentatreesima intervista incontriamo una giovane danzatrice: Sara Pischedda. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Sara Pischedda nel 2015 entra a far parte della compagnia ASMED
Balletto di Sardegna
danzando per la produzione Aragosta di Moreno
Solinas, Soffio di Mark Siezkarek, Tempesta di Caterina Genta. Come autrice ha firmato Satura…si?, 120gr e e se fossi…?

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

In questo momento della mia vita artistica , praticamente agli esordi se così si può definire, mi sento di rispondere a questa domanda con la frase “essere se stessi”. 

Questo nel mio percorso è stato fondamentale, dopo tanti tentativi, ho iniziato a sperimentare su quella che sono io e su quello che potevo offrire, a chi veniva vedermi in scena, sviluppandolo con l’aiuto del mio vissuto, dei miei ricordi e quindi adesso più che mai sono convinta che per creare è efficace iniziare da dalla radice.

Poi l’evoluzione magari ti porta da qualche altra parte, ma conoscere se stessi è una chiave per capire come sviluppare altri concetti ! 

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Si gli strumenti si sono evoluti, ci sono più possibilità di residenze artistiche, più finanziamenti ma, a parer mio, si è tralasciata un po la cosa efficace ed efficiente  per tutti gli artisti, ossia la relazione stretta con chi è “sopra” di noi, come ad esempio gli organizzatori di festival. 

Ecco forse ho sbagliato anche a definire l’esistenza di qualcuno al di sopra di noi, siamo tutti qui a lavorare per lo stesso obiettivo, magari con compiti differenti ma la voglia e il desiderio,  di realizzare qualcosa di fruibile e far conoscere quest’arte il più possibile, sono le stesse.

Possono esserci tantissimi strumenti produttivi ma se questa collaborazione tra le parti interessate non esiste, a parer mio, il risultato sarà sempre blando 

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Penso ci sia un legame forte con la precedente risposta.

Ripeto il  problema o meglio il freno che è inserito e che non fa muovere la macchina è proprio l’assenza totale di collaborazioni tra le parti. 

Voglio spiegarmi meglio, esistono delle collaborazioni ma sono comunque superficiali. Non danno spazio a delle vere e proprie conoscenze tra luoghi spazi e persone che risultano differenti tra loro. 

Spesso si racchiude tutto in una cerchia ristretta di persone e tutto rimane li. 

Invece no, bisognerebbe aprile il più possibile le porte e far circolare aria colma di idee, legami e creare delle vere e proprie reti di connessioni .

Come è scritto nelle domanda esiste la situazione nella quale indipendenti e teatri stabili si muovano su strade parallele, che viste così non  potranno incontrarsi mai. Forse perché la società ci ha portato sposare questo comportamento “io coltivo il mio orticello e tutto è in ordine” .

Invece gli orti devono diventare distese immense dove poter coltivare ognuno le  proprie peculiarità per poi avere la possibilità di usufruire ognuno delle capacità dell’altro e creare così una vera rete di condivisione.

Altro problema da non sottovalutare è quella di tendere a ricoprire più professionalità in una sola persona, dovuto sicuramente alla mancanza di strumenti economici necessari a ricoprire tutto questo.

Ma magari potrebbe essere la benzina giusta per far riaccendere il motore di questa macchina ferma. 

Ad ognuno il suo ! 

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

La creazione scenica che si vive al momento ha un sapore talmente unico, che non si dovrebbe sostituire mai. 

A volte per praticità viene sostituita ma l’emozione che possa essere negativa o positiva è un attimo che viene recepito dallo sguardo che passa attraverso la pelle, percorrere il cuore e rimane impresso nella mente può darlo solamente il real time! 

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Adesso come adesso il virtuale è entrato a far parte della nostra vita quotidiana più che mai, come se ci fosse un “mondo parallelo”, dove possiamo sentirci bene con noi stessi ! 

Inutile dire che le sensazioni vengono annullate tanto quanto la vita reale.

Quindi rifugiandosi in questa “Second Life” giochiamo ad un gioco ideale, creato da noi dove possiamo vivere le sensazioni che vogliamo noi!

Il reale potrei definirlo come situazione difficile da sviluppare, ma se devo dare un mio parere, è molto interessante proprio per questo, nella conclusione mi ricollego alla mia prima risposta dicendo che lo strumento che più stimola l’artista è essere se stessi, reali con i propri difetti e pregi !