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SPECIALE INTERPLAY TROP di Andrea Costanzo Martini

L’ironia è una dote fondamentale nel lavoro artistico: dissacra, scalfisce il reale, sgretola la pretesa di stabilità di ogni valore, invita a non prendersi troppo sul serio.

Quando Duchamp gira un orinale e lo chiama fontana, non solo mette il discussione l’oggetto, la sua funzione, il reale come l’occhio si è abituato a vederlo, ma snellisce il gesto altamente filosofico con una dose abbondante di sprezzatura e di ironica saggezza. Inverte il circolo, da recipiente a oggetto che espelle liquidi, sovverte l’ordine delle cose portando un oggetto utile e negletto a oggetto d’arte di ironica ma salutare inutilità. L’ironia crea vuoto dove c’è un pieno, ma questo vuoto non è assenza, è la possibilità moltiplicata all’ennesima potenza. Andrea Costanzo Martini possiede la stupenda qualità di saper usare l’ironia con il corpo e con gli oggetti, creando un vuoto con intelligente e tagliente incisività.

La sua danza gioca col mondo facendolo a pezzi e lo ricompone di gesti, di movimenti, di ritmi venati di una sacra follia, di salutare insensatezza che sgretola la patina di seriosa bramosia che si impone ai nostri occhi nel posarsi su un mondo sempre più preda.

Un uomo davanti a un grosso televisore con una pompa da bicicletta tra le gambe. Azionando la pompa, si azione l’innesco e sul video appare un enorme fungo atomico. Così con gesto semplice, alla Willy il coyote, deflagra il mondo e connette immagine dal vivo, oggetto e immagine virtuale. Un circolo continuo che innerva tutta la partitura di movimento. La televisione diventa fumetto quasi quadri alla Roy Lichtenstein, scambia interferenze con il movimento reale del danzatore, diventa luce. Ma questo circolo si apre allo spettatore che diventa libero di fare le associazioni che vuole. Può far deflagrare il mondo insieme con Andrea Costanzo Martini, e può farlo con la propria immaginazione. Non interpretazione, che presuppone un gioco a incastro tra significante e significato, ma immaginazione che apre l’immagine e la rende frammento di uno specchio che può eternamente essere ricomposto in ogni forma possibile.

Andrea Costanzo Martini non ha solo l’abilità di creare un processo coreografico e visivo di grande impatto, ma possiede una espressività corporea impressionante. Un corpo che si scompone e ricompone con la stessa flessibilità delle immagini, usando ogni muscolo, irradiando energia esplosiva attraverso tensioni e distensioni, cambi di ritmo e velocità, contrazioni e dilatazioni. È il mio primo impatto con la danza gaga di cui ho sempre sentito parlare, danza legata al nome di Ohad Naharin e la sua Batsheva Dance Company. Devo dire di essere rimasto impressionato da una forma che restituisce al corpo un’istintualità ormai rara, dove ogni gesto è seppellito dal concetto. Una forma che libera e genera un vuoto, uno zero che contiene potenzialità infinite. Non avendo termini di paragone non saprei dire della qualità di esecuzione di Andrea Costanzo Martini, ma quel che è certo è che non vedevo una tale espressività in un corpo in movimento da molto, troppo tempo.

www.andreacostanzomartini.com/trop

Ph. Andrea Macchia

SPECIALE INTERPLAY: IN GIRUM IMUS NOCTE ET CONSUMIMUR IGNI di Roberto Castello

Tra luce e ombra si cammina senza un dove, senza un perché. Un’umanità scomposta, in perenne movimento nei frame di luce concessi per un tempo limitato prima di sprofondare nella notte. D’ogne posa indegna quest’umanità cammina in quel poco di giorno grigio, fatto di luce attenuata come di fumo che scivola via e si disperde, di movimento ossessivo come chi s’affanna per un nonnulla, e poi la notte, prima di un nuovo giorno che non porta novità né progresso. Solo varietà nell’alternar di bianco latteo e nero pece.

Di qual fuoco si sia consumati in questa notte non è dato sapere. Frenesia, furore, smania in quest’inceder coatto, spinti da un ritmo non nostro, ossessivo compulsivo. Un titolo palindromo come lo spettacolo: da qualsiasi parte lo si giri, ridonda lo stesso suono, lo stesso gusto, lo stesso andar da nessuna parte.

:”Che ore sono?”

:”La stessa di sempre”. Un finale di partita eternamente rimandato dalla luce che succede all’ombra. C’è molta atmosfera beckettiana in questo lavoro di Roberto Castello con Aldes. Per tutto il tempo della piece, nel martellare ritmico elettronico, mi risuonava nella mente la May di Passi: nove passi avanti, nove passi indietro, come un metronomo. E così i chicchi si aggiungono ai chicchi finché c’è un mucchio, un piccolo mucchio, l’impossibile mucchio.

Per questo lavoro si è parlato di ritorno del tragico. Non sono d’accordo. Non c’è nessun fato inalterabile a sconfiggere l’eroe che si batte comunque e nonostante tutto. Le Moire non hanno filato nessun percorso ineluttabile. Il procedere è verso nessuna parte. Vi è un eterno ritorno di un’uguale miseria senza nessun destino. Come i ciechi di Bruguel si avanza verso un abisso eternamente rinnovato e rimandato, oltre, senza mai fine.

Un lavoro intenso, provante, sia per il pubblico che per i bravissimi danzatori (Mariano Nieddu, Giserlda Ranieri, Ilenia Romano, Irene Russolillo). Un flusso in eterno movimento, nell’alternarsi di forme di luce che creano spazi sempre diversi per un procedere senza posa. Ogni tanto degli inserti rappresentativi, frammenti di quotidiano distorto, come di feste andate a male, in qualche modo degenerati. Un lavoro disperante, dove anche l’ironia sa di fiele. Nessuna pacca sulla spalla, nessun tentativo di indorare la pillola. D’altra parte l’aveva già detto Shakespeare nella sua tragedia più nera: “La vita e’ solo un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si dimena durante la sua ora sul palcoscenico, dopodiché non si sente più nulla. Una favola narrata da un idiota, piena di rumore e furia, che non significa nulla.”

Ph. Ilaria Scarpa

ivgi greben

SPECIALE INTERPLAY: OBJECT di Ivgi&Greben – BOYS di Roy Assaf

Una donna. Sola. All’interno di un cerchio bianco illuminato a giorno. La bocca tappata da nastro adesivo nero. Il busto impacchettato nel cellophane trasparente, non come un vestito, più come una fetta di carne da mettere in frigo. La donna non può scappare dallo sguardo. È crocifissa, trapassata, penetrata dallo sguardo che implacabile si posa sul suo corpo reso oggetto. E così si instaura una lotta furibonda tra quello sguardo e quel corpo muto, che si ostenta, si fa guardare, in ogni posa possibile, si mostra come dichiarazione di guerra, un attacco allo sguardo. Quasi minaccia o disfida a guardare di più, a guardare oltre, quelle pose, quel corpo.

Questo è Object del duo Ivgi&Greben, danzato dalla russa Alyona Lezhava, una danza massiccia in questo cerchio da arena di sumo dove non c’è spazio per la dolcezza, al massimo per una seduzione guerriera. Un lavoro perturbante e non certo rassicurante eseguito quasi con rabbia, sicuramente con fatica (danzare con la bocca tappata, respirando solo col naso, non è cosa facile), senza sbocchi celesti né consolatori. Si guarda come rapaci, non come osservatori curiosi di comprendere il mondo, soprattutto il corpo, lo si guarda con bramosia, senza rispetto, con lo sguardo del macellaio che valuta un quarto di bue.

Una certa ferocia e brutalità è presente anche in Boys di Roy Assan. Anche in questo caso il titolo è una dichiarazione. È il maschio, la condizione mascolina a essere messa in questione. Senza però dare risposta alcuna: i gesti spesso hanno una doppia maschera a seconda di chi li esegue, in perenne variazione, dove il senso sfugge. Restano le sensazioni (l’aggressività, l’ironia, la dolcezza, etc.) e i cliché. Difficile sfuggire a questi ultimi, tutti ingabbiati e infissi come siamo nell’aurea mediocritas del senso comune, delle parti da recitare, difficile trovare abbastanza forza per sfuggire all’attrazione gravitazionale dell’ovvio.

La danza è comunque estremamente dinamica, a ritmi elevati, quasi come corsa di bersaglieri, colma di miriadi di spunti, ricca, quasi barocca. In assenza del femminile è tutto ruvido, spigoloso, aggressivo, senza accoglienza e abbandono. È un abitare la battaglia che senza requie si rinnova, si sviluppa come per proliferazione cellulare accelerata e un poco cancerosa. Non ci si riposa mai, dritti e veloci come la freccia di Apollo, senza mistica né estasi, terrena battaglia nel fango dell’esistenza, senza via di fuga alcuna se non la speranza che l’essere umano sia migliore di quello che dimostra di essere, per attivare al poetico e toccante finale: il corpo di un danzatore intrappolato, accarezzato, deposto come un cristo, crocifisso come un cristo dalle gambe degli altri quattro, mentre viene diffuso il discorso all’umanità de Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin che aggiunge un pizzico di retorica e fiducia in un’umanità che non la merita. Come detto sfuggire al maelstrom della rappresentazione è cosa rara, anche nei lavori migliori.

Due lavori di grande impatto e, per certi versi molto violenti, aprono questa nuova edizione di Interplay, un festival che ha il merito di aver dato visibilità a opere di grande levatura internazionale nonché spazio a giovani coreografi italiani. Questo non è per niente un risultato banale confrontato all’azione di molti che invece si allineano a una programmazione banale e certa. Spero che Natalia Casorati possa continuare il suo lavoro e che non le venga a mancare l’appoggio istituzionale. In caso contrario sarebbe un grave errore e una grande perdita.

valerio binasco

OH COME TUTTO È STORDENTE FIERA!

La recente intervista apparsa su Teatro e Critica al neo-consulente artistico del Teatro Stabile di Torino Valerio Binasco contiene degli spunti interessanti per un commento.

Si dice molto dello stato del teatro in Italia e di quella che è la sua funzione nei teatri di Stato e non solo. Dice Binasco e cito integralmente: “A noi registi e attori spetta il compito di tornare a parlare dritti al cuore delle persone. Il compito del teatro non è fare cultura o fare politica. È far ridere e piangere. Se ci riusciamo è fatta”.

Sorge spontanea una domanda: se l’atto artistico non è anche un atto politico e soprattutto non è un atto culturale cos’è? Sembra essere solo ed esclusivamente un intrattenimento emozionale. Si ride, si piange, non si pensa né ci si rivolge a una collettività che condivide uno spazio sociale. Si solletica solo l’appetito della sensazione. Un programma da fine impero. Si abdica dalla funzione del teatro e dell’arte tutta. Senza giri di parole e in tutta onestà. Mi chiedo in fondo come Binasco non si renda conto che affermare che compito del teatro non sia né fare cultura né fare politica è un atto politico in sé stesso. È una dichiarazione alla politica che l’arte del teatro si fa da parte. Schiava com’è del denaro pubblico e bancario, dichiara di non voler mordere la mano che porge sempre meno becchime. Questo è un vero inchino alla politica. Perfino i tagli sono benvenuti perché in fondo il teatro si può fare lo stesso. Sono d’accordo. Si può fare lo stesso ma quando mancano le condizioni produttive e distributive che garantiscano e proteggano gli artisti nella loro ricerca e forniscano la necessaria visibilità ai loro lavori, questo fare perde di importanza e significato. Binasco dovrebbe rendersi conto che la sua funzione dovrebbe essere proprio quella di agevolare al teatro la sua possibilità di rendersi efficace e visibile, che i giovani che intraprendono questo mestiere abbiano le condizioni per poter esaltare il proprio talento, che gli artisti quelli veri possano emergere sulla scena di un confronto internazionale. Invece no. Si parla solo di emozionare il crescente pubblico degli abbonati. Già Carmelo Bene inveiva contro questo trionfo dell’abbonato, di chi pretende di essere compiaciuto e coccolato. Il teatro non è li per farlo ridere o piangere, esiste per farlo riflettere sulla condizione di essere uomo, sulla vacuità e precarietà della sua esistenza e sulla instabilità di quello che chiamiamo civiltà. Invece dobbiamo farlo ridere senza occuparci né di politica né di cultura.

Ma se non è cultura, cos’è? Quale dovrebbe essere la sua funzione nel XXI secolo? Sollazzare l’abbonato che esce dopo un’orgia di risate? Non possiamo neanche dire che si fa cabaret o avanspettacolo perché in quei generi di politica se ne fa eccome. Quindi si ride di cosa? O si piange per cosa se in ballo non c’è né l’uomo, né la società? Forse che Molière o Shakespeare non contengono spunti politici o culturali? Non dico il teatro di ricerca ma il repertorio, il teatro di testo e parola non ha nella sua tradizione impegno politico e culturale? Brecht per esempio? Non dico il Living Theatre! La frase detta da Binasco spero sia un’errore di stampa, o una svista dell’intervistatore perché un consulente artistico di un Teatro Stabile che afferma di non voler fare né politica né cultura mi inquieta. Già l’affermazione che il teatro italiano sia in salute mi fa venire il tremore, ma l’abdicazione di funzione così limpidamente affermata mi turba non poco.

Ha ragione su una cosa Binasco. La critica è assente e ininfluente. Non si levano voci critiche a prese di posizione di fronte a frasi così sconcertanti da parte di chi si dovrebbe occupare della consulenza artistica di un teatro. Mancano le recensioni sincere, manca la volontà di creare dibattito, di sollevare problemi. C’è persino chi si fa pagare dal recensito per recensire, e che si fotta la deontologia professionale. Il panorama è sconcertante altro che teatro italiano in fase di grande rinascita! Qui si fa la festa al moribondo dicendo che va tutto bene. D’altra parte il problema non è la caduta, è l’atterraggio.

castellucci

Babele silenziosa: La democrazia in America, un ulteriore sguardo su Romeo Castellucci

«Elizabeth sells her daughter Mary to buy agricultural tools and seeds, 1789».

E le streghe danzano il loro sabba a ritmo di can-can. Il patto è compiuto e nessun giuramento permette di affrancarsi dalla vacuità di uno spazio – che intrattiene a un tempo una relazione transitiva e traduttiva fra topografie geografiche e interiori – i cui confini si allontanano con la stessa velocità e ostinazione della parola che li insegue, significante vuoto e frustrato, quando convenzionale.

Questa, una possibile summa da parte dello spettatore che non abbia lasciato la sala prima della fine dello spettacolo.

È innegabile che Democrazia in America di Castellucci sia stato soggetto prima ancora della sua messa in scena a più di un fraintendimento. Complici la discendenza dal testo omonimo di Alexis de Tocqueville, l’attuale situazione internazionale, la confusione, sempre vigente a dispetto del continuo abbaiare sulla questione da parte dei presunti addetti ai lavori e non, sul rapporto fra politica e scena teatrale, fra democrazia – partendo da quella ateniese del V secolo, come da riallaccio dello stesso Castellucci in molte interviste, dunque non concettualmente limitabile alla sola contingenza storica, viziata del resto oggi come allora – e scena culturale.

«Tecnicamente, la politica nasce quando gli dei muoiono. Quando il grande dio Pan muore, nasce la politica; quando la festa finisce, nasce la politica. La politica e tutti i diritti che ne conseguono hanno origine nel momento in cui si smette di danzare». Da lì, la nascita del teatro greco.

Nello spettacolo approdato invece all’Arena del Sole di Bologna l’11 maggio la danza scandisce moltissimi momenti e gli dei, anzi, preferendo una formula singolare e artaudianamente “con la minuscola”, il dio, c’è, In absentiam, ma c’è.

Così non c’è polis ma solitudine, non c’è America ma limbo.

Nella cornice che racchiude il vuoto rappresentato dal fallimento delle aspettative di rinnovamento e rinascita dei puritani sei e settecenteschi alla conquista della Terra Promessa, Castellucci è anche capace di una sottile, anche se a tratti, e in special modo nel finale, un po’ didascalica, forma di ironia, un ammiccamento amaro all’indirizzo del linguaggio, delle parole che giocano con se stesse ma non conoscono più loro stesse. Se rimandano a qualcosa, sempre che questo qualcosa fuori di sé ci sia, è una profezia di sangue, conflitto. Nel mezzo, due figure che non condividono più il linguaggio del dio né quello degli uomini, non costruiscono relazione fra loro e la comunità, fra loro e lo spazio. Corpi rifiutati, in effetti. Rimane un caos babelico e glossolalico che li trascina ancora più fuori dal consorzio sociale di sanzioni, statuti e guerre che lo spettatore intuisce già attorno, ma soprattutto dentro, i virtuali protagonisti dell’azione scenica. «Non sanno proprio cosa sia il silenzio» finiranno col constatare i due indiani del finale. Una confusione voluta, un intersecarsi voluto, fra voci, musiche e dati storici, i quali tuttavia se non perdono la forza dell’idea, a volte però rischiano di non arrivare a un livello di potenza tale da illuminare davvero la scena. Nell’intensità naturalistica di un’azione che sfocia suo malgrado in un focus ravvicinato, le immagini che prendono vita sulla scena, di pure intensa e variegata spiritualità, fra lo sciamanico, il tribale, lo stregonesco, rischiano di non accompagnare l’occhio dello spettatore al di là di una prospettiva di semplice commento. Mai accessorio, ma chissà in che grado necessario.

Al di fuori delle didascalie che compaiono proiettate sul velo che divide lo spazio del palcoscenico dalla platea, di politica ne rimane solo l’ombra. E giustamente: non si può parlare di polis, in effetti, quando la comunità è assente, respinge, resta pura parola, ma proprio quella che ha smesso di rivestire importanza. Come da volontà del regista, infatti, rimane la polemica, verso l’indirizzo della politica. Ed è una polemica di spirito e di linguaggio che, nella sua ripetizione ossessiva, nell’intrecciarsi volutamente non lineare (e non sono certo una linearità o una falsa idea di comprensibilità le componenti di cui si ha bisogno in teatro, anzi) delle differenti tematiche, raggiunge paradossalmente quello che, cercando di non fermarsi a una lettura frettolosa di questo spettacolo, sembra invece il vero proposito di Castellucci: creare, nel vuoto e nella solitudine assoluti, una glossolalia al contrario, che si avvicini all’essenza dello spirito solo per bestemmiarne quell’insindacabile e puritano non discutibile tratto di esistenza; «Io-sono. Abbiamo sbagliato il nome. Dovevamo pregare io-sono». Dietro quell’io-sono, non c’è nulla. E qui Castellucci vince la sfida con Tocqueville. Con lo spettatore, invece, non del tutto.

Articolo di Maria D’Ugo

foto: Gian Marco Bresadola

rosa silenzio

SULLA ROSA, SUL SILENZIO E SULL’ARTE DELL’ATTORE

:”La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce;

non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no”.

Angelus Silesius Il Pellegrino cherubico

:”Io non ho niente da dire e questa è tutta la poesia che mi serve”.

Così diceva John Cage nella sua Conference about Nothing. E nel dir queste parole spostava l’attenzione dal contenuto di un’opera, dalle sue intenzioni, dalla volontà di rappresentare storie e concetti, alla sua procedura, al processo messo in opera. Dal cosa al come. La modalità diveniva fondamentale. Una prassi senza intenzione né volontà di dire o, per lo meno, tendente allo zero espressivo. Era un togliersi di mezzo dell’autore e dell’interprete per lasciare spazio a qualcosa di vivo e irripetibile che per comodità chiameremo opera. E proprio l’interprete sia esso attore, danzatore, performer o musicista diveniva un esecutore di partiture, di compiti che in sé non avevano significato alcuno. La modalità attraverso cui si eseguiva la partitura diveniva una messa in questione dell’essere, dell’oggetto, dell’esistenza. Si scopriva una funzione e si sfatava un mito.

L’azione artistica davanti a un pubblico diveniva una sorta di prassi filosofica, (ritualità CB) dove veniva esercitata un’azione che era in sé una domanda senza risposta ma che incrinava la nostra consueta conoscenza del mondo. Eseguire 4’33” non era un provocazione ma diveniva un far emergere i suoni a cui nessuno dava attenzione, e che per il solo fatto di stabilire una cornice temporale acquistavano una solidità, un’opacità, una presenza senza precedenti. Non si comunicava un’opinione su questa o quell’altra questione all’ordine del giorno, non si interpretava il testo del grande autore, né si dava la propria versione dei fatti attraverso la propria autoralità, semplicemente ci si toglieva di mezzo lasciando emergere il mondo. Teatron: il luogo da cui si guarda.

Questo sottrarsi per far emergere, pur con le dovute differenze, era tratto comune a CB. Frainteso spesso e volentieri con l’atteggiamento opposto, il voler stupire e provocare. Eppure era semplicemente un cancellarsi, un fare spazio, un non prestarsi al teatrino nel teatrino. :”Che cosa chiedo io in fondo? Di essere ignorato, di essere trascurato…”.

Nella conferenza che cos’è teatro?, CB dice senza mezzi termine che il teatro, com’è abitualmente concepito, ossia interpretazione di un testo attraverso ruoli e parti in cui l’attore deve immedesimarsi, non è altro che una pratica da Croce Verde. Tutti fingono di credere che quello sulla scena sia Amleto che compie quelle azioni, così come l’attore che finge di essere chi non è. Si finge tutti quanti in onore alla storia e per la storia, ossequiosi di qualcosa scritta prima di cui si finge di capire il senso, senza capire che ognuno dice la propria in un roboante chiacchiericcio. E si torna al silenzio di Cage. All’ascolto senza dire. A un mettere da parte le proprie idee e opinioni di fronte all’essere che si manifesta, senza scopo né finalità, e che semplicemente si pone di fronte a noi con tutte le sue domande.

E questo inquieta oggi come allora. Si chiede all’arte tutta di comunicare. Di dir la propria. Si applaude l’attore che riesce a immedesimarsi, che ci fa piangere e commuovere. Persino gli attori e danzatori si oppongono strenuamente quando si cerca di far emergere una pratica di sottrazione che privilegi la modalità all’espressione. Si dice che questo va contro l’arte. Che non è così che si fa. Eppure i grandi uomini di teatro si sono affannati proprio a dire il contrario.

Pensiamo a Kantor, ai suoi attori-manichini, che non raccontavano niente, ma attuavano trappole, automatismi, modalità inconsce. Automi sulla scena eppur così poetici intrappolati in quelle macchine di tortura, in quei supplizi senza fine né ragione, insieme a quegli oggetti relitti di un mondo che fu, eppure quanta poesia in quel mondo perduto senza ragione né perché: “l’attore deve essere LONTANO, incredibilmente ESTRANEO, come un MORTO, separato da una BARRIERA invisibile e tuttavia terribile e inimmaginabile, il cui vero senso e il cui orrore non ci appaiono che in sogno”. Tutto molto lontano dal dire in scena, dall’esprimere opinioni. È un porre domande senza risposta, ma domande ultime, quelle veramente importanti.

Questi attori-automi, come morti sulla scena risuonano con la macchina-attoriale di CB. Un attore che si fa attraversare, a servizio di un impianto audio imponente e delicato, esecutore di una partitura in perenne mutamento, mai uguale a se stessa, metamorfosi senza posa. Altro che declamare, proclamare, asserire, interpretare e riferire, per non dire comunicare. Ci si limita a far dire la voce. A far uscire il suono lasciando perdere il significato.

Eppure sulle scene di oggi quanto affannarsi a voler comunicare. Impera il monologo e il dialogo, l’opera impegnata su questo o quel problema del giorno, oppure si invoca una svagata leggerezza strappa-sorrisi, mettendo in scena giochi di ruolo per adulti, dove tutti si sentono rinfrancati della propria pochezza. Oh! quanto si invoca la leggerezza per paura della profondità che necessita di una pratica ferrea per togliere di mezzo il superfluo e far apparire ciò che resta sepolto dal cumulo di macerie della civiltà. E ci vorrebbe tanto silenzio sulle scene e nella vita. Un ascolto devoto ai rumori del mondo, al suono dell’essere che se ne fotte dei generi, degli orrori, dei piaceri, delle gioie. Esso sta lì muto e ci interroga, se sappiamo ascoltare.

Come diceva Angelus Silesius:”La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce; non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no”. Così il mondo e così l’arte a imitazione della natura nel suo modo di operare.

de summa

Rito di passaggio con De Summa. La Cerimonia

Prima della decomposizione, della trasformazione in altro – non è dato sapere cosa -, bisogna vivere. Ci saranno incendi, terremoti, distruzione. Ma la morte arriverà solo in un secondo momento. Bisogna saperci fare, apprendere tecniche per riuscire a vivere ciò che ci sarà prima. C’è chi nasce imparato e chi ha bisogno di istruzioni; e chi si rifiuta, si arrende, non vuole fare più niente. Basta. Niente. Non andare più a scuola, non mangiare, non vedere più le amiche. Sarà davvero, solo, un problema generazionale? O universale?
Per Oscar De Summa (autore e regista della pièce) il cerchio è largo, molto largo, poi sempre più piccolo, fino a restringersi intorno all’adolescente Edi (Marina Occhionero) e i genitori (Vanessa Korn e Marco Manfredi). Ognuno infognato in una voragine diversa. Lo zio (De Summa) disegna il cerchio, la bolla, la spezza quando vuole, ne entra ed esce quando vuole. Gli occhi sono tutti puntati su di lei, la piccola, la più giovane, la promessa. Marchiata da un’indifferenza verso il tutto, un disagio sorridente e invasivo, Edi sembra aspirare alla liberazione da una prigionia senza nome, senza volto. Malessere che spesso, lo vediamo ogni giorno, prende la forma di disturbi alimentari, perversioni, cleptomania, violenza. Lei è l’orlo dove si affaccia una madre che oscilla tra l’amore inesauribile per la figlia e l’istinto di resettare. Lo stesso di Medea. In mezzo ai due poli, un tessuto di sentimenti sgargianti e sbiaditi. Sull’orlo si affaccia anche il padre, individuo distratto, pianta appassita in cerca di concime e profumi, di una pala con cui scavare a fondo. La sua scoperta della carne che ha sempre, segretamente desiderato, scatena la rottura delle acque.
Siamo lontani da vere nevrosi, ossessioni, disagi familiari torbidi e maniacali.  Lo scatto che fa emergere a pieno l’inquietudine necessaria a una Cerimonia di annientamento e rinascita, avviene in modo decisivo con i cambi musicali. Trip-hop, grunge, pop, drum&bass, sfumati uno dentro l’altro, funzionano da reattori emotivi per tramutare il litigio quotidiano in una cappa tra l’onirico e l’incubo. Ma non solo. Il testo si irradia, a maglie larghe, in momenti di immagini liriche e spietate, stati d’animo in carne e ossa, volatili. Se ogni interprete, a suo modo, riesce a far vibrare il proprio vissuto, Oscar De Summa in particolare, nel ruolo apparentemente marginale dello zio, interviene facendo risuonare tracce e scie di sé come solchi sgombri e imbrattati, un incalzare di momenti di oblio e memoria per riuscire a dare un senso a questo, tutto questo. Il respirare, mangiare, amare, odiare, sparare, muovere gli arti senza apparente dignità. E se il richiamo al mito che i nomi suggeriscono (Edi sta per Edipo), non è casuale, lui in questa ottica è Tiresia, l’indovino, tramutato in donna e poi nuovamente in uomo, esperto di reincarnazioni qui con qualche sfumatura italoamericana nella voce,
, poi fonte limpida, ancora, per rubare un po’ di forze con cui tenersi in vita.
Può succedere, a volte, di trovare una creazione drammaturgica che scuota, su pareti semplicemente bianche e un appoggio di legno dove avviene la Cerimonia di fine millennio – come ripete continuamente Edi. Siamo a fine millennio, ma questo lo abbiamo deciso noi uomini, la natura non batte ciglio, non inizia niente di nuovo allo scadere della mezzanotte. L’apatia continuerà a chiamarsi tale. La depressione anche. La separazione pure. Il rito di passaggio, per De Summa, aiuta ad accettare questo gioco pericoloso, a fregarsene delle sue regole, e iniziare a giocare. Pur con il sangue che macchia i sedili di una macchina, pur con un corpo e un’anima e una mente che non si riesce ad accettare. Sul palco egli sa sicuramente giocare dannatamente bene, tra un’ironia sottile e appuntita, e crateri di senso. E sembra porre una domanda: rivedere il concetto di famiglia, di individuo, di lavoro, di società si può, è possibile? Il modello attualmente in funzione sembra essere sempre più scassato, bisognoso di essere aggiustato. E non si sa come aggiustarlo. Opere come queste non fanno finta che tutto vada bene.
C’è tempo ancora fino al 9 aprile, al Fabbrichino di Prato, c’è tempo per prendere parte a La Cerimonia, farsene accarezzare.

Recensione di Tessa Granato

altissima povertà

ALTISSIMA POVERTÀ di Virgilio Sieni

Quattro stanze, quattro quadri. Un viaggio tra l’uno e l’altro alla scoperta del movimento e del corpo nella sua purezza, in povertà francescana, senza fronzoli né mostrine. Non si ostenta nulla, non si ha necessità di far vedere, di rappresentare. La concentrazione dei danzatori (molti lo ricordiamo non sono professionisti) è massima, come se si eseguisse una forma alta di meditazione. Ogni gesto è teso, pieno, attento e colmo di cura, nell’ascolto dell’altro, nell’ascolto dell’ambiente. Ci si trova di fronte a una sorta di silenzio cageano, scevro di intenzioni, teso a lasciar emergere e non a indirizzare. I corpi si amalgamano, si addensano, si prendono, si abbandonano, si accarezzano in un fluire di deposizioni, crocifissioni, visioni scultoree pronte all’istantanea fluidità. Le forme proteiche nella loro perenne metamorfosi tornano talvolta a dei punti di inizio: il cerchio, la linea su cui si fronteggiano due file abbracciate. Questi quadri danzati sono così intensi e coinvolgenti, che si ha l’impressione di assistere a un rito antico, a una vera e propria orazione comunitaria. Vi è anche un senso di profonda quiete, di benessere, di estatica ammirazione di questo bello frugale, semplice nella sua complessità, senza opacità seppur mai letterale. Vi è un lavoro immenso sulla presenza scenica, sulla concentrazione verso il corpo e a come esso si muove nello spazio in rapporto all’altro da sé e di fronte all’occhio che guarda. Raramente ho assistito a eventi pregni di una tale concentrazione e intensità.

Nelle quattro sale del Palazzo di Città di Torino, splendide nella loro magnificenza, si assiste con religioso raccoglimento a questo trionfo del frugale e dell’essenziale, del gesto scevro di ogni sorta di ostentazione, potente perché privo di ogni orpello, nudo, povero, perfino misero eppur magnetico e catalizzante. Una comunità di persone che condividono uno spazio, in qualche modo se ne appropriano grazie al movimento che nasce dal loro interagire, sconnesso da ogni volontà di ottenere un risultato o un bene, lontano perciò dall’utile. Contatto, connessione, disconnessione, semplicemente prendere e lasciare, unirsi e separarsi. Come la rosa di Silesius tutto è senza un perché, fiorisce perché fiorisce, non si chiede se lo si veda oppure no.

La comunità di danzatori è priva di differenze come un organismo le cui cellule non si siano specializzate, dividendosi in categorie, funzionalità, gerarchie. Tutti possono diventare fulcro e periferia, albero motore, o piccolo ingranaggio. Una comunità utopistica seppur possibile in quegli spazi, in quei momenti.

Altissima Povertà è un progetto di Virgilio Sieni insieme a La Piattaforma che da ormai un anno si sta sviluppando nella città di Torino. Lo scorso luglio era andata in scena alla Reggia di Venaria una prima versione, oggi nel contesto della Biennale Democrazia ne va in scena una versione più ridotta ma non meno intensa. Alla performance è seguito un piccolo dibattito con Virgilio Sieni e lo storico dell’arte Tomaso Montanari incentrato per buona parte sul potere eversivo del corpo e del gesto. Devo dire che non sono riuscito a scorgere intenti eversivi per quanto la presenza dei corpi sia stata potente e i gesti così intensi da far lacrimare gli occhi. Trovo che questa forma quasi di meditazione comunitaria sia come una sorta di recupero di certo neoplatonismo umanista che svolge la sua azione artistica sotto il motto di Pico della Mirandola: magnum miracolum est homo, e volto alla ricerca del vero, del bello e del giusto. Altissima povertà è una sorta di ascesi pubblica, un’azione iperurania, in cui il corpo materiale quasi trascende proprio grazie alla sua potente presenza. Il gesto eversivo e rivoluzionario è, al contrario, teso verso il futuro, si slancia verso un altrove spostato in avanti nel tempo, è tensione al raggiungimento di un sol dell’avvenire. Mi sembra invece che qui ci sia una certa nostalgia verso valori della grande tradizione, un recupero molto distante da un gesto tagliente e straziante che possa smuovere le coscienze e risvegliare una comunità, più che altro un monito verso certi bonos mores di un lontano e fulgido passato. D’altro canto, come ama ripetere Michel Huellebecq, non vi è niente oggi di meno rivoluzionario dell’arte per il suo svolgersi e consumarsi nei palazzi del potere. Forse è proprio divenuto impossibile all’arte essere eversiva e rivoluzionaria avendo perso molta massa critica negli ultimi anni proprio a causa del suo chiudersi nei luoghi istituzionali e adibiti al suo accoglimento.

Altissima povertà è anche un tentativo di recupero dei luoghi, un riportarli alla comunità. Già Agamben invocava una profana-azione, intesa come un recupero all’uso degli spazi comunitari. Questo di Sieni è un tentativo alto seppur si svolga anch’esso in luoghi non deputati alla danza, ma comunque prestigiosi e istituzionali. Forse in un mercato, o in un quartiere squallido tali azioni avrebbero più potenza d’impatto.

Quello di Sieni è dunque un gesto inattuale, quindi non propriamente contemporaneo nel senso di essere nel qui ed ora ma anche in un luogo altro spostato nel tempo. Gesti del genere sono sempre coraggiosi soprattutto per l’alta qualità che emanano e per la serietà e perizia nel costruirli e renderli possibili. Altissima povertà è un lavoro possente che fa riflettere e certamente contiene germi di discussione e dibattito che possono far solo bene all’ambiente stantio e muffito delle arti performative italiane.

Ph. G. Sottile

orchidee

ORCHIDEE di Pippo Delbono

Orchidee di Pippo Delbono si potrebbe sottotitolarlo: del vero e del falso. Come dice lo stesso regista l’orchidea è un fiore la cui bellezza non si comprende mai se sia vera o di plastica.

Artificio o verità? È un dilemma amletico entro cui il teatro si è dibattuto e si dibatte insofferente da sempre ma con particolare accanimento negli ultimi cento cinquant’anni. Nel caso di Pippo Delbono la domanda è ancor più lecita e ricordo di essermela posta già nel 1999 quando ebbi la ventura di fargli da assistente durante la Biennale di Venezia in cui mise in scena il suo Her Bijit.

Prima di incontrare Pippo mi chiedevo se dietro all’uso di barboni, ragazzi down, emarginati di ogni sorta, per razza, per sesso, per malattia, non ci fosse un certo compiacimento o, al peggio, una certa furbizia. Ero molto dubbioso sull’esperienza che stavo andando a compiere e, lo confesso, avevo non pochi pregiudizi sul metodo di Pippo, perché pensavo, e per certi versi lo penso tutt’ora, che si possa raggiungere la potenza del teatro anche e soprattutto con i professionisti della scena, perché la differenza vera la fa, come in tutte le cose, la consapevolezza del gesto e della funzione.

Pensavo che, senza la consapevolezza, ci fosse sempre la manipolazione del regista che usa i materiale e le persone al fine di creare un’opera, e che quindi, condividere la consapevolezza della creazione con i propri compagni di viaggio fosse un valore aggiunto sulla scena e non un limite.

Poi ho incontrato Pippo e con lui Bobò, Nelson, Mr Puma, Pepe Robledo, Gianluca e molti altri che presero parte allo spettacolo, i profughi, i bambini Rom. Mi ritrovai per circa un mese in un mondo eterogeneo, sofferente e nello stesso tempo gioioso, un vortice di persone ed emozioni spesso caotiche e incontrollabili, ma di una ricchezza senza pari. E il centro di questo vortice era Pippo che con la sua umanità teneva insieme tutte queste differenze, le amava, le comprendeva con una compassione commovente. Era lui l’unico che riusciva a comunicare con Bobò, che calmava gli eccessi di Mr Puma, che tranquillizzava Gianluca, o le stranezze eccentriche di Nelson. Non vi era né sfruttamento, né manipolazione, c’era infinito amore. E la capacità di Pippo di trarre immagini da quel calderone ribollente era imponente, come di chi governa la nave sull’orlo del maelstrom.

Un giorno ricordo che riaccompagnandolo a casa, in una lunga camminata per le calli, che dall’Arsenale ci riportava a Santa Maria del Giglio, gli chiesi perché avesse deciso di fare il suo teatro con queste persone e non con dei professionisti. Lo chiedevo da pischello che si affacciava alla professione, con l’intenzione di capire e carpire, non per giudicare. Lui mi rispose che non era stata una vera scelta, era stato un bisogno, quello di circondarsi di persone che soffrivano come e forse più di lui, e che solo così riusciva a trovare la forza di fare nonostante la malattia e la difficoltà del mestiere.

Qualsiasi cosa si possa dire delle opere di Pippo Delbono, e per questa la critica ha usato anche parole forti come dittatura delle emozioni, un lavoro furbo, sconnesso e sconsiderato, un raccontarsi senza costrutto, ecco io penso che in fondo ci sia sempre la verità di quella frase che mi disse tanti anni fa: il bisogno di sfuggire al dolore, alla malattia, alla sofferenza e che questo sia vero e umano e che questo sia teatro e ci sia “la” funzione del teatro dalle origini. La tragedia era lo strazio dell’assassinio, del destino avverso che l’eroe non può combattere, della solitudine dello sconfitto di fronte alla vita che scorre e lo scioglie nel suo inevitabile fluire. Certo la tragedia era meno personale dei racconti di Pippo, ma è pur sempre una tragedia raccontata con personaggi tragici e sofferenti. Ho sempre considerato Pippo Delbono uno dei miei maestri perché mi ha insegnato a trarre dal caos un filo sottile, a raccontare per immagini, a costruire percorsi non lineari e soprattutto mi insegnò l’umanità e la compassione. Per questo non smetterò di ringraziarlo e non riuscirà mai a importarmi se vedo un suo lavoro non proprio riuscito, perché sempre leggerò la grande umanità che lo tiene insieme e non riesco proprio a considerarli errori, soprattutto in un teatro italiano pieno di inutili spettacoli colmi di odiata finzione che vengono spacciati per avanguardia. Per lo meno nelle opere di Pippo si respira vero odore di umanità.

woman before a glass

WOMAN BEFORE A GLASS di Laboratori Permanenti FUCSIA: DO I MATTER TO YOU? Di Anna Marocco

Non è un mistero: mi appassionano le cose ibride. Soprattutto in arte. Il definito lo trovo poco interessante, un territorio conosciuto che non porta a nessuna vera scoperta. La mappatura del territorio è già avvenuta. Nei confini, nelle zone di transito, vi è una mescolanza di fluidi interessante, un melange del possibile, del non inventariato, del non ancora pienamente formato, che mi stimola alla ricerca, all’attenzione. I territori di frontiera stimolano la visione e l’ascolto.

Officine Caos è un territorio di frontiera e non solo geograficamente e le sue proposte di programma invitano alla curiosità.

Il 24 e 25 febbraio per esempio sono andati in scena due lavori molto distanti tra loro, quasi agli antipodi espressivi, e che risaltavano forse proprio per il contrasto di trovarsi insieme. Il primo caso, Woman before a glass, è un ritratto per frammenti di ricordi di Peggy Guggenheim, la straordinaria collezionista americana che ha saputo cogliere nella frontiera del divenire ciò che oggi è universalmente osannato nell’arte. E la sua non è stata solo smania di accumulo, ma difesa strenua del valore artistico contro la barbarie dei tempi (la guerra mondiale, il nazismo) e del pensiero, di quelle opinioni dei giusti che si ergono come Gesù nel tempio distinguendo ciò che è giusto e lecito da ciò che è ambiguo e perfino degenerato. Peggy è stata una donna che ha amato l’arte in maniera tanto viscerale da sposarla ( e dico questo non solo perché effettivamente sposò due grandi artisti e ebbe relazioni intime con molti altri) ma perché considerò i suoi quadri come una famiglia, come le sue creature, difendendole e cercando loro una casa che li accogliesse dopo la sua morte. E questo matrimonio, come ogni matrimonio, non è stato senza spine, ma colmo di dramma, di solitudine, di entusiasmi, di carne e sangue, di peccati e rimorsi. Eppure mai un tradimento, per l’arte, per i mariti sì, come per gli amanti. Tutto scorreva nella vita di Peggy, restava saldo il solo amore per la sua collezione. Vi è un po’ di quella cecità selettiva che si trova nell’autodafé di Canetti, eppure mai si ha l’impressione di un patologico. Vi è sempre gioia e amore, anche nei momenti difficili. Nascose le sue sculture tra le casse di pentole per farle sfuggire ai nazisti, le pitture arrotolate tra i tappeti. E il Louvre che avrebbe dovuto difendere quelle opere disse che non c’era nulla di interessante. La cecità dell’istituzione che conserva opposta all’amore viscerale di chi opera è pietra dello scandalo oggi come allora.

Un’ottima prova d’attrice di Caterina Casini. Una recitazione naturale, fuori dall’ingessato accademismo, che per qualche istante fa dimenticare di essere nella rappresentazione, in quel teatro che Carmelo Bene diceva da Croce Verde, perché si finge di credere a chi finge di essere. Suggestive le mappature video, con i quadri che Peggy tanto amò e che formano sulla scena una ragnatela di immagini che catturano l’occhio che guarda e creano una cartografia di ricordi e di immagini. La scena certo un po’ statica con un unico oggetto di scena, un trono/poltrona, che diventa spazio abitato trasformandosi in scrivania, mobile bar, perfino gondola.

A seguire Fucsia: do I matter to you? Con la coreografia di Anna Marocco. Siamo proprio agli antipodi, come se nel cambiare sala si fosse viaggiato attraverso interi continenti espressivi. Qui la parola è assente e non solo perché siamo nel campo della danza, ma perché la scelta è di esprimere solo per immagini e corpi. Nel buio si delineano vagamente 5 flebili linee verticali, su cui avanzano i danzatori verso il pubblico. Piccoli gesti in questa camminata. Niente altro. Quasi non si vedono.

A queste linee verticali si aggiungono alcune orizzontali, che modificano il percorso, creano incroci e incontri. E via via al razionalismo iniziale ci si avvia verso una danza più espressiva, dove gli incontri diventano più passionali, quasi animali, seppur in un controllo apollineo. Un dispositivo coreografico di riconoscimento dell’umano: così nel programma di sala. Come dice Agamben il dispositivo è sempre una sorta di gioco di potere. È insita una certa volontà di manipolazione che a sua volta è manipolata. Ma i dispositivi hanno perso la loro capacità di creare un nuovo soggetto. Restano freddi e anonimi, imbrigliati nel loro razionalismo, incapaci di creare fughe verso nuovi territori perché obbligati a seguire la funzione che viene stabilita a priori. Come un romanzo a tesi tendono a voler dimostrare il loro punto di vista e questo è forse il maggior difetto che si può imputare allo spettacolo. Non ci sono vie di fuga all’immaginazione. Il dispositivo/trappola ti porta dove vuole lui per quanto cerchi di scappare.

Ulteriore difetto, secondo il mio personale modo di vedere, è una certa piattezza compositiva, in cui i quadri si equivalgono, si allineano uno di seguito all’altro, con le musiche a inseguirsi come variazioni di uno stesso tono. Non vi è sovrapposizione di linee compositive, e benché non sia di ritmo monocorde, non è che si cerchi la variazione di ritmo né frequenze che battono agli estremi della gamma. Un lavoro interessante benché imbrigliato in un eccessivo razionalismo, nel voler dimostrare una tesi. Il dispositivo/trappola imbriglia non solo chi guarda ma anche i suoi creatori.