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Leo Bassi

OPINIONI DI UN CLOWN: una serata con Leo Bassi

Tutto comincia con una benedizione. Leo Bassi appare dal fondo della sala, giacca e cravatta impeccabili e naso rosso clownesco d’ordinanza. Con serena strafottenza attraversa la platea con in mano uno scovolino da cesso con il quale benedice il pubblico. Così appare al pubblico torinese riunito al Café Müller uno dei clown più irriverenti del mondo, seminatore patologico di dubbi e fondatore di una religione devota al dio papero, protettore del riso, la cui chiesa ha una cappella nel quartiere multietnico di Lavapies a Madrid.

Leo Bassi, ultimo rampollo di una lunga e nobile schiatta di circensi (il bisnonno e il prozio furono persino ripresi in un film dai Fratelli Lumiere nel 1896!), da più di cinquant’anni gira il mondo portando i suoi spettacoli di una comicità graffiante e colmi di attivismo politico, in ogni spazio teatrale possibile dagli chapiteaux tradizionali, alle piazze, persino su navi e autobus.

La serata a lui dedicata inizia in maniera rassicurante. Leo Bassi ci racconta una storia della sua infanzia quando i genitori, siamo negli anni Cinquanta, volendo acquistare uno status borghese e rispettabile negato alla gente di circo, lo portavano a passeggiare la domenica ai Jardin du Luxenbourg a Parigi. Unico passatempo possibile per un bambino borghese e ben educato, non era giocare con la palla o correre nei prati, ma nutrire compostamente i piccioni, cosa che Leo detestava. Così ha ideato il suo primo atto di ribellione e sparso il mais al suolo e attirato lo stuolo di volatili, getta tra loro un grosso petardo che disperde lo stormo e crea scompiglio tra gli adulti. Il racconto è una sorta di dichiarazione di indipendenza, un manifesto in minore che afferma il ruolo della performance circense: non rispettare le convenzioni del pubblico ma condurlo, con la forza se necessario, nel territorio anarchico del teatro.

A partire da questo racconto-trappola, Leo Bassi inizia a condurre gli spettatori nel suo mondo irriverente dove non c’è potere economico, politico e religioso che venga rispettato e venerato, ma soprattutto dove esiste il concreto pericolo di perdere il controllo della situazione. La platea è costantemente immersa in un clima di incertezza, addirittura di pericolo, in cui tutto può succedere.

Cosa può fare un clown in un mondo in cui il capitalismo è vincitore indiscusso, onnipotente padrone che imperversa sui nostri destini, scelte e opinioni? Cosa può fare un piccolo Don Chisciotte delle scene? Seminare dubbi è la risposta, far avvertire il senso di oppressione. Ed ecco un altro racconto: in un grande supermercato il clown si trova a scuotere lattine di Coca Cola in modo che la gente comprandole, a casa, si trovi con lattine esplosive che inondino le proprie cucine e ne riportino un ricordo spiacevole che le conduca a non acquistare le bibite della multinazionale. Leo Bassi, mentre racconta, ha in mano una lattina. La scuote. Costantemente. Tutti sanno che prima o poi, lui aprirà quella lattina. Sarà verso il pubblico? È quasi certo. Le prime file cominciano ad agitarsi terrorizzate di venir bersagliate con il liquido zuccheroso e appiccicoso.

Come nella famosa performance di George Maciunas con il violino, la minaccia, reiterata infinitamente, perde efficacia, ed è allora, quando il pubblico pensa che nulla accadrà più, che Leo Bassi, con una forbice nascosta in tasca, buca la lattina da cui immediato zampilla un getto di schiuma. E il panico nuovamente si diffonde.

Il meccanismo è semplice, persino tradizionale, ma efficacissimo. Il punto non è il numero in sé, ma la connessione con l’argomento politico. Leo Bassi pone la questione della capacità del teatro di agire sul reale, di essere in grado di cambiare il mondo. L’azione teatrale può ancora essere in grado di interagire con la società, creando le condizioni per una profonda riflessione sulla crisi che la attraversano? È una domanda fondamentale per il teatro di oggi. La ricerca di una funzione delle arti performative nella società, di una loro azione politica efficace, caratterizza le creazioni di alcuni tra i più importanti artisti della scena contemporanea da Milo Rau a Agrupación Señor Serrano, da She She Pop a Rimini Protokoll.

Leo Bassi cerca la sua risposta concependo dei numeri in cui il pubblico senta sempre di perdere il controllo, Le proprie opinioni non sembrano granitiche e incrollabili, persino la propria sicurezza non viene garantita. Il ruolo consuetudinario di passivo osservatore viene demolito. Il clown recupera la sua anima demonica, diventa strumento di crudeltà tesa a strappare i veli del mondo e della civiltà per scoprire i vermi che si agitano sotto le apparenze. Tutto viene messo in discussione: la libertà, il controllo, la giustizia, l’ipocrisia di religioni e credi politici. Si mettono nudo gli scheletri nell’armadio e si impone di fare una scelta: chi si vuole essere in questo contesto?

Il clown sulla scena, quasi come Woland ne Il Maestro e Margherita di Bulgakov, allestisce il suo spettacolo di magia. Dissolve i miti della società e ci lascia svestiti, in mutande, senza certezze, come il pubblico moscovita connivente con il potere nella Russia staliniana. Il clown non è altro che angelo caduto che mal sopporta la noiosa impeccabilità del paradiso e ama perdutamente l’imperfezione della vita e che ci costringe a gettare lo sguardo sul mondo di cui facciamo parte.

Lo spettacolo termina con un’ultima domanda: in un mondo dove tutto è possibile, dove siamo assuefatti a ogni genere di volgarità e sollecitazione cosa può fare il teatro per essere veramente provocatorio? La risposta è un’invocazione alla poesia e alla minorità. Questa è l’ultima immagine che ci regala Leo Bassi: il pagliaccio in mutande, cosparso di miele e ricoperto di piume. Non più aggressivo, ma ridicolo nella sua impotenza, immagine poetica di una inadeguatezza che ci spinge ad amare le differenze, le unicità contro ogni forma di omologazione. Ci invita a essere ribelli, ad accompagnarlo nella caduta, perché non sono le vittorie, ma i fallimenti, che conducono alle grandi rivoluzioni.

Visto al Café Müller il 23 febbraio 2019

Ph: @Andrea Macchia

Varietà della Caduta

DOVE TUTTI SONO CADUTI: il Varietà della Caduta

Il Varietà della Caduta, dopo un percorso di quasi quindici anni, sta per chiudere. Il 26 febbraio 2019 sarà l’ultimo martedì illuminato dalla fisicofollia di una forma spettacolare patafisica che è stata palestra per molti artisti nella città di Torino. Sul minuscolo palco del Teatro della Caduta di via Buniva circensi e giullari, attori e danzatori, musicisti e cantautori, poeti, maghi, sperimentatori di linguaggi e semplici dilettanti, tutti hanno potuto far parte di quel varietà, provarsi di fronte al pubblico, saggiare le proprie capacità, collaudare un’idea, fallire in libertà.

Tutti quelli che cadono era il titolo del primo esperimento nel dicembre del 2004: una cornice-manifesto che conteneva i numeri degli artisti. Massimo Betti Merlin e Lorena Senestro, direttori di quel neonato caravanserraglio, dichiaravano un intento: creare uno spazio in cui poter cadere, dove il fallimento non era un dramma, ma una prova necessaria prima di rialzarsi e riprovare. Come scrive il grande funambolo Philippe Petit: “ho atteso la mia prima caduta pubblica. Mi ha fortificato, mi ha inondato di un orgoglio gioioso, come un colpo sulla spalla che incoraggia più che far male”.

Sperimentare è prima di tutto contemplare serenamente il fallimento. In un mondo dove si chiede solamente certezza, dove l’idea stessa di sbagliare è costantemente colpevolizzata, emarginata, ridicolizzata, si perde la vertigine necessaria a ogni vera creazione. Rischiare di cadere, imparare errando senza fine, fallendo ancora e meglio. Non si impara a camminare senza cadere.

Questo è stato il Varietà della Caduta: il luogo in cui tutti i possibili linguaggi erano accetti, dove chiunque poteva fallire senza tema di essere giudicato, uno spazio agibile e fruibile senza che nessuno ti chiedesse un curriculum. Il varietà si costituì intorno a questa idea che si mantenne costante nel corso degli anni, nonostante i molti cambiamenti e i diversi artisti che si occuparono di creare una nuova cornice ai numeri ospitati. Il Varietà della Caduta non era altro che un contenitore aperto a chiunque, anche al pubblico che aveva la possibilità di salire sul palco dalla platea e far parte dello spettacolo.

Intendiamoci: non era una corrida o la spettacolarizzazione dell’incapace, oggi tanto di moda: Era un’azione politica, un concedere tempo e spazio a chiunque volesse condividere, partecipare, costruire una forma indipendentemente dai risultati. Nel piccolo teatrino di via Buniva, il pubblico non era semplice spettatore e nemmeno carne da macello, era creatore insieme agli artisti di quel magico momento dove tutto era possibile, persino cadere rovinosamente senza paura di farsi male. Teatro non era un genere ma, come vorrebbe il suo etimo, principalmente un luogo, dove per due o tre ore si condivideva una utopica possibilità.

Il Varietà della Caduta fu un immediato successo. Gli artisti si affollavano per poter portare un proprio numero in quel contesto, il pubblico si prenotava con giorni d’anticipo per poter partecipare, stretto come una sardina, in quella piccola sala. Quando giunsi a Torino per la prima volta nel 2005 fu il primo posto dove mi portarono. Rimasi affascinato da quel luogo in cui un palco piccino era sovrastato da un soppalco dove, come nel teatro elisabettiano, stava l’orchestra schiacciata contro il soffitto. Una tenda nascondeva un camerino che sarebbe stato stretto per due, figurarsi per otto o dieci persone. Il tecnico rintanato in un metro quadro sul tettuccio della minuscola biglietteria. Gli spettatori pazienti in fila per strada con qualsiasi tempo atmosferico. Non c’era biglietto, si contribuiva alla fine, a cappello, come per gli artisti di strada. In quello spazio sovraffollato si respirava però un’eccitazione, un senso di condivisione e di partecipazione che raramente ho riscontrato in una sala teatrale. Di tutti i luoghi dedicati alla scena è quello in cui mi sono sentito più a casa.

Guido Catalano, I Maniaci d’amore, Matthias Martelli, Federico Sirianni, Saulo Lucci, Manuel Bruttomesso, Carolina Khoury, Benjamin Dalmas, Francesco Giorda, Marco Bianchini. In molti sono sono saliti su quel palco. Sarebbe impossibile nominarli tutti. Qualcuno ora noto e apprezzato dalla scena nazionale, altri per sempre sconosciuti, tutti sono caduti nel Varietà. L’hanno fatto con gioia, con eccitazione, qualche volta con paura, ma sicuri che lanciandosi il pubblico li avrebbe sostenuti e nessuno si sarebbe fatto male.

Il progetto iniziò senza soldi, senza finanziamenti, senza azioni di audience engagement, solo per la disponibilità e generosità di Massimo e Lorena, dalla loro idea di teatro come gioia e divertimento, e dalla voglia di molti giovani artisti di provarsi. Il pubblico raccolse quella volontà di donarsi, di giocare e di sperimentare. Lo ha fatto per quindici anni e probabilmente continuerebbe a farlo. È bastato il semplice passaparola, tanta volontà e capacità di sognare un percorso e un’idea di teatro.

Ora il Teatro della Caduta è una realtà riconosciuta e sostenuta. Molta strada è stata fatta e la realtà cittadina è molto cambiata. Forse oggi è venuto il tempo di cambiare, eppure non posso fare a meno di sentire già da ora la mancanza del Varietà della Caduta, di quella libera possibilità di cadere nel vuoto che è ingrediente fondamentale dell’arte antica del teatro.

Ph: @Enrico Auxilia

Hamlet travestie

HAMLET TRAVESTIE: L’Amleto nei bassi di Compagnia Punta Corsara

Hamlet travestie della Compagnia Punta Corsara è uno spettacolo che alla chiusura del sipario dona allo spettatore molte questioni su cui riflettere. Che mondo abitiamo? Come si difendono i deboli dall’aggressione di chi con violenza esercita il potere? E infine, per il mondo teatrale, come possiamo utilizzare il repertorio senza limitarsi a riferire un testo ma agendo con efficacia sulla realtà contemporanea?

InHamlet travestie non si assiste a una semplice attualizzazione delle vicende di Amleto, principe di Danimarca, e neppure all’utilizzo della tragedia shakespiriana, seppure contaminata dalla riscrittura di John Poole e il Don Fausto di Antonio Petito, come materiale di un congegno spettacolare volto a un divertente intrattenimento. L’operazione è molto più sottile e cerca, con leggerezza e ironia, di ritornare a un teatro come luogo da cui si guarda e si riflette sul mondo che ci circonda.

Hamlet Travestie è la vicenda di una famiglia napoletana, i Barilotto, di recente investiti dal lutto per la morte dal padre in un incidente stradale. Il figlio Amleto non crede che la sciagura sia casuale. I dubbi lo attanagliano e, roso dall’incertezza, si aggira per casa in pigiama avvolto da una coperta che sembra il manto di Arlecchino, ossessionando madre, zio e fidanzata. Amleto Barilotto si identifica con Amleto, principe di Danimarca e tutti lo prendono per pazzo. I Barilotto non hanno solo il problema della follia malinconica di Amleto, ma devono anche pagare i debiti contratti dal padre con l’usuraio Don Pasquale. I familiari si trovano quindi di fronte a un dilemma: devono provare a guarire questo figlio lunatico oppure devono farlo dichiarare pazzo e prendersi la pensione di invalidità che li aiuterebbe a sanare il debito? Su consiglio di Don Liborio, detto ‘o professore e padre della fidanzata Ornella, decidono di curare Amleto assecondando la sua follia, inscenando per lui la tragedia di Shakespeare.

Rappresentazione e realtà si vengono così a scontrare in un turbinio di colpi di scena, di fraintendimenti ed equivoci che raccontano la Napoli delle periferie, dei bassi e dei vicoli, degli espedienti per tirare a campare in un ambiente oppresso dalla malavita, dall’usura e dalla camorra. Amleto è dunque una maschera che non nasconde, ma velando disvela la trama e l’ordito di un contemporaneo difficile, oppresso da ingiustizie in cui i deboli sono afflitti da forze incontrollabili. La tragedia non è più la vicenda dell’eroe eccezionale che combatte contro i fati avversi per una colpa commessa, ma è la storia di chiunque, di ogni Everyman c’ha da passà a nuttata, e che lotta per sopravvivere nel contesto in cui le Moire l’hanno catapultato.

Il mito di Amleto permette dunque che l’avventura dei Barilotto diventi universale, condivisibile al di là degli scenari in cui si svolge. É un meccanismo per riflettere e prendere coscienza del reale. La rappresentazione non è finzione, non si simula una vicenda a cui si deve credere. Al contrario si mette in scena una possibilità che connessa con il mito shakespiriano diventa azione critica e politica. Questa diventa chiara nel finale dove, come in Train de vie, la commedia e la farsa rivelano la tragedia della vita reale.

Hamlet travestie è dunque operazione teatrale che nasconde, sotto l’apparenza leggera e divertente, un intento politico di critica della realtà. Un teatro che intende agire sul mondo non con il rigore sociologico, quasi scientifico, di molto teatro tedesco, ma con la verve e la pulsante vitalità della tradizione napoletana. In questo periodo di crisi del teatro italiano, lontano da trovare una funzione efficace nella società odierna, la soluzione messa in atto dalla Compagnia Punta Corsara, può essere un vettore di ricerca fruttuoso.

Hamlet travestie è dunque uno spettacolo di grande efficacia e impatto che sa coniugare, nonostante qualche eccesso macchiettistico, una ricerca drammaturgica di innovazione con la grande tradizione attorica della commedia napoletana. La regia di Emanuele Valenti possiede una semplicità evocativa, in cui pochi oggetti (la coperta di Amleto e le panchine di legno che diventano il banco del mercato, il pontile, la prigione) riescono a disegnare quella realtà cui si allude. L’ironica e malinconica leggerezza non è mai superficialità. È l’arma con cui i deboli sopravvivono ai mali del mondo, è il riso che cerca di disinnescare il male senza mai dimenticarlo.

Visto al Teatro Gobetti di Torino il 16 febbraio 2019

Ph: @Lucia Baldini

Prove d'autore

PROVE D’AUTORE XL: Daniele Albanese, Andrea Costanzo Martini, Daniele Ninarello

Sabato 9 febbraio alle Lavanderie a Vapore di Collegno (To) si è svolta una serata dedicata a Prove d’autore, il progetto o azione della rete Anticorpi XL che ha come scopo l’incontro tra coreografi dediti a una ricerca di nuovi linguaggi per la danza e alcuni ensemble di danzatori di formazione accademica. Per l’anno 2018 sono stati selezionati Daniele Albanese, in collaborazione con il Balletto di Toscana, Andrea Costanzo Martini, insieme al Balletto di Roma, e Daniele Ninarello con MM Contemporary Dance Company diretta da Michele Merola.

In apertura di serata è stato inoltre presentato il volume curato da Fabio Acca e Alessandro Pontremoli dal titolo La Rete che danza. Azioni del Network Anticorpi XL per una cultura della danza d’autore in Italia 2015-2017, alla presenza di Carlotta Pedrazzoli della Fondazione Piemonte dal Vivo, Selina Bassini, direttrice del Network Anticorpi XL, e Natalia Casorati, direttrice artistica di Interplay.

Prove d’autore è un tentativo di inserire nel contesto della danza d’autore nuovi modelli produttivi, quelli appunto che uniscono in un dialogo fruttuoso e di reciproco accrescimento, compagnie di balletto contemporaneo con i danzautori. Il contesto produttivo dunque assume un risvolto significativo almeno quanto gli esiti. I lavori presentati sono dunque esito di una residenza di dieci giorni in cui i coreografi hanno cercato di inscrivere nei corpi dei danzatori il loro particolare linguaggio coreografico. Un periodo così breve di lavoro intensivo rappresenta un primo passo sulla strada di una produzione e di questo paiono consapevoli i coreografi coinvolti che hanno presentato opere di durata limitata benché con un complesso disegno coreografico con una titolazione che comunica un’idea di avvio di percorso (Esperimento n. 1 di Daniele Albanese e Intro di Andrea Costanzo Martini) più che un completamento di un lungo cammino.

Tre dunque i pezzi che compongono il programma di cui due dal vivo, i due sopracitati,e uno, Blossom di Daniele Ninarello, in video.

Esperimento n. 1 di Daniele Albanese, come già nel duo Birds Flocking insieme a Eva Karczag, si ispira al volo degli stormi di uccelli, in cui il movimento, come di sciame, porta i danzatori a disegnare repentini cambi di rotte e di ritmi nonché a riconfigurazioni continue della formazione. Una esplorazione spaziale fatta di ascolto reciproco e profondo che conduce l’interprete a cogliere quanto avviene nel qui ed ora per fornire una risposta adeguata allo stormo in movimento di cui fa parte. Un intreccio indissolubile di rigore nel disegno e fluidità dell’improvvisazione.

Intro di Andrea Costanzo Martini coniuga con sapiente ironia la severa tecnica classica con la travolgente e vitale spontaneità della danza gaga. I danzatori entrano contando e ripetendo una serie di movimenti severi e ordinati che rimandano al balletto classico. Questa disciplina, il cronometrico conteggio, mano a mano si contamina di elementi altri, più spontanei seppur non meno rigorosi. Un dialogo come di forze yin e yang che s’alternano e si scontrano sul terreno del movimento e del corpo, due tradizioni che si abbracciano e si confrontano, non escludendosi ma accettandosi e integrandosi.

Blossom di Daniele Ninarello, di cui si è potuto vedere solo un breve video in cui il coreografo racconta i motivi ispiratori del lavoro insieme ai danzatori di MM e ci mostra un processo in cui ha lavorato alla creazione di piccole frasi danzate, come piccoli filamenti di DNA, e li ha sottoposti a un rigorosa evoluzione. Per citare il filosofo indiano Ananda Coomaraswamy ha imitato la natura nel suo modo di operare facendo diventare la coreografia uno sbocciare di elementi che posseggono tutti la stessa matrice originaria ma che il tempo conduce a piccole rivoluzioni evolutive e quindi un differenziarsi delle generazioni successive.

La rete Anticorpi XL propone quindi con queste Prove d’autore un percorso suggestivo di interazione tra il balletto contemporaneo e alcune tendenze della nuova danza. Sicuramente, allo stato attuale, i beneficiari maggiori di questo progetto sono i danzatori stessi che incrementano il loro bagaglio tecnico confrontandosi con le più fresche tendenze della ricerca coreutica. Affinché questi dialoghi diventino veramente fruttuosi le condizioni produttive però dovranno irrobustirsi di modo che i lavori, a oggi dei piccoli esperimenti, possano costituirsi veramente come repertorio solido e realmente innovativo inserendosi nelle programmazioni di festival e teatri.

Ph: @ Fabio Melotti

Dynamis

PICCOLI CRUDELI GIOCHI SPAZIALI: M2 di Dynamis

Dynamis, collettivo artistico romano, concentra la propria attività su quel labile confine tra teatro e performance, ma è sul margine della frontiera che le cose succedono, laddove tutto è ibrido e permeabile. M2 è un esempio di questa loro ricerca e per la natura partecipativa del suo manifestarsi sulla scena è accostabile ad analoghi esperimenti quali Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier o a P Project e I cure di Ivo Dimchev.

M2 è andato in scena in questi giorni (31 gen.-2 feb.) in uno dei luoghi cardine della ricerca scenica nella capitale, le Carrozzerie N.o.t, guidate da Maura Teofili e Francesco Montagna, che a Trastevere svolgono un’intensa attività di alto profilo non solo con la stagione proposta, ma soprattutto nel sostegno alla produzione e nella formazione, inserendosi nel tessuto sociale del quartiere non come corpo alieno ma come luogo di necessità vitali.

Come possiamo descrivere M2? Mejerchol’d diceva che in teatro tutto parte dal suolo e i Dynamis sembra che lo abbiano preso in parola avendo costruito un intero evento teatrale su una semplice domanda: cosa si può fare in un metro quadrato di spazio? La banale questione pratica sembra in sé inoffensiva. Pare un problema per architetti, arredatori, ingegneri Ikea pronti a progettare mobili componibili per abitare angusti monolocali. Niente lascia sospettare che la domanda nasconda insidie velenose e quanto mai urgenti e attuali.

Poco prima che inizi lo spettacolo i Dynamis cercano tra il pubblico del foyer sette volontari che prendano parte alla performance. Una volta costituito. il piccolo gruppo viene condotto sulla scena e istruito sulla natura dell’esperimento dal tutor/performer Francesco Turbanti. Poche semplici regole: non si deve recitare ma semplicemente essere se stessi nel risolvere i problemi; utilizzare gli oggetti contenuti negli zaini di diverso colore quando vengono richiesti dalla voce fuori campo; seguire le indicazioni. Sembra tutto molto rassicurante e facilmente eseguibile.

Il pubblico entra in sala e ha inizio l’esperimento guidato dal tutor e dalla voce fuori campo (del regista Andrea De Magistris). La performance si sviluppa come un gioco collaborativo: i sette volontari devono risolvere dei compiti che via via diventano sempre più complicati e rivelano la vera natura della questione. Come ci ricorda la voce: non vi è luogo più pericoloso della scena teatrale.

La zolla d’erba di un metro quadrato è circondata da acque profonde, è un ambiente ricco e confortevole. Uno alla volta i volontari devono occupare questo territorio che si fa via via più angusto. Con l’aumentare della popolazione si complicano le dinamiche di coabitazione. Sorgono la religione e la politica con le loro conseguenze; esercizio del potere, collaborazione, convivenza, discriminazione, esclusione, ecologia.

Il metro quadro si pone tra due diverse comunità: quella delle cavie che si affannano per rivolvere i compiti assegnatigli, e quella degli spettatori che comodi osservano quanto accade in quel piccolo quadrato di spazio. In un solo caso le due popolazioni possono scambiarsi di ruolo. Si può provare sulla propria pelle cosa vuol dire abitare quel luogo saturo di persone e sempre meno confortevole man mano che la performance procede.

Come nello spettacolo di Woland ne Il Maestro e Margherita di Bulgakov i numeri di magia diventano trappole che ingabbiano lo spettatore e rivelano la natura di una società, così in M2 le varie prove, all’apparenza divertenti giochetti, palesano le faglie oscure che attraversano il nostro presente. Il tutor nel frattempo assume ruoli sempre più ambigui: assistente dell’implacabile voce fuori campo si dimostra essere non tanto un alleato delle cavie, quanto una sorta di Azazello provocatore, un distributore di false informazione, un torturatore, un sorridente lestofante.

L’esperimento performativo dei Dynamis non possiede certo il rigore di uno studio sociologico o antropologico. È teatro pur nel significato ampio del termine che oggi assume la parola. Si pongono questioni, si suggeriscono delle problematiche ma soprattutto non si sostengono tesi né si danno soluzioni. Si evoca una crisi di fronte e insieme alla comunità/pubblico. Il luogo teatrale diventa osservatorio del reale tramite l’esercizio del meccanismo performativo. È esperienza e partecipazione di una comunità mediante il mezzo della rappresentazione.

M2di Dynamis è un dispositivo di teatro partecipativo che possiede il grande pregio di affrontare temi spinosi e delicati con grande leggerezza e ironia. Se oggi quest’ultima si trova sempre più depotenziata, non arma corrosiva ma disinnesco di ogni criticità, nel caso di Dynamis essa è invece ingrediente fondamentale senza il quale l’esperimento performativo si ridurrebbe o a volgare e inutilmente crudele esercizio di potere, oppure a freddo meccanismo pseudo scientifico. La truffaldina leggerezza invece riesce a sollevare il velo evocando contesti ben più foschi di quelli che si osservano su quella zolla d’erba al centro della scena.

M2di Dynamis, è performance molto coinvolgente e che solleva interrogativi pressanti e necessari, con un linguaggio fresco che riesce a parlare al pubblico che riunisce intorno a sé. Certo il meccanismo non è perfetto, qualche aggiustamento sarebbe forse necessario (per esempio quando il tutor evidenzia infrazioni alle regole da parte dei volontari che in realtà non avvengono, così come l’esercizio di piccole crudeltà simulate che generano a loro volta simulazioni da parte dei partecipanti, momenti in cui si giunge a quel recitare che invece si voleva evitare), Sono piccole regolazioni da apportare al meccanismo perché risulti pienamente funzionante ed efficace, un congegno scenico peraltro che dimostra una laboriosa, accurata e sincera ricerca. La partecipazione del pubblico infatti oggi è molto invocata e abusata. Diventa spesso pretesto. Nel caso di Dynamis si sente la necessità della sua presenza che trasforma la scena, in maniera leggera ma intelligente, in una piccola agorà dove la comunità si trova ad affrontare le crisi che la attraversano.

Ph: @Elisa D’ippolito

Matilde Vigna

INTERVISTA A MATILDE VIGNA SU AMINTA DI ANTONIO LATELLA

Dopo aver visto Aminta di Antonio Latella al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano ed essere rimasto affascinato dall’uso sonoro e musicale della parola del Tasso, ho sentito la necessità di conoscere e approfondire le fasi di lavorazione. Ho incontrato in questa intervista Matilde Vigna, cheinsieme a Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta e Giuliana Bianca Vigogna compone il cast di Aminta.

Matilde Vigna, è stata vincitrice del premio Ubu 2016 come migliore attrice under 35 insieme all’intero cast di Santa Estasi, sempre per la regiadi Latella. Recentemente è stata protagonista di Causa di beatificazione per la regia di Michele di Mauro, presente nel cartellone dello scorso Festival delle Colline Torinesi, e di Spettri per la regia di Leonardo Lidi alla Biennale Teatro 2018.

A partire da quale elemento avete iniziato ad affrontare il lavoro su Aminta?

Direi che ci siamo approcciati ad Aminta guidati da due direttrici: il lavoro sul verso e la ricerca di Amore. Abbiamo affrontato Tasso partendo dal verso, esplorando non soltanto la sua metrica e musicalità ma anche la verticalità dello stesso, la sua capacità di portarci in profondità. Allo stesso tempo ci siamo chiesti cosa sia amore – Amore? è infatti la domanda iniziale dello spettacolo. Cosa sia per noi oggi, cosa fosse per lo stesso Torquato Tasso, come questa parola (così difficile da dire, attorialmente parlando) ed il suo significato possano essere declinati in un’infinità di modi. Questa domanda è la freccia iniziale che scagliamo in mezzo al pubblico. Il verso è la corda tesa e vibrante che permette – assieme al lavoro musicale di Franco Visioli – questa scoccata.

Attraverso quali fasi il testo scritto, quello che Carmelo Bene chiamava il morto-orale, si è trasformato in parola viva?

Il lavoro di Antonio Latella con noi attori è stato principalmente incentrato sulla concretezza del verso parlato. Inoltre il lavoro con Linda Dalisi sul testo, a livello di comprensione, etimologie, radici storiche e curiosità, è stato fondamentale per la nostra comprensione ed appropriazione del testo stesso. Le dinamiche tra gli attori che dialogano (I personaggi infatti nella presentazione della prima edizione di Aminta vengono chiamati INTERLOCUTORI) rendono il verso vivo, concreto, radicato, è un lavoro in “verticale”. Latella ha insistito molto sulla verticalità. Il verso si fa carne, ci attraversa, ma ogni verso è una freccia scoccata dritta verso il pubblico. Anche il suono curato da Franco Visioli va nella direzione della verticalità e non secondario è stato per noi l’ostacolo/arma rappresentato dai microfoni, governati sempre da Visioli. Non fermarci al suono della nostra voce, alla musica del verso. Il microfono ci “ruba l’anima”, ma la direzione è sempre verso l’Altro e non può fermarsi alla capsula del microfono.

Puoi raccontarmi qual è stato il processo di messa in scena? quali sono state le differenti fasi di lavorazione?

Il primo incontro è avvenuto nell’ottobre 2017. Abbiamo incontrato il regista e la sua

squadra e il resto del cast, ed è stato entusiasmante. In questa fase abbiamo lavorato con Linda Dalisi, sul testo, sulla storia del Tasso e sul periodo storico, sulle varie versioni di Aminta e sull’iconografia e le esperienze musicali collegate. Anche noi attori avevamo dei compiti da preparare e questo è stato fondamentale per immergerci da subito totalmente nell’opera e in noi stessi, per contaminarci a vicenda e anche per farci conoscere dal resto della compagnia. In questa sede abbiamo lavorato con Francesco Manetti sulla polka: com’è evidente nello spettacolo la scelta è stata radicalmente diversa ma credo che il lavoro sul ritmo ci sia rimasto dentro e ci abbia permesso di dire poi i versi nell’immobilità senza perdere mordente. A marzo 2018 c’è stata un’altra fase di lavoro a Esanatoglia, nelle Marche. Noi attori dovevamo arrivare con la memoria del primo atto e alcuni dei pezzi musicali. Abbiamo iniziato ad incarnare i versi, a provare soluzioni sceniche. In questa fase noi attori “nuovi” al lavoro con la compagnia Stabilemobile abbiamo potuto toccare con mano la qualità di una compagine di artisti e professionisti di altissimo livello. Antonio Latella guida una squadra encomiabile e noi giovani ci siamo sentiti parte di un processo creativo plurilaterale – e in queste condizioni memorizzare pagine di versi diventa un piacere e un onore. A ottobre 2018 il processo si è concluso a Macerata, dove Aminta ha debuttato l’8 novembre al Teatro Lauro Rossi. In questo frangente il secondo tempo si è concretizzato, abbiamo aggiunto un ulteriore pezzo musicale (Vitamin C), il lavoro su noi attori, su luci, suoni, scena e costumi si è definito.

In che modo sono emersi i materiali musicali e quale rapporto instaurano con il testo?

Le scelte musicali sono opera di Latella e Visioli. Il Lamento dell Ninfa di Claudio Monteverdi (coevo del Tasso) si colloca nel primo atto dove predominano immobilità, costumi neri (ad eccezione di Tirsi), e restituzione del testo originale. Nel secondo tempo, dopo il monologo del Satiro – ossia qui la trasformazione di Aminta nel Satiro ad opera di Silvia – tutto cambia. La poesia si perde pur rimanendo, Amore ha scoccato la sua freccia, c’è una liberazione, un urlo. Sopraggiunge il rock. Quindi PJ Harvey con Rid of Me all’inizio e Vitamin C dei CAN alla fine. Oltre alla musicalità penso che anche le allusioni più o meno esplicite contenute nei testi di queste canzoni abbiano suggerito a Antonio Latella la loro collocazione.

Antonio Latella nell’intervista che mi rilasciò a luglio 2017 alla Biennale Teatro, mi disse chesecondo lui era finita l’era del regista-capitano della nave. Stava emergendo piuttosto una nuova figura, più simile a un direttore d’orchestra o a un compositore. Dal punto di vista di un attore come vedi questa trasformazione del ruolo del regista? Si avverte questo cambio di rotta?

Decisamente. Antonio Latella guida una squadra di artisti che lavorano in autonomia, che propongono, c’è un confronto continuo. L’immagine del direttore d’orchestra è calzante. Per noi attori soprattutto Antonio Latella è guida maieutica, non impositrice: seguiamo chiaramente le sue indicazioni, ma è evidente come lui parta da noi, e non imponga nulla. Lo spettacolo si crea lavorando con noi attori con i nostri corpi e le nostre intelligenze e lui è maestro in questo. Forse è semplicistico dire che tutto si riduce al cast, ma penso che abbia saputo abilmente selezionare gli attori che potessero tradurre la sua idea di Aminta nel 2018.

Quale ruolo assume l’interprete in questa nuova creazione di Antonio Latella?

L’interprete è fondamentale. O, per tornare alla dicitura primaria di Tasso, l’interlocutore. Abbiamo il compito di riportare la meraviglia di questi versi facendoci attraversare, con un movimento necessariamente verticale. La musica ci supporta, i microfoni ci amplificano, il faro su rotaia circolare compie il suo moto di rivoluzione attorno a noi ma alla fine – complice anche la quasi totale immobilità – tutto si riduce a noi e alle parole del Tasso. Ed è nostra responsabilità ogni sera lasciare che questo accada, perché senza la nostra totale adesione la difficoltà della lingua rischia di superarne il valore, e questo non può accadere. É infatti un lavoro politico, di riscoperta senza edulcorazioni della ricchezza della nostra lingua madre, in un tempo di impoverimento e imbarbarimento linguistico e – se mi è permesso – non solo.

Qual è stata la tua principale difficoltà, come attrice, nell’affrontare Aminta, e come sei riuscita a superarla?

Personalmente, lasciare che Silvia fosse. Prima del debutto ero molto spaventata: temevo di non essere all’altezza, che nel mio sentirmi “troppo poco” caricassi eccessivamente o non fossi all’altezza del disegno registico, così elegante, forte e rigoroso. E devo ringraziare Antonio Latella che ha capito il mio momento di disagio e mi ha dato fiducia. Allo stesso modo il supporto di Franco Visioli sulla parte musicale per me è stato fondamentale e mi ha fatto esplorare nuove fantastiche possibilità.

Ph: @Brunella Giolivo

Domesticalchimia

Una Classica Storia d’Amore Eterosessuale: intervista alla compagnia Domesticalchimia

Al termine delle repliche milanesi presso Campo Teatrale, abbiamo deciso di fermarci a chiacchierare con la compagnia Domesticalchimia dopo aver assistito al loro ultimo lavoro: Una Classica Storia d’Amore Eterosessuale. Diretto da Francesca Merli e scritto da Camilla Matiuzzo, sulla scena Davide Pachera, Giulia Maulucci e Massimo Scola costruiscono in una lunga serie di quadri la loro composita e parossistica visione delle relazioni, facendo leva su un linguaggio che forza il realismo verso i lidi del paradosso e del cinematografico. Avevamo però voglia di scoprire qualcosa di più sulle motivazioni e i meccanismi compositivi sottesi al lavoro di una compagnia giovane che prova attraverso la sperimentazione, personale e attoriale, a rimettersi costantemente in discussione.

Chi è e che cos’è Domesticalchimia? Com’è strutturata la vostra “alchimia familiare”?

La compagnia è nata ufficialmente nel 2016, siamo Francesca Merli (regista e drammaturga), Federica Furlani (sound designer e compositrice) ed Elena Boillat (coreografa e performer) e, conoscendoci da un po’ di anni, abbiamo dei temi che volendo o meno continuano a ritornare in tutti i nostri lavori. Con una certa frequenza ricorre il tema dell’infanzia: “un bambino che non sa se vuole crescere”è una frase che un pochino ci rappresenta. La morte è un altro tema che torna, proprio perché ci piace affrontare ciò di cui abbiamo paura e che tendiamo a rifiutare.

Questa volta avevamo voglia di esplorare la complessità delle relazioni familiari e quelle all’interno della coppia. I nostri spettacoli parlano molto spesso di storie di abbandono e di solitudine, e in generale indaghiamo le stesse ferite che abbiamo un po’ tutti noi e di cui tutti facciamo esperienza. Finora ogni lavoro tenta un linguaggio a sé, ed è un’esplorazione sempre diversa. Anche gli attori con i quali lavoriamo sono artisti che vengono da formazioni accademiche diverse. Non sempre si parla la stessa lingua all’inizio di un progetto, ma poi si trova sempre un modo per relazionarsi e iniziare la creazione. Ci piace lavorare con attori “che hanno fame di fare insieme”, nel senso che l’attore deve essere sempre messo nella condizione di sviluppare una personale curiosità rispetto al progetto. Nei nostri lavori rischiamo molto, anche perché diamo molta autorialità allo spettatore. Pensiamo che sia molto importante lavorare in squadra: è quando si sente di avere un obiettivo comune che gli spettacoli riescono; non sempre accade, ma l’importante è avere chiaro quello che vuoi andare a fare, almeno le intenzioni di partenza.

E per Una Classica Storia d’Amore Eterosessuale?

Qui la missione era il pubblico, incontrarlo veramente. Abbiamo imparato qui a Campo Teatrale che ogni sera lo spettacolo cambia in base a chi c’è in sala.

In questo approccio così orizzontale, anche le drammaturgie sono a più mani? O sono frutto di una scrittura privata che si traduce man mano?

Il Contouring Perfetto, il primo spettacolo ufficiale della compagnia (lo abbiamo visto lo scorso anno presso il Teatro delle Passioni di Modena, http://www.enricopastore.com/2018/02/16/contouring-perfetto-domesticalchimia/ ) è nato dalle improvvisazioni delle attrici, poi trascritte e rielaborate dal drammaturgo Riccardo Baudino. In quello spettacolo esiste poi una vera drammaturgia del movimento, a cura di Elena Boillat, e del suono, a cura di Federica Furlani, ed è stato il primo lavoro propriamente collettivo.

Per Una Classica Storia d’Amore Eterosessuale è stato diverso. C’erano alcuni temi che Francesca voleva esplorare, ma anche la consapevolezza di non voler scrivere un testo in solitaria. In seguito a una residenza presso Emilia Romagna Teatro è stata Camilla Mattiuzzo, drammaturga, a guardare gli attori in faccia uno per uno e a concepire un testo che fosse per loro. Esisteva una bozza, delle prime suggestioni, ma i personaggi sono nati in seguito ad una serie di interviste. Una sorta di battesimo: ci si chiedeva di attingere a un modo di essere personale, intimo, privato, coinvolgendo comunque la dimensione recitativa, e da lì è nato il materiale che su indicazioni di Francesca è confluito nel testo di Camilla. Per noi è stato molto importante, perché tutti i giochi nati lì ritornano tutti sulla scena.

Mi aggancio al vostro lessico per dare degli input senza domanda. Oltre al titolo ci sono alcune parole che arrivano subito: le penso come a quelle che Peter Brook chiamava “parole radianti”. Fra le molte vorrei soffermarmi su due. La prima è “soddisfazione”. È un concetto su cui insistete particolarmente, e per di più si situa all’interno dei due macro binari su cui corre lo spettacolo: la sfera familiare e quella emotiva. Binari che però ci presentate già sfasciati: non solo pensando alla famiglia come struttura archetipica tribale, unica a consentire col riconoscimento l’accesso dell’individuo all’età adulta; ma anche pensandola nelle sfumature della sociologia moderna, in cui questa è l’unica garanzia di assistenza umana nel momento in cui una dimensione “esterna” al nucleo biologico (vedi lo Stato, le sicurezze economiche e lavorative sottoposte a una erosione crescente) viene a mancare. Però ancora, la modalità di relazione che mettete in atto risulta pazzesca, in quanto c’è un ossessivo rivolgersi proprio verso l’esterno, qui il pubblico, mentre è difficilissimo che ci sia una comunicazione fra gli attori. E se la soddisfazione diventa tutto il metro della felicità personale, l’amore si situa comunque difficilmente, nel momento in cui il desiderio è sempre sbilanciato verso la realizzazione del sé. La seconda parola invece, decisamente disturbante e insistita, è “normalità”, che qui sembra sottintendere “normativo”.

Sulla “soddisfazione” hai proprio centrato il tema. Era una cosa che ci ripetevamo spesso prima di iniziare la creazione, di quanto per noi come generazione sia faticoso il cercare di valere qualcosa per gli altri. Questa fatica ci è stata trasmessa in primis proprio dalla famiglia, infatti i personaggi in scena ricercano una soddisfazione proprio all’interno del nucleo familiare. È un tema forte per la nostra generazione, quello di sentirsi insoddisfatti. Rispetto alla “normalità” invece diciamo che in effetti è la paura che ha inciso di più sull’essere umano del nostro tempo e, a scanso di retorica, in particolar modo sulle donne. Ci hanno inculcato tanto bene il fatto che normalità sia sinonimo di sicurezza e che questa sia poi una promessa di felicità: si passa la vita a dire “non posso fare questo se non ho quest’altro”, “non posso fare un figlio se non ho uno stipendio, non posso fare uno spettacolo se non ho una grande produzione, etc”. Un’insistenza sull’“essere normale” che significa adempiere a una categoria che possa far accedere alla felicità, il che è un grandissimo equivoco.

Secondo voi questo è davvero collegato, come ci dite nello spettacolo, a uno stile di vita medio-borghese? E nonostante tutto quello che a livello di pensiero si è succeduto nel corso del Novecento, non solo a livello di psicoanalisi: ha ancora senso parlare della ricerca della felicità collegata alla medio-borghesia?

Il concetto di normalità è più legato a un concetto di stabilità, che per noi ha un grande significato, perché forse irrealizzabile. Con lo spettacolo forse prendiamo un po’ in giro la psicoanalisi e la sua volontà di non giudicare l’altro. Nel momento in cui un figlio manifesta un disagio, lo si porta immediatamente dallo psicologo. Lo portiamo a parlare con una terza persona, con uno sconosciuto, prima di chiedergli realmente cosa c’è che non va. Fatichiamo ad ascoltare, oggi più che mai. Prima i figli erano un po’ i figli di tutti, erano i figli del quartiere, forse anche della povertà, ma si cresceva con la consapevolezza che non si era soli. Ora invece le famiglie sono formate principalmente da un nucleo ristretto: i genitori e un figlio. Punto. Dove la normalità va sempre ricercata. Dove se un figlio ha alcune difficoltà a scuola, basta poco per “diagnosticare” dei D.S.A (disturbi specifici dell’apprendimento): sentiamo la necessità di dare etichette. Dove sta la “normalità”? Noi non lo sappiamo di certo, ma è un valore ancora importante per la nostra società, un’oasi che si cerca nel deserto.

Emerge dallo spettacolo un’idea dei rapporti che lascia intendere una sfiducia nella possibilità di costruzione anche considerando le linee di fuga che tracciate.

No, non si tratta di sfiducia, c’è la consapevolezza e l’apertura data dalla scelta che ognuno di noi può fare. Noi ci siamo chiesti molte volte se stavamo mettendo in scena i nostri genitori oppure come saremo noi genitori. Ci siamo risposti che sì, siamo noi quei “tipi” di genitori. Alla fine, forse “normalità” è solo riuscire a vivere senza i dubbi che ti danno gli altri. E la norma oggi è ben più ampia rispetto a quella delle nostre madri o nonne. No, non c’è sfiducia, piuttosto un “così doveva andare”.

E ora? Che progetti ci sono per il futuro?

Abbiamo pensato a un nuovo progetto che si chiama La Banca dei Sognibasato sul libro omonimo di due antropologi francesi che hanno fatto una lunga indagine sull’attività onirica delle persone. Ci ha commosso il fatto che questa indagine fosse nata da una perdita improvvisa, il lutto del loro primo figlio. Per rielaborare questo doloroso trauma hanno deciso in un momento in cui i loro sogni e incubi erano così ingombranti di capire come e cosa sognano le persone. Partendo dalla loro ricerca, inizieremo la nostra in diverse tappe e città d’Italia.

Sarà importante capire attraverso i sogni delle persone qual è il quadro della nostra società, dove risiedono le nostre fantasie, le ansie e le paure del nostro tempo, in che tipo di società viviamo.

Roberto Latini

INTERVISTA A ROBERTO LATINI: fare la verità, non recitare la recita.

L’accesso alle fonti di finanziamento, la loro rendicontazione, i parametri e gli algoritmi che decidono della bontà di una pratica teatrale, sono alcune tra le urgenze con cui chiunque voglia fare danza o teatro in Italia si trova a dover combattere. In questi giorni più che mai visto l’incedere della fatidica data del 31 gennaio, scadenza ultima per la presentazione delle domande di contributo al Ministero. Roberto Latini ha deciso di non partecipare, di rinunciare a tale fonte di finanziamento. In questa intervista abbiamo voluto approfondire i motivi della sua scelta e indagare le prospettive e gli scenari che si possono aprire per la scena italiana come conseguenza di questo suo atto.

Il 10 gennaio hai annunciato con un post su Facebook la tua rinuncia ai contributi ministeriali a partire dal 2019. Quali sono i motivi che ti hanno spinto a prendere questa decisione?

Motivi etici ed economici. È paradossale anche il paradosso. Penso che la condizione dei contributi ministeriali sia completamente da rivedere nei suoi fondamentali. Si sta cercando da anni di migliorare, certamente qualcosa è stato fatto, ma credo che ci siano vizi di fondo a compromettere ogni sforzo. Il più importante è, a parer mio, che la traduzione in milaeuro delle domande viene parametrata sulla capacità di deficit che ogni compagnia è in grado di presentare. Non viene considerata davvero l’artisticità.

Il rischio che ormai è lì, nel quotidiano, smaschera le scelte tra ciò che si vorrebbe fare e ciò che converrebbe. Abbiamo scelto di rimanere in quello che sentiamo, non in quello che sarebbe adatto agli algoritmi del ministero. Penso che questo sia il pericolo più grande e non abbiamo accettato di rimanere nella pericolosità della convenienza. Il teatro andrebbe sollecitato, non diminuito nelle sue prospettive. Il sistema dovrebbe essere premiante rispetto alle aspirazioni, non alle consolazioni. Abbiamo rinunciato, quindi, per proteggere la nostra artisticità.

Quali sono, a tuo avviso, le soluzioni di sopravvivenza per la ricerca teatrale italiana qualora essa si svincoli dal sostegno pubblico?

Contesto il sopravvivere, mi dimetto dalla sopravvivenza. Il punto è proprio questo. Non ci faccio pace con le strategie. Non si tratta più di mantenere in vita il moribondo. Andrebbe lasciato andare. Allora, forse, il teatro potrebbe smarginalizzarsi dal suo riservismo. Però, il problema della cultura è purtroppo culturale.

Quali sono i rischi connessi all’attuale sistema di sovvenzionamento? e in che modo, secondo te dovrebbe essere strutturato per essere veramente utile? Ho cercato di dire che questo sistema ormai non tutela quanto produce. Non offre neanche la possibilità di errore, quindi di crescita. conviene stare nei limiti del proprio mondo ed è un peccato. Penso che si dovrebbe ripensare tutto dal principio. dai fondamentali. Ci sono ormai tante esperienze in Italia che potrebbero far scuola. Ci sono tante persone in Italia che sono scuola quotidiana. Il teatro siamo tutti. E smetterla, anche, di tenere separate la prosa e la ricerca. Il teatro dovrebbe essere uno: quello nel contemporaneo. Il resto è intrattenimento.

In che modo gli addetti ai lavori e la critica, possono essere d’aiuto al fine di riformare o riformulare un sistema produttivo che ormai da decenni diventa sempre più chiuso, claustrofobico e ridondante?

Ci si dovrebbe dimettere tutti.

E’ veramente possibile sfuggire al sistema? ti pongo questa domanda pensando principalmente ai giovani, a coloro che iniziano e affrontano il rischio di avviare una carriera quanto mai incerta e precaria. Quali soluzioni possono adottare per dare consistenza produttiva al loro agire teatrale?

Non lo so, davvero. Penso sia possibile mantenersi nella coscienza. Nella coerenza. Quella che chiamiamo carriera dovrebbe essere una conseguenza, non un obiettivo. I giovani non sono diversi dai meno giovani. tutti quanti dovremmo mantenerci ogni sera nel patto con gli spettatori. È l’unica cosa davvero importante. Dovremmo fare la verità, non recitare la recita. Cominciando da chi incontriamo nello specchio in camerino.

Aminta

S’EI PIACE, EI LICE: Aminta di Antonio Latella

Se piace è lecito. Così canta il coro nel primo atto di Aminta di Torquato Tasso. L’amore contrapposto all’onore e al decoro, un invito ad amare perché :”non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua”. Aminta è un dramma pastorale che parla d’amore, un genere quanto mai distante dall’oggi e messo in scena per la prima volta probabilmente il 31 luglio 1573 dalla celebre Compagnia dei Gelosi, fondata da Flaminio Scala. Qual è dunque la sfida di Antonio Latella? Superare l’antagonismo tra ricerca e repertorio al fine di coniugare l’innovazione con la grande tradizione.

Anche Milo Rau nel suo recente Gent Manifesto persegue lo stesso obiettivo, sintomo che forse oggi bisogna porsi la questione e ripensare il rapporto con il passato e le funzioni del teatro. Le vecchie categorie invalse fino alla fine del Novecento stanno decadendo, la parola avanguardia risulta stantia, senza più alcuna valenza rivoluzionaria, così come il teatro di rappresentazione classico ha perso la sua capacità di affascinare e di far credere. Un nuovo connubio tra due anime che hanno perso vigore potrebbe essere salutare.

Antonio Latella dunque vuole provare ad andare al di là di un invalso pregiudizio che oppone due maniere di fare teatro. In verità tradizione non significa affatto immobilismo o vieto conservatorismo. La parola deriva dal latino tradere, consegnare oltre, trasmettere. Indica un movimento, non una stasi. Hobsbawm e Ranger, non a caso, intitolarono il loro saggio L’invenzione della tradizione, a significare il continuo riassestamento e riformulazione di ciò che si tramanda da una generazione all’altra. Il filosofo Alessandro Bertinetto arriva a teorizzare che ogni opera d’arte sia di fatto una sorta di improvvisazione perché nel venire al mondo inventa nuovi canoni e rinnova il linguaggio che riceve in consegna e senza nessun piano preordinato. Quello che si definisce canone, quindi, non è nient’altro che il frutto di piccole e continue variazioni, deroghe, libere eccezioni, tradimenti e innovazioni.

D’altra parte, come non è sufficiente adottare un tema o un testo contemporaneo per essere innovativi, nemmeno l’uso di un testo vecchio di quattro secoli e di una lingua desueta e nobilissima costituita di endecasillabi e settenari definisce un agire conservatore. È il modo in cui si utilizzano i materiali, le tecniche impiegate e le funzioni che si attribuiscono al proprio fare che ci posizionano in un campo o nell’altro.

Se Antonio Latella avesse ricostruito le scene e le modalità della corte estense all’epoca del Tasso ci troveremmo di fronte a niente più che un restauro nostalgico di tempi perduti, ma non è questo il caso. La versione di Aminta che ci propone è per molti versi innovativa proprio perché inserisce una nuova variazione all’interno di una tradizione novecentesca che si è posta il problema di quale rapporto potesse instaurarsi tra testo letterario e scena.

Quattro bravissimi interpreti (Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta, Matilde Vigna e Giuliana Bianca Vigogna) emergono dal buio. Sulla scena solo quattro aste con microfoni circondati da un binario su cui lentissimo gira, in senso orario, un riflettore. La parola non è mai riferita, diventa suono in azione, colpisce come freccia al di là dei significati, incanta come musica d’Orfeo. La sensazione di concerto si rafforza a ogni nuovo incontro musicale: dapprima Monteverdi, e poi Rid of me di P. J. Harvey fino a Vitamin C dei Can (questi ultimi due brani suonati in scena da Matilde Vigna). L’azione è minimale. Pochi spostamenti, qualche minimo cambio di direzione. Un’unica vera scena, alla fine della prima parte, in cui Aminta si denuda e viene legato coi suoi propri vestiti, per essere trafitto, come San Sebastiano, dalle aste dei microfoni. Alla fine un ritorno lentissimo nel buio.

L’amor di cui si canta non ha niente di mieloso o stucchevole. É innanzitutto potenza della natura che sconvolge e urta. L’amore che i greci raffiguravano come bambinello bendato pronto a scoccare le sue temibili frecce, è appunto arma che ferisce e sconcerta, perché amare è andare contro il proprio ego, è un viaggio verso l’altro e il diverso. Eros, come racconta Platone, è figlio di Poros e Penia, di ingegno e povertà, ed è tutt’altro che bello, bensì rude e vagabondo perché come la madre è legato al bisogno. E proprio per questo e non per caso che tutti i volti contrastanti e conflittuali di Amore siano presenti in questo dramma pastorale: dall’ingenua speranza alla più nera disperazione, dalla bestialità del fauno al cinico distacco di Tirsi, il calore d’Aminta e il gelo di Silvia.

Tipico del dramma silvano questo restar sul filo della tragedia. Nato come complemento alla triade tragica, esso la evocava e ne sfuggiva per il rotto della cuffia. In quel dire antico, in quei versi in cui ci si perde, vi è sentore di minaccia e di bisogno. L’amore è sale della vita ma anche forza contrastata, che si conquista con la lotta e la fatica. Non è scontato né facilmente donato. È lotta sull’orlo di quel baratro da cui si getta Aminta: ci si salva ma per miracolo divino.

In conclusione, per descrivere questa Aminta di Antonio Latella, potremmo usare le parole che spese il De Sanctis a proposito dell’opera di Tasso: “una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo”. Sprezzatura, come diceva Baldassarre Castiglione, è quell’arte di far apparire semplice ciò che assolutamente non lo è. Aminta di Antonio Latella sembra possedere una minimale semplicità in questo suo essere quasi priva di azione, ma è densa di dramma, di contrasti, di forze evocate e scatenate dalla parola. Qualcuno potrebbe obbiettare che la lingua antica sia tutt’altro che semplice, popolare e facilmente intellegibile a un pubblico non preparato. Se il proposito fosse quello di riferire una storia di ninfe e pastori allo spettatore odierno forse si avrebbe ragione, ma qui l’intento è tutt’altro: la vera protagonista è la potenza della parola, la sua forza quasi magica di evocare e smuovere, un verbo che non è discorso ma, come diceva Giulio Caccini, è canto: “senza misura, quasi favellando in armonia con sprezzatura”.

Vista al Teatro dell’arte alla Triennale di Milano

Ph: @Brunella Giolivo

Piccola Compagnia della Magnolia

Piccola Compagnia della Magnolia: MATER DEI

Dal 16 al 21 gennaio al Teatro I di Milano la Piccola Compagnia della Magnolia ha messo in scena un primo studio di Mater dei, testo inedito di Massimo Sgorbani.

Una vasca quadrata colma d’acqua in cui è immerso un uomo. Egli è muto, coperto da una maschera, vestito di bianco. Al centro un’isola e su di essa un trono su cui siede la madre di molti dei. Ella racconta in un fiume di parole il suo incontro con il dio, che si presenta come combattimento più che romantico appuntamento. Per i greci, ma in generale per gli antichi, la divinità irrompeva nella vita dell’uomo, squassava dirompente, percuoteva come martello, sconvolgeva e traumatizzava, annichiliva i sensi, sconvolgeva il linguaggio. Il confronto con il divino era paragonato allo stupro e al rapimento, perché violento, non richiesto né permesso, rubato contro la volontà. Così il dio irrompeva nella vita dei mortali, uomini o donne non importa. E questo accoppiamento illecito, contro natura, era uno dei motivi che spingeva il divino a scendere sulla terra. L’altro era la vendetta. Eros e Thanatos, i due motori dell’interesse divino per la mortalità.

La madre ripercorre la sua storia, la racconta non tanto allo spettatore, quanto a quel figlio muto che s’aggira d’intorno, immerso nelle acque, senza parola alcuna. Lo stupro del dio, la gestazione di quei figli imposti, il parto. Dodici figli divini, più un ultimo mortale. Tredici. Numero infelice. Ed è proprio la parola che distingue quel figlio dagli altri, perché agli dei non serve linguaggio, c’è l’azione potente e irrompente, c’è il potere che si esercita sulle cose senza nulla dire.

Il figlio eppur non proferisce verbo, gli è stato proibito. La madre vorrebbe che lui fosse scambiato per un dio e lui obbediente, silente, perversamente attratto da quella madre s’aggira intorno. Ha con lei un rapporto illecito, perfino incestuoso, la desidera, vuole possederla come il padre.

Il figlio è anche capro espiatorio, colpevole di normalità e mortalità. Verrà dunque infine abbandonato, lasciato al suo destino, a chiamar la mamma che non più risponde. Mamma. Ecco l’unica parola pronunciata da quella strana creatura, giusto alla fine e, come l’oratore ne Le sedie di Ionesco, tra i balbettii.

Il linguaggio usato da Sgorbani per questo testo è violento quanto ciò che racconta. Ricorda molto Eliogabalo di Artaud, altro figlio del divino ucciso in una latrina. Divinità e liquidi corporei, la realtà più alta e più bassa continuamente accostate, quasi una non potesse sussistere senza l’altra. La merda, il sangue, lo sperma: liquidi amniotici che nutrono la manifestazione di quel sacro ctonio, primitivo misterioso e profondissimo.

Questo primo studio de La piccola compagnia della magnolia è già decisamente avanzato, quasi spettacolo finito. L’interpretazione di Giorgia Cerruti è potente ed evocativa. Il suo dire rievoca, la sua presenza è possente e magnetica. Non si può dire altrimenti del figlio, interpretato da Davide Giglio, presenza incerta e a volta scomposta, spesso fagocitato dalla madre. Manca di solidità quel suo mutismo, così come lo sguazzare nell’acqua non interroga il pubblico, non spinge ad approfondire il mistero. Si è totalmente immersi nel racconto e nell’agire della madre e quel figlio risulta spesso negletto e dimenticato dall’occhio che guarda, perché, a volte, non riesce dare sostanza a quel niente. L’equilibrio tra i due personaggi è ciò su cui probabilmente si dovrà maggiormente lavorare.

Da ultimo una considerazione che non riguarda solo questo studio su Mater dei de La piccola compagnia della magnolia, ma riguarda più una certa tendenza presente nel teatro italiano contemporaneo. Mater dei è decisamente un lavoro molto ben eseguito, uno studio molto avanzato e con alcuni difetti emendabili nel lavoro di raffinazione. Il testo è potente e l’azione scenica non si limita a essere messa in azione di uno scritto ma è linguaggio proprio che con la letteratura dialoga e si confronta. Parola e azione collaborano dunque sulla scena, non c’è sudditanza ma costruzione e quattro mani. Possiamo dire quindi che siamo di fronte a un teatro di buon livello. Non è la tecnica né la qualità di messa in scena che difettano a quest’opera. Eppure manca qualcosa, un venire incontro al pubblico, un condividere un problema, un ragionare insieme. Per quanto affascinati da un’interpretazione sopra la media, da un testo forte, ricco e poetico, il pubblico in qualche modo rimane distante, sulla soglia. Lo riscontro sempre più spesso. Recentemente anche in Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa di Lorenzo Gleijeses. É come se il teatro, nonostante tanto parlare di audience engagement e coinvolgimento di nuovo pubblico, si sia un po’ rassegnato rivolgendosi quasi esclusivamente agli appassionati e degli esperti.

Con questo mio dire non intendo addossare colpe, ma semplicemente rilavare una tendenza in cui mi imbatto sempre più spesso. Siamo in un momento difficile, in un paese che demonizza sempre più il sapere, la competenza, la qualità in favore di una trivialità populista, facilona e sguaiata. La cultura non deve fare l’errore si rinchiudersi in se stessa. Bisogna ritrovare il coraggio, provare a cercare temi che si possano veramente condividere con lo spettatore. Questo non significa abbassare i livelli ma trovare un terreno comune di incontro, persino di scontro frontale. Non è il momento per rifugiarsi sull’Aventino dell’alta cultura. Bisogna tornare a ragionare sul mondo, sporcarsi le mani, porre questioni scomode se vogliamo che il teatro riacquisisca una funzione e una centralità.

Ph: @Fabio Melotti