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Mariella Celia

SLEEP ELEVATION di e con Mariella Celia

Sleep elevation di Mariella Celia, in scena a Tdanse festival di danza e nuove tecnologie di Aosta, è un percorso onirico tra linguaggi (danza, teatro e cinema), tra comico e drammatico. Un’oscillazione pendolare tra conscio e rimosso. Un sogno è sempre perturbante, gli elementi che sono in ordine logico e sembrano conservare nella veglia la loro razionale relazione, la loro necessaria utilità, diventano d’improvviso caotici, mescolano le loro funzioni, assumono sensi inaspettati e rivelano combinazioni rivelatrici delle nostre ansie, paure, desideri e aspirazioni. In questo scombinare le carte, rompere gli schemi e rivelare segreti percorsi che alla luce del giorno facciamo fatica a confessarci, ci troviamo più nudi e indifesi ma anche più consci e consapevoli. L’emersione dei nostri scheletri dall’armadio nascosto nel profondo dell’anima porta con sé una legione di sentimenti che scuotono come un terremoto ma fanno sorgere anche il riso, il buffo, il comico del credere un mostro una semplice bambola di pezza.

In Sleep elevation di Mariella Celia esplode in scena questo miscuglio di sensazioni e linguaggi, questo puzzle in cui come nel romanzo di George Perec manca sempre un pezzo per ricostruire l’immagine. Una donna in vestaglietta attende una telefonata. Con il cellulare sempre in mano aspetta il suo personale Godot, e nell’attesa si accorge di non aver capito molte cose. E anche noi non riusciamo bene a inquadrare se stia parlando dello spettacolo che stiamo osservando o della sua situazione. Questo incipit decisamente comico ci porta piano piano a scivolare nel sogno e a trovarci noi nella situazione di dire: non ho capito. In realtà non c’è niente da capire, ciò che accade è anche in noi, lo sappiamo di cosa sta parlando.

Scende il buio e l’unica luce è quella del cellulare che diventa il burattinaio che tira i fili del corpo della donna. Poi torna la luce e la donna si toglie la vestaglietta e presenta il suo corpo in un buffo bichini natalizio iniziando a ballare una canzonetta anni ’80. L’armadio in tutto questo è là nell’angolo della scena ma evidente, scomodamente presente. Ed ecco che infine si apre, la donna ci entra e tra uno sbuffo di fumo ne riesce accompagnata dallo scheletro.

Inizia una nuova fase dello spettacolo. Lo scheletro è compagno, amante, amico, feticcio, idolo terrifico. Ci si può giocare, danzare, si può percuoterlo, accarezzarlo, conversarci insieme. Si intavola uno strano gioco di ruolo in cui scheletro e donna diventano doppiatori di scene famose di film in cui la volontà di far colpo, di essere desiderati e di desiderare diventa imperativo: la scena di Mia e Vince in Pulp Fiction nel locale dove ballano il famoso twist, un dialogo tra Marlon Brando e Vivian Leigh in Un tram chiamato desiderio e infine una scena tra Totò e Anna Magnani in Risate di gioia. Modelli di desiderio ma anche comportamentali imposti da un immaginario condiviso, schemi in cui i desideri e le aspirazioni personali sembrano calate dall’alto e dall’altro. L’elevazione evocata dal titolo diventa dunque aspirazione spesso contrastata dai nostri stessi comportamenti che si attengono allo schema, che ci boicottano quasi in una pulsione di morte che ci sospinge, quasi fossimo posseduti da quello che Poe chiamava genio della perversione, verso il basso, verso la terra non madre ma oscura mota che ci appiccica al terreno. E in questa lotta verso una possibile elevazione non ci si sorprende a provare grande tristezza e compassione di sé, si avverte la solitudine di ogni anima che benché iperconnessa col mondo, in fondo si affanna solitaria ballando avvinta alle proprie paure.

Sleep elevation di Mariella Celia è uno spettacolo divertente, arguto, profondo ma anche accompagnato da un sottile velo di tristezza che aiuta a pensare alla tirannia dell’essere connessi e comunicativi ma terribilmente soli e bisognosi di piacere ed essere desiderati. Sleep elevation non è privo di difetti, qualche macchinoso e farraginoso passaggio tra una scena e l’altra, qualche momento che andrebbe ulteriormente raffinato, ma nel complesso ben riuscito ed eseguito da una Mariella Celia danzatrice/attrice molto dotata tecnicamente e che per la prima volta si cimenta nel doppio ruolo di esecutrice e artefice di un proprio solo.

Dead Centre

DEAD CENTRE: CHEKHOV’S FIRST PLAY a VIE Festival

Se dei meriti si possono attribuire alla compagnia irlandese Dead Centre (attiva dal 2012 fra Dublino e Londra e alla loro prima nazionale italiana grazie all’ospitalità di VIE Festival), essi sono, in maniera evidente e lampante, la lucida vena dissacratoria e il forte senso dello humor. Ovviamente, tutto in tinta black, come da miglior tradizione anglofona pop.

Il Teatro Comunale Pavarotti di Modena, una fra le molte location in cui prende corpo il Festival, mette a disposizione del pubblico delle cuffie attraverso le quali ascoltare la viva voce del regista Bush Moukarzel – coautore del testo con Ben Kidd e nientemeno che Anton Chekhov, tagliuzzato, riscritto, preso a calci in ogni modo – il quale con una introduzione dal gusto di stand-up comedy si presenta nelle vesti di bussola vocale, commentario minuto per minuto dell’ostico testo chekhoviano sparato direttamente nella testa dello spettatore, per aiutarlo a orientarsi nelle fitte trame di relazioni, gerarchie sociali, interessi economici che sono il sottotesto immancabile delle pièces del drammaturgo russo. Platonov, uno dei suoi primi lavori, fu in effetti giudicata un’opera “irrappresentabile”: troppi i personaggi, troppo contorti gli intrecci fra l’uno e l’altro, staticità eccessiva, un protagonista che non parlerà mai ma attorno al quale ruota tutta l’azione. Del resto, in vita dell’autore, questa fu rifiutata e non vide mai la scena. Ma quello che ci tiene a introdurre da subito Moukazel è che invece due elementi in particolare sopravviveranno a tutti i drammi successivi e più famosi, tanto da fare scuola ed essere anche diventati citazione d’autore: l’armonia della composizione e la presenza di una pistola. Che ormai lo si sa, se è in scena dal primo atto, arrivati al terzo sarà meglio che faccia fuoco.

Si allude spesso, in gergo, a un’azione scenica “telefonata”: posto che in Chekhov’s First Play la scelta della compagnia, all’apertura definitiva del sipario, è quella di presentare l’incastro fra il dramma iper-classico (persino a livello di scenografia e costumi, il che ha sicuramente il suo grado di ironia intrinseca) e il commento fuori campo, il rapido declino di pazienza e fiducia del regista nei confronti dei suoi attori (macchiette grossolane che continuano a perdere battute e ritmo) sicuramente evidenzia l’interesse nutrito dalla compagnia irlandese per il meccanismo metateatrale e per una dinamica di relazione dell’attore con l’altro-da-sè, dinamica in sé interessante ma che, bisogna dirlo, si traduce qui spesso in un tipo di comicità studiata: infatti quando l’esplosione deflagra attraverso le cuffie questa non sorprende, arriva troppo rapidamente, e senza un reale crescendo.

If the gun shoot at the first act, you’re fucked.

E qui sta il bello. Il pensiero di essere effettivamente fottuti.

I’m not feeling very well. I’ve not been much myself lately.

Arriva il rovesciamento: la pistola spara e non ci sarà più né commento né “spiegone”. Una grossa palla nera cade dall’alto e abbatte la scenografia. Basta col classico, basta con la bussola, la finzione già smentita in quello che idealmente è stato il primo atto cade man mano che gli attori si spogliano dei panni chekhoviani, l’ultima traccia del dramma ottocentesco resta l’emblema del protagonista stesso: Plàtonov, l’eroe, l’anima della festa, il bugiardo, il fallito, il ricco, il povero, quello che non è mai arrivato sulla scena, di cui tutti parlano e che tutti aspettano fin dall’inizio, e che, in absentiam, viene preso dalla compagnia direttamente dalla platea. In un attimo torniamo all’oggi e al contemporaneo, uno dopo l’altro i personaggi assumono il linguaggio e le vesti di avventori di un party qualunque, decisamente credibile: alcool, droghe, tutti che ambiscono allo status di protagonista (“voglio essere come te, Platonov”, si continua a ripetere); una fiera di adolescenti in crisi. Credibile tanto più che la proposta scenica replica una situazione valida tanto che ci si trovi a Temple Bar (e in questa piccola Dublino niente a che vedere con le megalopoli alienanti, quanto ci si può sentire invincibili, i migliori) quanto in una delle tante “Italiette” di provincia che provano a travestirsi da centro nevralgico di una boheme un po’ anacronistica che zittisce le domande sotto una maschera sorridente e allegra.

In ambito teatrale, si dirà che in questo non c’è decisamente troppa originalità, ci muoviamo probabilmente nell’ambito di un già visto e un già sentito. Ma qualche domanda in più forse è opportuno farsela, se non altro perché, in definitiva, questo è uno spettacolo che funziona e arriva.

Che cosa, abbiamo già visto e sentito? Il topos dello smettere in scena un certo tipo di finzione, del teatro che affronta il tema della crisi artistica, umana e soprattutto sociale, di un materiale tradizionale che non si sa più da che parte prendere, in una mancanza di originalità connaturata al tempo presente e nella quale – e forse è qui uno dei punti più importanti della questione – una certa data categoria fa i conti quotidianamente. In rumoroso dialogo (tecnico oltre che semantico, la compagnia si aggiudica con questo spettacolo il premio Best Sound Design nel 2015, meritatissimo, si aggiunga) con tantissime e molto scomode vocine. Siamo effettivamente fottuti nel momento in cui bisogna riconoscere che Chekhov’s First Play dei Dead Centre è uno spettacolo “giovane”.

Giovane è sicuramente la compagnia, che pure in scena presenta qualche ingenuità. E tuttavia questo tipo di categorizzazione è decisamente pruriginosa, oltre che problematica.

In una struttura che abbiamo voluto nella sua prima parte rasentante “il telefono”, accade che il regista dica: oh, that’s so realistic! Il rumore di voci che sostituisce questa sequela di commenti presuntuosamente autorevoli nella seconda parte è in effetti una mescolanza di rumori ambientali e voci registrate direttamente dalla strada sparati a tutto volume nelle cuffie (il pubblico che si volta incerto se provengano da un intorno ben riconoscibile o sia effettivamente parte dello spettacolo è un dettaglio decisamente gustoso, in questo senso); e un modernissimo tappeto sonoro tecno lascia sovrapporsi commenti, auto-proclamazioni di stanchezza, turbamento, insofferenza e frustrazione personale e sociale, velleità di fuga che si risolvono in caduta e nuova maschera da parte di attori che evidentemente nel mondo “reale” – quale che questo sia – ci passano del tempo vero. Un determinato panorama europeo fatto di palliativi e dilazioni rispetto a un’ansia che c’è e agisce si profila chiaro, gli imput da seguire sono talmente tanti da determinare la caduta dell’univocità nella ricezione del lavoro dei Dead Centre, e da ristabilire quell’“armonia chekhoviana” a cui con un po’ di sana giovanile ingenuità si era venuti meno nella prima parte di Chekhov’s First Play.

In altri tempi di avanguardia e ricerca scenica intellettuale, Peter Brook si domandava che cosa si potesse chiedere al teatro. Che scelta operare nell’ordine di rimettere l’uomo in comunicazione con il mondo circostante. Comunicazione che sappiamo sempre più complicata da fenomeni di interazione continua fra lo spazio esterno e quello interno, saturata da un rumore troppo alto.

L’essere altro da sé resta sempre una buona risposta. Soprattutto se il sé è mera rappresentazione di sé, un commentario continuo nella testa, un giudizio, un sovrapporsi di voci non proprie. Poco originale in teatro? Chissà, ma di sicuro non meno vero, a qualsiasi livello.

Non è certo se molte delle scelte drammaturgiche adottate dagli irlandesi Dead Centre siano teatralmente efficaci o potenti (specialmente nel finale e nel rumore di acqua a tappeto della voce del resuscitato regista, e anche nella volontà, di difficile attuazione, di buttare così tanti elementi eterogenei nello stesso calderone), ma nella voce di un “non-addetto-ai-lavori” temporaneamente protagonista, e nella semplicità del suo Hello è innegabile che si lascia il teatro con una sensazione di freschezza mai del tutto risolutiva o semplicistica.

di Maria D’Ugo

Ph: Jose Miguel Jimenez

Milo Rau

FIVE EASY PIECES di Milo Rau

Five easy pieces di Milo Rau, ieri in scena alla Teatro dell’Arte della Triennale di Milano, è opera tra le più complesse perché pone l’osservatore nelle condizioni di dover affrontare molti livelli di lettura venendo investiti da questioni scomode di fronte alle quali è difficile non prendere posizione. Inoltre, dato l’argomento (la storia del pedofilo belga Marc Dutruox) e il fatto che a raccontarlo siano dei bambini, non può che colpire e far sorgere domande cui è diffile se non impossibile rispondere.

È assolutamente necessario rendere evidenti le varie questioni che pone Milo Rau con Five easy pieces prima di procedere a una recensione. Iniziamo con ordine. Innanzitutto la vita di Marc Dutroux che ha segnato la storia recente del Belgio in maniera indelebile, diventando una sorta di mito nazionale negativo. La vicenda di Dutroux è diversa da quella di qualsiasi altro pedofilo/serial killer proprio per aver scosso un’intera nazione ponendola di fronte a se stessa con una forza senza precedenti. Il fatto che Dutroux abbia potuto operare così a lungo proprio a causa delle divisioni interne al paese (rapiva le ragazze nelle Fiandre e le segregava in Vallonia rendendosi sicuro e quasi intoccabile come se passasse un confine); le accuse di incompetenza alla polizia, inefficiente a causa proprio di queste divisioni; l’evidenza che la storia familiare di Dutroux sormonti alcuni dei passaggi critici della storia nazionale belga (l’indipendenza del Congo nel 1960 dove la famiglia Dutroux viveva, l’azione del mostro a Marcinelle, zona mineraria tristemente nota a noi italiani, le differenze linguistico nazionali etc.), tutto questo fa sì che l’affaire Dutroux abbia un impatto assolutamente unico rispetto a vicende simili e abbia scosso una nazione ridefinendo l’immagine che aveva di se stessa.

Questo è un primo livello di lettura: la vita di Dutroux come catalizzatore di profonde inquietudini e divisioni nazionali, l’essere un mito demonico di un intero paese tutt’ora diviso, e teso a rimuovere un passato di violenze coloniali terribili (non dimentichiamo che il genocidio in Ruanda dipende per molti fattori dalla politica coloniale belga che divise Tutzi e Hutu creando odio insanabile tra le due etnie).

C’è poi l’evidenza che a raccontare la storia del Mostro di Marcinelle siano i bambini. Sono loro che rimettono in scena la vicenda in cinque piccole piece. I bambini inscenano la storia di uno dei peggiori pedofili della storia europea, che seppellì viva una sua vittima, un’altra la fece morire di fame e le altre schiavizzò, torturò e stuprò. È giusto? Potremmo chiederci. È eticamente corretto? Quali le conseguenze per questi piccoli attori? È sfruttamento? È anche questa una forma di violenza? Tutte domande legittime. E il fatto che la produzione e le prove siano state seguite da psicologi e dai genitori dimostra che un pericolo c’era, che se ne era consapevoli, che si è cercata una forma di protezione e che si è deciso che il rischio doveva essere corso.

In Five easy pieces di Milo Rau i bambini non fanno ciò che solitamente ci si aspetta da loro all’interno di uno spettacolo teatrale. Certo recitano ma si interrogano e ci interrogano su una vicenda mostruosa, sulla morte, sulla violenza, sulla natura del male e ci fanno comprendere che loro capiscono e percepiscono più di quello che si crede. La loro innocenza è meno ovvia di quanto si pensi (nello spettacolo si chiede loro se hanno mai ucciso e le risposte sono inquietanti, rilevano un certo fascino della e nella violenza che appartiene all’umano fin dalla più tenera età, come il gusto di incendiare formiche e vespe, o l’uccisione di un gattino per sbaglio che però fa nascere una sensazione strana di potenza). Il teatro è crudele. Lo si dice senza mezzi termini come risposta alla domanda di un bambino. Il teatro non è giusto perché non è il suo compito. È Teatron, è il luogo da cui si guarda e se quello che si guarda non piace non è colpa del teatro.

Infine Milo Rau si interroga sulla rappresentazione in sé, sui suoi scopi, sulla sua necessità. Quando i bambini si chiedono: cosa significa recitare? O quando viene loro chiesto: cosa saresti disposto a fare per il teatro? O come affronti il fatto di essere guardato? Di fatto ci si chiede cosa sia la rappresentazione, a cosa serva, come ci relazioniamo con questa finzione che rivela la verità.

Molti sono dunque i livelli di lettura che si declinano in maniera diversa a seconda del pubblico, della nazione, del luogo in cui avviene la rappresentazione. Un’operazione così complessa che si interroga sulla natura perversa dell’umano agire non può che essere scomoda, difficile, ostica, emotivamente provante, graffiante e non solo perché l’apparente sicurezza di questi bambini sul palco rivela una sconcertante fragilità del concetto in sé. La sicurezza tanto invocata dalle nostre società occidentali è una maschera, una falsità perché in ogni momento l’orrore può toccarci e colpirci, e questa prossimità con il male diventa assolutamente insopportabile se a renderla evidente sono dei bambini.

Five easy pieces sono cinque momenti della vicenda Dutroux: il padre dell’assassino che vorrebbe cambiare nome, che vive solitario e negletto per i peccati del figlio e che racconta del Congo, dei primi anni in Africa, di Lumumba di cui vorrebbe acquisire il nome per abbandonare quello detestato di Dutroux; il poliziotto che ha svolto le indagini, che racconta di come la polizia fosse detestata dalla popolazione, di come in quei giorni girare in divisa fosse pericoloso; dei genitori che attendono una telefonata e che vengono messi al corrente dell’orribile morte della figlia; della vittima che recita una sua lettera durante la prigionia; infine il funerale di una delle vittime. In scena la simulazione dei bambini che inscenano gli eventi inframmezzata dalle domande che essi si pongono e che vengono a loro poste. In video il doppio identico simulato dagli adulti.

In Five easy pieces i momenti di pathos, di commozione intensa e perfino di disagio sono innumerevoli (il passaggio in cui l’attore in scena chiede alla bambina di spogliarsi per affrontare la scena della vittima invoca tutta la perversione di un atto pedofilo, rende evidente il potere di costrizione/persuasione di questi soggetti, nonché mette il pubblico nella spiacevole posizione di osservatore di un atto potenzialmente scellerato).

I bambini non solo rappresentano il dolore che gli appartiene, ma si rendono interpreti anche di quello degli adulti e questo è sconcertante. Le parole colme di angoscia e sofferenza di un genitore che ha perso un figlio diventano devastanti se recitate da un bambino.

Five easy pieces dimostra una volta di più la capacità di Milo Rau di interrogare la società europea su quanto avviene al suo interno: Milo Rau affronta la realtà, la cronaca degli ultimi anni e ogni volta fa discutere e divide critica e pubblico. Che sia la vicenda di Brejvick, che sia la morte di Ceausescu, o il processo alle Pussy Riot, o il genocidio in Ruanda, ogni volta ci obbliga a fare i conti con noi stessi, a prendere posizione, ci invita a togliere il velo che continuiamo a calare sulla natura della nostra civiltà. Vogliamo crederci buoni, giusti e non lo siamo e dobbiamo necessariamente confrontarci con questa natura ipocrita che ci appartiene. Brejvick o Dutroux sono parte di noi, sono mostri partoriti da ciò che siamo come società, sono eruzioni vulcaniche che portano alla luce il magma che teniamo nascosto sotto la crosta di illusione di essere migliori e diversi.

Quello di Milo Rau è un teatro scomodo che possiede una grande potenza eversiva, ed è un teatro politico che obbliga ad affrontare la realtà. E’ uno sguardo lucido e tagliente come un bisturi. Si può essere d’accordo o meno con gli strumenti che utilizza ma non si può negare la necessità e l’utilità di questo teatro.

Ph: ©PhileDeprez

Nuit

NUIT di Collective Petit Travers

Ieri sera alle Lavanderie a Vapore nell’ambito di Torino Danza e in collaborazione con Concentrica è andato in scena Nuit del collettivo francese Petit Travers. Fondato nel 2003 conta già molte produzioni nonché collaborazioni importanti con la danza (Maguy Marin, Pina Bausch e Joseph Nadj), la musica (Jodlowski, Daucé), il circo e il teatro, dimostrando lavolontà di far dialogare la giocoleria con altri linguaggi artistici.

Nuit è una stanza nera, quattro porte, tre individui, molte candele, innumerevoli sfere bianche quasi dotate di vita propria. Dal buio piccole luci, flebili suoni, rotolar di palline. E da qui a poco a poco lo spazio si anima di ritmi e traiettorie, di piccole magie, di eleganti giocolerie.

Lo spazio è notturno, evocativo, quasi d’altri tempi. Sono le candele a illuminare lo spazio, o piccole lucine che vanno, vengono, disegnano ombre, aprono spazi. Bella e suggestiva la scena che suggerisce un vecchio cinematografo.

Come nel racconto di Kafka Blumenfeld, un anziano signore, le palline hanno vista propria, sono dispettose seppur talvolta obbedienti. Bianche sfere fluttuano nell’aria, colpiscono i tre signori che si aggirano sulla scena entrando e uscendo dalle porte per inseguirle, disegnano geroglifici nell’aria. E i loro volteggi fanno da contrappunto alla musica, dialogano con i quartetti di Haydn e Ligeti, lasciando scorgere nuove possibilità ritmiche al consueto gioco di farle volteggiare.

Nuit è uno spettacolo in cui l’arte circense e la giocoleria acquistano un’eleganza raffinata, restando arte popolare seppur strizzando l’occhio a la haute culture. La capacità di far vincere alle palline la forza di gravità, di fluttuare nell’aria disegnando figure e orbite inconsuete non è più sfoggio di virtuosismo, ma racconto, linguaggio quasi cantato, danza degli oggetti che animano lo spazio scenico. Una ricerca interessante sulla grammatica del linguaggio (luce, corpo, ritmo, spazio) che non rimane sterile e fredda, ma crea ampi spazi di poesia e di magia.

Nuit resta in scena alle Lavanderie a Vapore fino al 15 ottobre prossimo e varrebbe la pena di assistervi essendo uno spettacolo adatto a tutti soprattutto ai bambini.

Marco Bianchini

1:6000 di Marco Bianchini

Uno su seimila. L’unico contro i molti. L’unicità che fronteggia spavalda, seppur un poco intimorita, lo sciame. Il titolo dell’ultimo lavoro di Marco Bianchini è una proporzione e una dichiarazione. I numeri sono impietosi, nella loro algida evidenza manifestano uno stato di fatto: uno contro tutti. L’uno diventa lo zero virgola, si fa piccolissimo pur restando origine del mucchio selvaggio. L’uno è il seme, è l’unità base, è il solitario, è il mago dei tarocchi, il possessore di sé, colui che usa la ragione per piegare gli eventi alla sua volontà, è colui che sa usare il mondo a proprio vantaggio, ma è anche la goccia contrapposta alla vastità del mare, la goccia che rischia di sparire, di essere annullata di fronte all’enormità abissale della moltitudine.

L’uno è Arjuna che fronteggia l’esercito dei suoi fratelli, affiancato sul carro da Krishna, l’auriga che guida i cavalli e rende possibile il pieno possesso di sé.

1:6000 di Marco Bianchini è il racconto surreale ma non troppo di una battaglia, quella di chi, diverso in qualsiasi forma, si trova a ergersi, spesso suo malgrado, contro la massa uniforme dei conformi. Una narrazione che par divagare, che procede tortuosa, a salti e balzi, raccontando frammenti che si ricompongono come un mosaico: un libro fantastico e mai esistito che segna lo spartiacque dell’evoluzione culturale (Le avventure del gattino Cicci), la presentazione del distretto economico dell’Alto Vicentino, un manga giapponese (Il Grande sogno di Maya di Sozue Miuchi), e il racconto autobiografico di un’infanzia e un’adolescenza alla ricerca di strategie di integrazione per difendersi dal bullismo. Questi gli elementi mescolati in un racconto superflat dove alto e basso, reale e immaginario, si intrecciano in un linguaggio ironico e divertente ma mai banale.

1:6000 di Marco Bianchini è un canto della diversità che si adatta alla necessaria ma complicata convivenza con la conformità. Poco importa di che natura sia la diversità, se sessuale, esistenziale, professionale, di colore o di partito, importano le strategie che essa mette in campo, non tanto per adattarsi, ma per sopravvivere, per esistere e sussistere. Con pochi elementi e una verve narrativa stimolante si affrontano i pregiudizi, le sofferenze, le umiliazioni, le lotte dell’uno, di qualsiasi uno, per affrontare i seimila sempre pronti a puntare il dito.

1:6000 di Marco Bianchini si inserisce in un filone di opere che negli ultimi tempi interrogano la scena e la comunità che la frequenta. Da MDLSX di Silvia Calderoni, a Todi is a small town in the center of Italy e Un eschimese in Amazzonia di Livia Ferracchiati, – opere queste decisamente più orientate verso la diversità sessuale, tema presente anche nel lavoro di Bianchini -, la scena si interroga sempre più sulla questione dell’accettazione delle eccezioni, sul loro inserimento nel mondo della conformità con pari diritti e dignità di esistenza. In una civiltà che a torto si crede evoluta, civile e libera ci si dimentica troppo spesso che in fondo siamo animali che ancora applicano, fin dalla più tenera età, la legge del branco. Non saremo mai veramente evoluti se non impareremo ad accettare l’eccezione e la ricchezza che porta con sé. Non potremo mai dirci veramente progrediti se non la smetteremo di contrapporre i molti ai pochi, la massa ai solitari, i conformi ai diversi. La convinzione di essere civili è la più falsa maschera che indossiamo. È ora di toglierla e di affrontare la nostra più grande miseria.

1:6000 di Marco Bianchini apre la tredicesima stagione del Teatro della Caduta di Torino. Un programma variegato e interessante con sei prime regionali e due prime assolute in cui spiccano Peti’ Glasse’ de Gli Omini, Finale di Partita di Teatrino Giullare e Lourdes di Andrea Cosentino. Una programmazione che rimarca, qualora ce ne fosse bisogno, l’affermazione di una realtà sempre più importante e vitale nella vita culturale della città di Torino, e che fin dalle sue origini nel 2003 si è dimostrata luogo aperto e accogliente delle più diverse forme di ricerca scenica.

Marta Ciappina

EDUCARSI ALL’ATTESA Intervista a Marta Ciappina

Marta Ciappina è una interprete che attraversa la danza contemporanea italiana da ormai molti anni collaborando con artisti del calibro di Ariella Vidach, Michele Di Stefano, Chiara Bersani, Daniele Albanese, Daniele Ninarello e molti altri. Ci siamo incontrati durante Torino Danza in occasione del debutto torinese di Von di Daniele Albanese e abbiamo avuto questa bella conversazione sul ruolo dell’interprete, su Von e sul ruolo della danza.

Enrico Pastore: Nella danza contemporanea italiana sei un interprete riconosciuta e apprezzata, hai scelto e abbracciato questo ruolo di voce e corpo del linguaggio altrui. Qual è il ruolo di un interprete oggi e quale il suo status?

Marta Ciappina: Siamo una specie in via di estinzione. Siamo rimasti in pochi coloro i quali si dedicano esclusivamente al lavoro di interprete senza avere alcuna velleità autoriale. Siamo in estinzione ma per delle dinamiche che no capisco e a cui non so bene dare un nome. Il ruolo dell’autore in qualche modo ha preso il sopravvento sul ruolo dell’interprete. Anche chi ha una formazione come danzatore a un certo punto viene sedotto da un percorso come autore, quindi con il tempo il bacino degli interpreti si è spolpato. Io però difendo strenuamente la bellezza e anche la correttezza di questo ruolo. È per me un’operazione di purezza e di sottrazione, un togliere tutto quello che è superfluo dei propri automatismi e dei propri percorsi in modo da consegnare un corpo quanto più arrendevole e permeabile alle istruzioni che vengono dall’autore. Il privilegio è quello di poter attraversare dei veri e propri romanzi, quello di Michele Di Stefano, di Daniele Albanese, viaggio attraverso le loro visioni cercando di fare da medium, da canale che cerca di allacciarle in maniera più o meno organica nella restituzione performativa. È questa una situazione, ripeto, di grande privilegio soprattutto se hai la fortuna di lavorare con autori di grande livello. E questa esperienza veramente mi ricorda un viaggio dei romanzi d’avventura.

Enrico Pastore: Proseguendo con la tua metafora, raccontaci il tuo viaggio nel romanzo Von di Daniele Albanese.

Marta Ciappina: Io avevo già lavorato con Daniele Albanese per Dogma e conoscevo già il suo linguaggio. Non parlo tanto di quello somatico, ma proprio di linguaggio verbale, perché ritengo che al centro di tutto ci sia e ci debba essere un confronto di tipo dialettico. Gli interpreti contemporanei non sono tanto chiamati ad assorbire un linguaggio, per lo meno con gli autori con cui lavoro io, quanto più a tradurre delle istruzioni che ricevo tramite la parola.

Il processo di creazione di Von è stato lunghissimo. È iniziato più di un anno fa. Quello che mi ha sedotto immediatamente del processo di ricerca è stata l’inafferrabilità quasi impalpabilità delle istruzioni, che soprattutto all’inizio sembrano oscurissime. Parlano di qualcosa che non è visibile anche se accompagnate da istruzioni molto puntuali che competono il linguaggio del corpo, in questo è molto preciso. Nel suo caso è proprio un racconto che si inabissa in meandri molto reconditi. Meandri quasi biografici. Io ogni volta ho l’impressione di immergermi nella sua vita e nelle sue ombre. Non mi spaventa, nella maniera più assoluta. Forse la prima volta un po’ mi spaventava perché mi sembrava di precipitare in luoghi così nascosti che mi facevano paura. Ora ho capito che posso mantenere un distacco, però il percorso con lui tende sempre a dei grandi inabissamenti alla ricerca dell’ombra e della parte oscura.

Enrico Pastore: questo aspetto di cui tu parli è quasi sorprendente. Vendendo i lavori di Daniele si potrebbe definirli razionalisti, dove la grammatica della danza diviene struttura. Eppure si ha sempre la sensazione che l’utilizzo delle pause, dei ritmi, dei movimenti, dei pesi e degli equilibri evochino altre forme più ctonie e inquietanti. È un contrasto veramente interessante.

Marta Ciappina: Si la struttura è permeata di grammatica. Quella purezza grammaticale, quella sapienza, potremmo dire, artigianale, maniacale, perché Daniele è maniacale nell’artigianato, diventa strumento, canale per immergersi nel torbido. Per me Von è ammantato di inquietudine, di torbido ma nell’accezione più nobile. Non è un torbido pornografico, più qualcosa di nobile ed elegante a cui io mi concedo ma tenendo un sano distacco.

Enrico Pastore: Siamo all’ultima domanda, quella che faccio sempre a tutti gli artisti che intervisto: qual è, secondo te e sempre che ci sia, la funzione della danza e delle arti performative oggi, in questo momento storico?

Marta Ciappina: Educativa. E questa azione educativa della danza non può essere monade, ma dovrebbe essere supportata da un’azione di natura politica. Si tratta non solo di educare, ma educare al corpo, alla poesia a un linguaggio altro. Addirittura all’attesa, attendere e non fare nulla per un’ora di spettacolo, un tempo che potrebbe parere anche non fecondo. Educare a rinunciare a qualcosa di volontario, a una forma di resa. Ad arrendersi all’esperienza e alla visione anche se ciò che vedi non ti piace.

Daniele Albanese

INTERVISTA A DANIELE ALBANESE

Daniele Albanese è un artista solido, granitico che concepisce e crea i suoi lavori con un’attenzione maniacale e una cura estrema. Benché la sua ricerca sia molto orientata alla grammatica della danza i suoi lavori lasciano intravedere dei mondi emotivi e potenti. A Torino Danza è venuto con il suo nuovo lavoro Von e ne abbiamo parlato in questa breve intervista.

Enrico Pastore: Partiamo dalle cose semplici: perché Von? A cosa si riferisce?

Daniele Albanese: Non è la cosa più semplice. Per molto tempo abbiamo avuto un altro titolo provvisorio e questo per tutto il tempo di creazione. Il titolo è arrivato per ultimo, a fine lavori. Von, è una preposizione che in tedesco significa: di, da. Si riferisce quindi a un luogo ma non sai bene che luogo. Si ha a che fare con uno spazio altro, un altrove del tutto sconosciuto.

Enrico Pastore: Qual era l’urgenza che ti ha spinto a creare questo lavoro? Cosa volevi dire con Von?

Daniele Albanese: Il lavoro opera intorno a dei campi di ricerca che mi appartengono da sempre: la trasformazione, la ripetizione di un gesto che non è mai uguale. Per me è sempre stato urgente procedere in questi territori di scoperta. In particolare con Von si sono innestate anche altre questioni: Da una parte ho sentito la necessità di lavorare con altri danzatori per arricchire il mio linguaggio e, nello stesso tempo, passarlo ad altri interpreti. Da questi incontri è nata una nuova declinazione di una ricerca che è la mia ricerca non solo a livello di movimento, ma anche di luci e nel rapporto con la musica. La struttura che vedi adesso nello spettacolo è frutto di un’opera di montaggio che assembla una ricerca portata avanti con i danzatori in diversi periodi di residenza e il solo finale. Da ultimo l’incontro con Luca Nasciuti, con la sua musica e il suo processo compositivo. Quindi possiamo dire che sono stati gli incontri con chi ha partecipato al lavoro che si sono intrecciati con la mia ricerca.

Enrico Pastore: Quando ci siamo sentiti prima che venissi a Torino, mi avevi detto che Von mi sarebbe apparso molto diverso rispetto a lavori precedenti come Drumming solo. Eppure vedendo lo spettacolo ho pensato che in fondo non erano lavori così diversi. Se mi si passa la licenza direi che la tua danza è sempre molto razionalista, si occupa della grammatica della danza, delle forze, dei pesi, degli equilibri, dei ritmi e delle pause. E da questo punto di vista sono sicuramente apparentati anche se con Von mi sembra che si esplori un po’ di più una dimensione intima e profonda. Qual è lo scarto vero tra i due lavori?

Daniele Albanese: In Drumming solo mi dovevo rapportare con la partitura di Steve Reich che ti dava una cornice molto precisa. Ovviamente io l’ho fatta in un certo modo, ma era molto difficile per il mio linguaggio declinarla in altri modi. Nel caso di Von ci sono altri condizioni. La struttura non era già definita, doveva essere scoperta, individuata. E poi sicuramente l’esperienza sonora è del tutto diversa. In Von c’è un suono che non puoi contare. Un ulteriore differenza è che Drumming è stata una commissione, un lavoro che ho amato molto ma una commissione. Von invece è stata un’esperienza che dalle luci, al movimento, al suono è stato scoperto, trovato. Non c’era ed è venuto al mondo senza una struttura già esistente. É stato un materiale che ha dovuto trovare la sua forma, contrariamente a Drumming che cercava un materiale che si integrasse con una struttura. Questa è sicuramente lo scarto maggiore tra i due lavori. Ecco forse potremmo anche dire che i frammenti di personaggi, erano particelle che uscivano in microgesti, nel caso di Von forse escono un po’ di più. Poi dico personaggi ma sarebbe meglio figure che si intravedono appena.

Enrico Pastore: Ti faccio un ultima domanda, una che faccio sempre a tutti gli artisti che incontro: qual è o quale potrebbe essere il ruolo o la funzione della danza nel contesto contemporaneo?

Daniele Albanese: Non lo so. Non saprei rispondere. Con ogni lavoro cerco una risposta a questa domanda. Davvero non lo so. Il mondo è troppo complesso e mi è difficile dare una risposta. Forse mostrare dei frammenti di questa complessità con una consapevolezza piena potrebbe essere una funzione della danza come linguaggio universale del corpo, dello spazio in maniera non direttamente narrativa. Nel mio caso per esempio lavorare sui punti, le direzioni le forze rivelare alcune di queste forse mostrare come operano in maniera invisibile, farle percepire potrebbe essere una funzione anche se parziale. Non esiste secondo me una funzione universale della danza.

Guerrilla

GUERRILLA di El Conde de Torrefiel

Guerrilla, così come le altre pièce de Il Conde de Torrefiel, appaiono sotto la stella del contrasto. La forte dissonanza tra testo e immagine è stridente come l’urto tra due zolle tettoniche. Quello che risulta da questo scontro è uno schiaffo, un pugno allo spettatore. Non c’è nessuna indulgenza. Una durezza adamantina che ferisce, come lo può essere solo una cosa vera, seppur immaginata. E questo contrasto si palesa tra la violenza del racconto e la serenità, tranquillità delle immagini.

Ieri sera come anteprima del Danae Festival di Milano, al Teatro dell’Arte della Triennale è andato in scena Guerrilla. Il pubblico si siede, chiacchiera, c’è che si riconosce e si saluta calorosamente. Sul palco delle sedie rivolte verso la sala. Ecco che inizia lo spettacolo e la sala si fa silenziosa. Sul palco invece si replica la quanto avvenuto in platea. Ecco che le sedie si riempiono di gente che guarda verso noi pubblico, il palco si riempie, la gente chiacchiera del più e del meno, si accomoda sulle sedie, legge un programma. Dov’è lo spettacolo? Dov’è la verità?

E intanto scorrono le frasi proiettate che ci portano in un futuro prossimo venturo. A qualcosa che inizia nel 2019 e che si protrae verso la guerra mondiale del 2023. Ma se l’ambientazione di queste storie è in questo futuro possibile, le persone di cui si parla sono quelle sedute di fronte a noi. La ragazza con la canottiera gialla, il musicista con la maglietta verde. Sono le persone che hanno partecipato alla costruzione della pièce tramite call pubblica effettuata nell’estate. Il luogo è la città di Milano. Siamo immersi in un misto di reale e immaginario, così come la proiezione futura parla di questo presente. Questo è l’incipit.

Tre le situazioni in cui ci si trova: una conferenza di Angelica Liddell che in spagnolo parla di scena, del ruolo del teatro, del corpo tragico dell’uomo. E intanto scorrono le biografie di alcune delle persone sedute di fronte a noi. Si abbassa il sipario. Scena numero due: una lezione di Tai Chi. Sulla scena delle donne compiono gli esercizi con soave e concentrata tranquillità. Una musica per pianoforte accompagna il loro movimento. Intanto scorrono i testi feroci in cui queste biografie immaginarie si trovano ad operare in un futuro possibile e non lontano. Il tema è sempre la guerra, la violenza dell’economia, del convivere, della civiltà. Sipario e terza scena: Siamo in una discoteca. Persone ballano forsennate sotto una luce rossa, poi verde e infine strobo. La musica è assordante. E continuano a scorrere le frasi secche e taglienti come un bisturi.

Le domande ricorrente sono: come possiamo pensare che non si scateni una guerra se i nostri pensieri sono sempre rivolti ad essa? Questa pace che sempre invochiamo, la sicurezza che viene sempre e costantemente evocata, è forse un’inconsapevole richiesta di guerra? La natura umana è violenta? E se sì, la pace è un aspetto che riguarda la civiltà e non la natura e quindi ci è estranea? Domande terribili. A cui spesso non vogliamo rispondere. Vogliamo dimenticare che l’essere umano, non nato predatore ma preda, si è trasformato per imitazione in rapace cacciatore. Scontiamo questa nascita volontaria al sangue. Abbiamo scelto di essere assassini. E gli antichi lo sapevano bene. Sia i Veda che i Greci erano consci di questo fatale passaggio evolutivo.

E alla luce di queste domande, si definisce anche la natura della prossima guerra immaginata. Una guerra non ideologica né politica né religiosa. Un antagonismo armato per difendere solo gli interessi economici delle proprie nazioni. Un conflitto che i posteri chiameranno: la guerra onesta. Questa è la fine.

Uno spettacolo intenso, violento, per certi versi terribile. Lo specchio che si forma all’inizio di Guerrilla non riflette un’immagine edificante. Come il quadro di Dorian Gray, l’immagine riflessa cattura tutti i nostri peccati e ci dona una figura deforme e orribile. Non si scappa, tocca volgere gli occhi a questa fotografia impietosa.

In Guerrilla de il Conde de Torrefiel, così come nei testi di Thomas Ligotti, non c’è nessuna fiducia nell’umanità e nel suo futuro. La catastrofe è dietro l’angolo. Il nostro destino è funesto e funereo. Nessuna speranza all’orizzonte.

Forse questo è l’unico difetto di uno spettacolo potente e ben costruito: non c’è spazio per nient’altro che il male. Non c’è niente oltre l’abisso. Nessun volo verticale, solo caduta senza fine. E per fortuna il mondo, benché ferito da mali infiniti, conserva in piccola parte anche semi di speranza. Pochi è vero. Ma presenti. E non notarli, non farli trasparire, dona un’immagine monodimensionale, parziale. C’è una sorta di voluttà del male, un voler vedere solo quell’aspetto. E questa parzialità, che ho riscontrato anche nei lavori precedenti a Guerrilla (La possibilidad que desaparece frente al paesaje del 2015 e la versione precedente di Guerrilla presentata sempre nel 2015 al festival TNT di Terrassa Barcelona), alla fine stanca, fiacca lo sguardo. Non sto parlando di lieto finale, e nemmeno di favole consolatorie, ma di un mondo tridimensionale che come diceva Calvino veda nell’inferno ciò che inferno non è, e gli dia luce e gli dia spazio.

Preljocaj

ROMEO ET JULIETTE di Ballet Preljocaj

Il Romeo et Juliette andato in scena ieri sera al Teatro Regio (13 settembre 2017) nell’ambito di Torino Danza, è una coreografia storica di Angelin Preljocaj del 1996. La Verona shakespeariana si trasforma in una militarizzata città di regime est europeo, dove Montecchi e Capuleti si trovano ai due lati della barricata sociale: da una parte la classe dominante degli apparati del partito, dall’altra un popolo fatto di straccioni senza alcun potere. L’amore impossibile tra Romeo e Giulietta si declina quindi in una contemporaneità distopica da 1984, in un regime oppressivo, dittatoriale, invasivo delle libertà.

Un’interpretazione che ricorda i tempi in cui Prokofiev scrisse il balletto. Era tra il 1935 e il 1936, gli anni del ritorno in Russia del compositore. Anni difficili, quelli delle purghe staliniane. In origine il balletto cercò un lieto fine che venne espunto per non incorrere nelle critiche che fioccarono sulla testa di Shostakovich per la sua Lady Macbeth e per il balletto Il Bullone. L’accusa di formalismo portava all’isolamento e al gulag. Lo stesso Shostakovich si salvò per un soffio. Mejerchol’d, con cui Prokofiev collaborò più volte, invece no. L’attesa per la prima durò fino al 1938.

Erano tempi di scelte difficili, dove l’attività artistica era considerata spazio di lotta e di propaganda. Ci si giocava spesso la vita, e non solo nella Russia sovietica. Prokofiev morì lo stesso giorno di Stalin, il 5 marzo 1953. Il suo funerale ovviamente andò deserto. Nessuno osò mancare alle celebrazioni del dittatore. Presenziare a quello di Prokofiev significava una critica al partito inaccettabile e quindi nessuno rischiò. Tutto molto distante dal clima odierno, dove l’artista al massimo rischia l’irrilevanza e l’incertezza economica.

Lo stesso Preljocaj è uomo di decisioni forti. Prima di spostarsi a Aix-en-Provance, il coreografo era di base a Tolone. Alla vittoria del Front Nationale alle comunali decise di lasciare la città. Non voleva che l’estrema destra sedesse al tavolo delle decisioni riguardanti la sua attività.

Preljocaj sceglie quindi un’ambientazione politico/sociale che si presta al mutare dei tempi. Nonostante i vent’anni trascorsi dalla sua creazione, resta attuale. E questa scenografia di muri che dividono, di fili spinati, cani e sorveglianti si declina rispetto alle nuove oppressioni che ci circondano e facciamo di tutto per ignorare.

Quella di Preljocaj è una danza essenziale, precisa, che non indulge al superfluo. Questa linearità, perfino semplicità di movimento non preclude l’esplosione di forti emozioni. Estremamente toccanti le scene finali dove i corpi dei due amanti diventano bambole di pezza nelle mani dell’altro che inutilmente tenta di rianimare ciò che non ha più forza né vita. Romeo tenta di farsi inutilmente abbracciare, diventa perfino rude nello scuotere quel povero corpo che crede morto ed è solo addormentato. Giulietta si scaglia più e più volte su Romeo ormai senza vita, finché accoccolandosi su di lui decide di seguirlo dove non si torna.

Non mancano, così come nell’originale shakespeariano, i momenti comici, sia da parte di Mercuzio che da parte delle due nutrici. Queste ultime con costumi divisi tra bianco e nero, a rappresentar questa manichea divisione che devasta il mondo, tra ricchi e poveri, potenti e impotenti, liberi e oppressi. Ma i colori nei due costumi si oppongono quasi a dir che tutto può diventar contrario di tutto a seconda della prospettiva.

Ph: © Jean-Claude Carbonne

Cage

L’incontro impensato tra John Cage e Antonin Artaud

Cage e Artaud. È difficile trovare due personalità più antitetiche in tutto il Novecento. Ancor più difficile trovare i due nomi accostati in uno scritto che si occupi di teatro. Eppure fili sottili uniscono le ricerche di questi due innovatori, fili sottili e resistenti, trascurati per la loro flebile trasparenza, ma che eppure esistono e andrebbero indagati. Certo le prove documentali sono poche, incerte, neglette e ignorate. In verità andrebbero studiati con maggiore attenzione i legami che uniscono Cage alla cultura francese soprattutto negli anni tra il 1930 e il 1952, anni fondamentali che preludono alle grandi rivoluzioni cageane che prendono avvio proprio nel fatidico anno 1952.i È certamente più agile associare Cage al buddismo Zen, a Deitaru Suzuki, all’I-Ching, a Coomaraswamy. L’Oriente è senza ombra di dubbio molto più appariscente nelle fonti che indagano le influenze che agirono sul compositore americano spingendolo verso il silenzio, la casualità, l’indeterminazione, l’anarchia, e a cercare di abbattere con ogni mezzo possibile i confini e le barriere tra le arti ridefinendone le funzioni. Eppure se si studia con attenzione le fasi che portarono Cage tra il 1949 e il 1952 a compiere i primi scandalosi passi verso una rivoluzione che agì come uno tsunami sulla pratica artistica negli Stati Uniti e in Europa, onda che ancora oggi non ha esaurito la sua energia, il nome di Artaud è tutt’altro che marginale, benché resti nascosto nell’immensa foresta di contributi critici.

In questo breve articolo cercherò quindi di mettere in luce, per quanto mi è possibile, la portata dell’influsso di Artaud su Cage, compito pericoloso data la scarsità di testimonianze dirette e di documenti incontestabili. Disponendo di soli indizi mi limiterò ad esporre alcune supposizioni suffragate da quelle poche tracce sparse qua e là in interviste e conferenze cercando di evidenziare differenze e concordanze di pensiero tra i due artisti nella speranza che altri si dedicheranno a compiere studi più accurati ed esaustivi.

John Cage lesse e si interessò di Artaud a partire dal 1949 e ispirato da Artaud compose la sua prima opera teatrale, quel primo evento senza titolo che segnò la storia delle performing arts negli Stati Uniti e non solo. Poco indagato è cosa attrasse veramente Cage nelle parole di Artaud e se la virata performativa di Cage dipenda in qualche modo da questa fertile lettura. In molte interviste Cage fa il nome di Artaud, per lo più in riferimento al solo Event del 1952 al Black Mountain College e senza mai approfondire troppo i motivi della citazione.

Gli studi che indagano il rapporto tra i due autori sono poche per non dire che mancano del tutto. Il Fettermannii, nel suo studio sulle opere performative di Cage, affronta l’argomento riconoscendo l’importanza delle idee di Artaud ma limita l’ascendenza dello scrittore francese ad un generico richiamo all’anarchia e al caos come mezzi compositivi, dimenticando che per Artaud tali termini avevano una valenza del tutto differente rispetto a Cage.

Inoltre riporta la testimonianza della poetessa Mary Caroline Richards, prima traduttrice di Artaud negli Stati Uniti, in cui afferma che non ci fu con Cage e Tudor nessuna sistematica discussione sulle idee di Artaud lasciando intendere che all’epoca, siamo nel 1952, vi fu solo una generica attrazione, nient’altro che una conferma delle idee allora correnti.iii

Mary Emma Harrisiv,riporta che Cage e Tudor portarono Il teatro e il suo doppio al Black Mountain College nell’estate del 1952 e lo fecero leggere ad altri colleghi tra cui la Richards e il poeta Charles Olson: entrambi parteciperanno all’Event di quell’estate. La Harris dunque conferma che vi fu un reale interessamento per Artaud tra i collaboratori di Cage ma non indaga sulle ragioni di tali interesse. Cercheremo di ricostruire i fatti che portarono Cage a incontrare Artaud in quella fatidica estate del 1952.

L’incontro tra John Cage e Antonin Artaud, incontro univoco e tutto letterario, avvenne per il trami te di Pierre Boulez. Nel 1949 Cage è a Parigi dove incontra il compositore francese e si interessa vivamente alla sua musica, tanto da procurarsi lo spartito della Deuxième sonate per farla eseguire negli Stati Uniti. Al suo ritorno contattò per la sua esecuzione in un primo momento il pianista William Masselos che accettò l’incarico.

Poco dopo Morton Feldman presenta a Cage un giovane pianista di nome David Tudor convinto che fosse la persona giusta per eseguire la Sonate. Tudor comincia a studiare la musica di Boulez e nel contempo a studiare la lingua francese per poter leggere le opere che avevano interessato il compositore durante la stesura dell’opera: tra queste c’era Il teatro e il suo doppio di Artaud.v

Constatata la rinuncia di Masselos, l’esecuzione fu definitivamente affidata a David Tudor. Nel frattempo anche Cage comincia a interessarsi ad Artaud e alla sua opera, interesse che durò svariati anni. Infatti, e siamo nel 1951, in una lettera a Boulez, con il quale aveva intavolato un fitto carteggio, Cage scrive:

«Ho letto molte cose di Artaud. (Tutto ciò a causa tua e a causa di Tudor che legge Artaud per causa tua)».vi

Nell’estate del 1952 Cage si trova al Black Mountain Collegevii istituto del North Carolina, insieme a David Tudor e Merce Cunningham come insegnante di composizione. Durante la permanenza al College Cage e Tudor fanno leggere Artaud alla poetessa Mary Caroline Richards che, entusiasta, deciderà di tradurre Il teatro e il suo doppio in inglese e di dare pubbliche letture delle parti tradotte.viii Anche il poeta Charles Olson, presente anch’egli quell’estate al Black Mountain, viene a contatto con l’opera di Artaud e ne rimase folgorato constatando la somiglianza delle sue idee con quelle dell’autore francese.ix Il frutto di queste frequentazioni artaudiane sarà quello che verrà indicato come il primo Happening della storia, l’evento senza titolo, The Untitled Event che segnò la storia delle performing arts americane e non solo in maniera indelebile.

Parteciparono all’Event, oltre allo stesso Cage, Merce Cunningham, David Tudor, Charles Olson, Mary Caroline Richards, Robert Raushenberg e Nichilas Cernovitch.

Un’analisi completa dell’Event usce dai limiti di questo breve articolo per cui mi limiterò a segnalare i tratti che evidenziano l’influsso diretto delle idee di Artaud che in quell’estate, come abbiamo visto, fu oggetto di attenzione non solo da parte di Cage e Tudor, ma anche di Olson e della Richards.

L’Event fu eseguito nella sala mensa del College e il pubblico fu disposto in quattro zone triangolari convergenti al centro e divise tra loro da corridoi, in modo che non si formasse un punto di vista privilegiato e il pubblico fosse completamente circondato dalle azioni. Fu redatta in un pomeriggio una partitura di soli moduli temporali in cui gli esecutori avrebbero dovuto eseguire le loro azioni. Non furono eseguite prove e la durata fu di circa quarantacinque minuti. Ogni esecutore utilizzò il linguaggio che riteneva più consono: Cunningham danzò; Cage in piedi su una scala a pioli lesse la sua Juilliard Lecture; David Tudor eseguì Water Music di Cage; Olson lesse alcune sue poesie, così come la Richards; Rauschenberg mise dei dischi su un vecchio fonografo seduto sotto le sue tele bianche, infine Nicholas Cernovitch proiettò sul soffitto un suo film.x Le azioni non erano disposte in maniera lineare ma si sormontavano simultanee, senza un filo logico né un messaggio univoco. Nessuna arte dominava l’altra ma ognuna svolgeva le sue azioni indipendente utilizzando il proprio modulo temporale come da partitura.

Come si può comprendere da questa breve descrizione, The Untitled Event riprende le intenzioni di Artaud contenute ne Il Teatro e il suo doppio dove viene descritto un evento in cui il pubblico sia circondato dalle azioni, che si susseguono senza logica e in cui la parola non è sovrana, ma di questo parleremo più oltre.

Quello che è interessante sottolineare ora è che questo modello di azione performativa sarà riutilizzato da Cage per altre sue opere come ad esempio Theatre Piece del 1960 e i vari Musicircus che furono da lui organizzati a partire dagli anni ’60, a sancire una filiazione diretta da questo primo Happening e dagli eventuali influssi artaudiani.

Se nell’affrontare l’incontro tra due artisti risulta necessario evitare un’analisi che lo riduca ad un semplice fenomeno di filiazione, ciò risulta ancor più necessario nel caso di due personalità così diverse e, per certi versi, così radicalmente opposte come John Cage e Antonin Artaud. Se è indubbio infatti un innamoramento da parte di Cage per Artaud è anche indubbio che tale innamoramento non produsse risultati per linea diretta:

«Il divenire è sempre di ordine diverso rispetto a quello della filiazione. È alleanza. L’evoluzione comporta veri divenire ed è nel vasto campo della simbiosi che mette in gioco esseri di scale e regni del tutto differenti, senza alcuna filiazione possibile. C’è un blocco di divenire che investe la vespa e l’orchidea, ma da cui nessuna vespa-orchidea potrà discendere».xi

L’azione performativa di Cage non è una semplice messa in atto di un teatro artaudiano, ma rappresenta un mezzo per affrontare un problema che, per opposta balza, preoccupò anche Artaud: trasformare il teatro in uno strumento che permetta all’arte di incontrare la vita, cioè tentano entrambi di liberare e riscattare il teatro dall’idea di rappresentazione. Per entrambi l’azione teatrale e performativa diveniva il luogo in cui la vita stessa, senza false prospettive e senza illusioni, si manifestava in tutta la sua ricchezza e in tutto il suo mistero. L’obiettivo di entrambi consiste nell’abbandonare «l’infimo dentro» per incontrare «l’infinito fuori».xii

Già nella metà degli anni ’20, ai tempi del teatro Alfred Jarry, Artaud rimproverava al teatro di essere una rappresentazione di altro da sé, una illustrazione di un testo o di un’idea, di creare nella percezione una falsa prospettiva. Artaud chiede al teatro di non «scimmiottare la vita»xiii e di essere un luogo in cui ciò:

«che apparirà sulla scena sarà sempre considerato nel suo senso diretto, letterale: niente assumerà mai, per qualsiasi ragione, apparenza di scenario».xiv

Artaud accusa l’uomo di aver frapposto fra sé e la vita tutta una serie di filtri e barriere che ne impediscono di fatto un’immediata percezione e comprensione. Compito dell’artista è dunque lo svelamento di tutti i trucchi creati dalla coscienza dell’uomo per ritornare a un’originaria intesa con la vita e le sue leggi. Causa di questo declino è l’aver messo al centro dell’interesse dell’arte l’uomo e la sua coscienza:

«Con una realtà che aveva le proprie leggi, forse sovrumane ma naturali, il Rinascimento del XVI secolo ha rotto; e l’Umanesimo del Rinascimento non è stato un ingrandimento dell’uomo, perché l’uomo ha smesso di elevarsi fino alla natura ed ha piuttosto riportato la natura alla propria altezza, e l’esclusiva considerazione dell’umano ha fatto perdere il naturale».xv

Per Artaud, dunque, vita e cultura si sono separate, perché la cultura ha commesso il peccato di credere nei sistemi e nelle forme perdendo il senso di un legame intimo fra quelle forme e la natura:

«Se il segno dei tempi è la confusione, vedo alla base di tale confusione, una frattura fra le cose, le parole, le idee, i segni che la rappresentano».xvi

Nel tentativo di riavvicinarsi alla vita Artaud si rende conto che bisogna impedire qualsiasi ripetizione, sia di forme, sia di gesti, sia di eventi:

«Abbiamo bisogno che lo spettacolo cui assistiamo sia unico e che ci dia l’impressione di essere imprevisto e irripetibile come qualsiasi atto della vita, come qualsiasi evento prodotto dalle circostanze. Con questo teatro, insomma, ci ricolleghiamo alla vita invece di separarcene».xvii

Per Artaud l’arte non solo tenta un’identificazione con la vita, ma costituita con le stesse leggi diventa un mezzo che ci permette di scoprirla.xviii Scopo dell’artista diventa dunque il permettere di aprire gli occhi sulla vita:

«solo pittore, Van Gogh, e niente più,

niente filosofia, né mistica, né rito, né psicurgia

o liturgia,

niente storia, né letteratura o poesia,

i suoi girasoli d’oro e bronzo sono dipinti;

sono dipinti come girasoli e nient’altro, ma per capire

un girasole in natura, bisogna adesso rifarsi

a Van Gogh, così come per capire un temporale in

natura, un cielo tempestoso,

una pianura in natura,

non si potrà più non rifarsi a Van Gogh».xix

Se Cage e Artaud sembrano d’accordo sul principio che l’arte sia un mezzo per incontrare la vita, differiscono ampiamente nel definire cosa sia la vita a cui l’arte si deve avvicinare. Per Cage, influenzato dal buddismo zen e dalla filosofia indiana, la vita è costituita da tutto ciò che esiste, perché ogni essere vivente o inanimato è il buddha e si trova al centro dell’universo. Per comprendere questo l’uomo deve aprirsi verso il mondo esterno e progredire nell’accettazione di ciò che si trova al di fuori di sé, venendo così a scoprire che la vita è piena di mistero e meraviglia.

Per Artaud, invece, la vita è attraversata da forze oscure e misteriose, forze di natura metafisica, e che possono travolgere o innalzare l’uomo. La vita è quindi un fenomeno a cui guardare con coraggio, senza veli e senza maschere, attraverso evocazioni o scongiuri consci del fatto che queste forze possono travolgerci e gettarci nell’abisso:

«Noi non siamo liberi. E il cielo può sempre cadere sulla nostra testa. Insegnarci questo è il primo scopo del teatro».xx

L’arte si avvicina alla vita attraverso una ritualità magica ed evocativa, un’arte da stregoni e da sciamani, un’arte di fatto impedita dalla società che costantemente osteggia l’individuo dotato di una sensibilità particolare e affinata nel tentativo di conservare una visione falsa ma “civile”.

L’artista dunque è una sorta di illuminato che ha gettato uno sguardo sulla verità e non se ne ritrae, consacrandosi a una ferrea pratica di rivelazione ed evocazione, vita che si trasforma in un perenne conflitto con una società ostile ad ogni tentativo di uscita dalla rappresentazione.

Si vede dunque quanto il pensiero sulla società e il ruolo dell’arte in essa sia lontano da quello di Cage, in cui l’artista è perfettamente integrato nella società, anzi si potrebbe dire che costituisce uno strumento che la società può usare per il suo progresso e miglioramento.

Un altro punto di contatto tra i due autori, ed è forse il più interessante rispetto agli esiti teatrali di Cage e dove si può misurare maggiormente e con più sicurezza la portata dell’influsso artaudiano, è la concezione dello spettacolo e della scena. Il tipo di messinscena preconizzato da Artaud nei manifesti sul teatro della crudeltà prevede l’abolizione di una divisione tra scena e sala:

«Noi sopprimiamo la scena e la sala, sostituendole con una sorta di luogo unico, senza divisioni né barriere, che diverrà il teatro stesso dell’azione. Sarà ristabilita una comunicazione diretta fra spettatore e spettacolo, fra spettatore e attore, perché lo spettatore, situato al centro dell’azione, sarà da esso circondato e in essa coinvolto. Questo accerchiamento sarà dovuto alla conformazione stessa della sala».xxi

e ancora:

«Speciali aree ai quattro punti cardinali della sala saranno riservate agli attori e alle azioni […] Parecchie azioni simultanee […] Sarà conservata tuttavia un’area centrale che, senza costituire una scena vera e propria, dovrà permettere al nucleo dell’azione di raccogliersi e annodari ogni volta che sarà necessario».xxii

In questi passi si può senza difficoltà riconoscere la struttura della sala e il rapporto instaurato con il pubblico, nonché la simultaneità delle azioni, durante il primo evento organizzato da Cage al Black Mountain College nell’estate del 1952: il pubblico era disposto su quattro aree triangolari orientate verso il centro della sala; le azioni si svolgevano al centro, nei corridoi laterali e nelle aree retrostanti il pubblico avvolgendolo completamente; l’evento era costituito da numerose azioni simultanee, la cui sovrapposizione era generata da una partitura grafica a moduli temporali.

Quello contro cui operano prima Artaud e poi Cage è la prassi invalsa dall’Umanesimo di favorire un punto di vista centrale, scelta che determina l’illusione prospettica e l’idea di una forma di fronte alla quale ci si colloca piuttosto che essere in una situazione con cui ci si relazione. La separazione tra scena e pubblico divenne necessaria nel momento in cui la società richiese un punto di vista che privilegiasse una prospettiva particolare, abbandonando la multifocalità medioevale.xxiii

Artaud a differenza di Cage, concepiva uno spettacolo che avesse bisogno, nonostante l’esplosione delle forme e degli spazi, di venire riannodato, di avere un filo conduttore, mentre per il compositore americano la scena è il luogo in cui la vita fluisce liberamente senza bisogno del controllo di un regista o di un direttore, delegando di fatto al pubblico la percezione dell’insieme.

«La struttura alla quale dovremmo pensare è quella di ogni persona del pubblico. In altre parole è la consapevolezza individuale che struttura l’esperienza di ogni spettatore in modo diverso da quello di ciascun altro. Così meno strutturiamo l’occasione teatrale, più essa sarà simile alla vita non strutturata di tutti i giorni e maggiore sarà lo stimolo fornito alla facoltà strutturante di ogni persona del pubblico. Se noi non avremo fatto nulla è lo spettatore che avrà la possibilità di fare ogni cosa (corsivo mio)».xxiv

Se per Artaud il regista sarà la nuova anima del teatro, colui il quale si assume la responsabilità della creazione, per Cage è necessario intraprendere un percorso, iniziato proprio a partire del 1952, di rinuncia a ogni forma di controllo, non solo sull’esecuzione, ma anche sul materiale impiegato e sulla disposizione dello stesso nello spazio. Artaud non rinuncia quindi ad imprimere un crisma autorale, convinto che solo l’artista possa gestire uno sguardo lucido sulla verità, mentre per Cage l’artista non deve fare altro che creare le condizioni per cui la vita possa apparire.

Ma se vi è disaccordo sul ruolo del regista vi è accordo completo nel considerare il teatro una forma d’arte autonoma dalla letteratura:

«il teatro, arte autonoma e indipendente, per risorgere o anche soltanto per vivere, deve sottolineare ciò che lo differenzia da un testo, dalla parola pure, dalla letteratura e da ogni altro mezzo scritto e codificato».xxv

E ancora.

«Bisogna porre fine a questa superstizione dei testi e dalla poesia scritta (corsivo dell’autore). La poesia scritta vale una volta, e poi sia distrutta. E i poeti morti lascino posto agli altri. Ci accorgeremmo allora che la nostra venerazione per ciò che è stato fatto, per quanto bello e valido sia, ci pietrifica, ci immobilizza e ci impedisce di stabilire un contatto con l’energia sotterranea, la si chiami energia pensante, forza vitale, determinismo dei mutamenti, mestrui della luna o come altro si voglia. Sotto la poesia dei testi, c’è la poesia vera e propria, senza forma né testo».xxvi

quello di Artaud è un grido di indipendenza: svincolare il teatro da una subordinazione a un testo significa ristabilire dignità e autonomia al teatro, libero di gestire il proprio linguaggio, che è innanzitutto fisico, senza dover prima aderire, interpretare, rappresentare e comprendere qualcos’altro da sé.

Cage riconoscerà in molte interviste l’influenza di Artaud nel processo di liberazione del teatro e dell’arte performativa in generale facendo riferimento proprio al suo Event al Black Mountainxxvii, sia agli sviluppi dell”Happening o delle performance di Fluxus:

«in tutti i casi, si tratta di una forma di teatro che si sviluppa senza dipendere da un testo. Tutto ciò è semplice, almeno per me. Evidentemente in quasti happening possono anche esserci parole. Ma la cosa più importante è che essi non partano da un testo e non cerchino di esprimerne le qualità estetiche. Era già quello che prevedeva Artaud».xxviii

Ma se Artaud intendeva svincolare il teatro dalla dipendenza nei confronti dei testi letterari, per ricostruire un linguaggio che fosse unicamente e propriamente teatrale (si ricorda l’insistenza di Artaud nel portare come esempio di spettacolarità pura il teatro balinese costituito da segni e geroglifici, e come Artaud stesso volesse costruire, prendendo a modello proprio tale tipo di teatro, un sistema di segni che potesse essere ricostruito come un alfabeto visivo), Cage, completamente disinteressato a ricostruire alcun tipo di linguaggio, intende liberare il teatro dalla soggiacenza a principi esterni in modo che la vita possa apparire senza essere illustrazione di altro da sé.

Un ultimo aspetto da considerare è il rapporto di Cage con il teatro della crudeltà. Per Artaud la crudeltà è il principio su cui fondare il nuovo teatro, il cardine du cui costruire una nuova finzione del teatro. Ma cosa intende con teatro della crudeltà?

«Si può benissimo immaginare una crudeltà pura senza strazio carnale. Del resto, che cos’è la crudeltà in termini filosofici? Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta. […] La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata. È la coscienza a conferire all’esercizio di qualsiasi atto della vita un colore di sangue, una nota crudele, perché è chiaro che la vita è sempre la morte di qualcuno».xxix

E ancora:

«Uso il termine crudeltà nell’accezione di appetito di vita, di rigore cosmico, di necessità implacabile, nel significato gnostico di turbine di vita che squarcia le tenebre, nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere, il bene è voluto, è la conseguenza di un atto: il male è permanente».xxx

Per Artaud la crudeltà non rappresenta una modalità di messa in scena di delitti efferati ma costituisce una disciplina ferrea che consente di gettare uno sguardo lucido sulla vita, il nietschiano sguardo sulla vita bella e crudele. Artaud intende dotare il teatro di una disciplina che impedisca infingimenti rassicuranti: il male esiste, la morte e il dolore costituiscono fatti essenziali della vita da cui non bisogna ritrarre l’occhio. La vita non è una favola a lieto fine, i drammi che la costituiscono non si risolvono, semplicemente esistono e, prima o poi, tutti avremo a che fare con essi.

Ma cosa centra tutto questo con Cage, la cui visione della vita sembra decisamente meno fosca? Cage in un’intervista con Richard Schechner e Micheal Kirby fa accenno al tema della crudeltà artaudiana. Vediamo in che termini:

«Conosci quella storia zen della madre che ha perduto il suo unico figlio? Sta seduta sul ciglio della strada e sopraggiunge un monaco e le chiede perché sta piangendo; lei gli dice che ha perso il suo unico figlio e lui le dà una botta in testa e dice: “Ecco, ora hai un motivo per piangere”. Non c’è un po’ della stessa insistenza in Artaud nel fatto della peste e della crudeltà? Non vuole anche lui che la gente si veda non in un mondo piacevole, ma in qualcosa che è la chiave di tutte le cose dalle quali normalmente cerchiamo di proteggerci?».xxxi

Cage cita questa storia come esempio di accettazione di ciò che non è piacevole, di ciò che disturba la nostra concezione del piacevole. Se noi abbiamo coscienza della vita e delle sue leggi, la morte non può sconvolgerci emotivamente, se invece nutriamo affetti e abbiamo paura di perdere ciò che amiamo e ciò che ci dà piacere, la morte risulta essere incomprensibile, un ostacolo alle nostre aspettative e ai nostri desideri, un fonte di dolore. Il distacco buddista non è rassegnazione di fronte all’inevitabile, ma limpida coscienza della vita che è fonte di dolore e il dolore è generato dal desiderio. Questo distacco necessita di un perfetto dominio delle proprie emozioni per poter considerare ciò che accade come facente parte di una legge ineluttabile cui tutto è sottoposto. Anche per il buddismo zen, e quindi anche per Cage, questo si ottiene tramite una ferrea disciplina che dispone l’uomo ad accettare la vita e le sue leggi al di là del principio del piacere e del desiderabile.

Cage e Artaud condividono la necessità di uno sguardo lucido e crudele sulla vita che ci consenta di conoscere ciò che ci circonda al di là di ogni possibile rappresentazione consolatoria che la civiltà oppone al fine di dimenticare il nostro destino transeunte. Il senso di protezione e di falsa reiterazione di giorni belli, divertenti e produttivi che la società cerca di confezionare viene scardinata e rimpiazzata con una verità dura da digerire. Si opera quindi tramite l’arte quel disvelamento che era accezione della verità come aletheia.

Note

i Edgar Varèse e Pierre Schaeffer furono fondamentali per la ricerca di Cage sul rumore, Boulez fu compositore amato con cui intrattenne un importante carteggio (Pierre Boulez, John Cage Correspondance. Documents réunis, présentés et annotés par Jean-Jacques Nattiez, Christian Bourgois Èditeur, 1991), Satie fu il compositore più amato e più volte eseguito o usato nelle sue composizioni (es. Vexation), Marcel Duchamp fu amico e maestro non solo di scacchi, Mallarmé fu uno tra i poeti maggiormente amati da Cage insieme a René Char, Infine per le scelte performative di Cage: Antonin Artaud.

ii William Fettermann John Cage’s theatre pieces. Notation and performance Amsterdam, Harwood Academic Publishers, 1996.

iii Ivi, p.36.

iv Mary Emma Harris The Arts at Black Mountain College The MIT press, Massachusetts, 1987.

v :«David si mise immediatamente a studiare quella musica. E non soltanto quella musica: egli imparò anche il francese in modo da poter leggere in originale Artaud, Char, Mallarmè, cioè vivere, per quanto possibile, nell’atmosfera stessa del Boulez della Deuxième sonate». John Cage Per gli uccelli. Conversazioni con Daniel Charles Torino, Testo& immagine, 1999, p.125.

vi Pierre Boulez – John Cage Correspondance op. cit. p. 153.

vii Il Black Mountain College fu fondato nel 1933 e fu subito un centro di attrazione per artisti, scrittori, musicisti. Con la direzione di Josef e Anni Albers il College divenne una sorta di Bauhaus in versione americana. Il funzionamento del college è spiegato dallo stesso Cage: «Nel caso del Black Mountain college, c0era una totale compatibilità tra le arti e l’università perché erano esattamente ciò che si poteva trovare. Non c’era nient’altro (nel 1952/53), sebbene penso ci fosse anche un corso di matematica e fisica. In gran parte si trattava di discipline artistiche. Ciò che era particolarmente illuminante del Black Mountain era il fatto che i corsi non fossero finalizzati all’ottenimento di alcun titolo di studio, infatti non si rilasciavano lauree. Se ne faceva parte sia quando lo si lasciava che quando lo si frequentava […] di fatto poi, se qualcuno intendeva conseguire una laurea, questo era possibile, ma non era la facoltà del Black Mountain a concederla direttamente o a esaminarlo, per questo infatti venivano chiamate persone da altre facoltà più strutturate» in John Cage Lettera a uno sconosciuto a cura di R. Kostellanetz, Socrates, Roma, 1997 p. 337. Si ricorda che Cage, prima dell’estate del 1952, aveva già fatto una breve apparizione al Black Mountain nel 1949 insieme a Merce Cunningham. In quell’occasione vi rimase solo pochi giorni dando concerti di musica di Satie. Lo studio più approfondito sull’attività del Black Mountain College è quello di Mary Emma Harris The Arts at Black Mountain College op. cit.

viii Mary Emma Harris op. cit. p. 228 La traduzione della Richards fu pubblicata qualche anno dopo, precisamente nel 1958 per la Grove Press di New York, e sempre in quell’anno la Richards portò il manoscritto ancora inedito ai coniugi Beck, fondatori del Living Theatre.

ix Charles Olson vedeva in Artaud una conferma delle sue idee sul mito e sul rito. Olson vedeva nell’atto rituale un luogo in cui: «la vita e la sua espressione sono coerenti perché l’uomo sceglie di agire piuttosto che descrivere, analizzare o comparare» (in Mary Emma Harris op. cit. p. 240). Inoltre apprezzava in Artaud: «la visione di un’arte che fosse un mezzo di cambiamento attraverso un processo di trasformazione alchemica» (in Mary Emma Harris op. cit. p. 240).

x Per una ricostruzione esaustiva de The Untitled Event si confronti: William Fetterman op. cit. p. 101; Mary Emma Harris op. cit. p. 228; Rosalee Goldberg Performance Art from Futurism to the present, Thames & Hudson, New York, 2001, p. 120, Micheal Kirby Happenings, Bari, De Donato, 1968.

xi Gilles Deleuze, Felix Guattari Come farsi un corpo senza organi? Millepiani, capitalismo e schizofrenia. Vol. II Roma, Castelvecchi, 1996, p. 149

xii Antonin Artaud Per farla finita con il giudizio di Dio, Stampa Alternativa, Roma, 2000,.p. 33.

xiii Antonin Artaud Teatro Alfred Jarry. Stagione 1928 in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968, p. 17

xiv Ibidem.

xv  Antonin Artaud viaggio al paese dei Tarahumara in Al paese dei Tarahumara e altri scritti Adelphi, Milano, 1966, p.89.

xvi Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio op. cit. p. 127.

xvii Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio op. cit. p. 7. John Cage ha espresso in molte interviste la sua avversione per la ripetizione, avversione già presente all’epoca dei suoi studi con Schönberg: «Lei sa che Schönberg disse che tutto è ripetizione, anche la variazione. D’altra parte, possiamo dire che la ripetizione non esiste, che due foglie della stessa pianta non rappresentano l’una la ripetizione dell’altra, ma sono uniche. Oppure che due mattoni dello stesso edificio al di là della strada sono diversi. E quando li esaminiamo più da vicino, ci accorgiamo che sono davvero diversi per qualche aspetto, se non altro per come ricevono la luce, essendo posti in due posti diversi nello spazio. In altre parole, la ripetizione è realmente correlata al nostro modo di pensare. […] Se pensiamo che due cose siano ripetute questo deriva generalmente dal fatto che non abbiamo esaminato accuratamente tutti i dettagli. Ma se saremo scrupolosi come se esaminassimo al microscopio ciascun dettaglio, ci accorgeremo che la ripetizione semplicemente non esiste». In John Cage Lettera a uno sconosciuto op. cit. p. 303.

xviii Tale principio vale anche per Cage il quale ancor prima di scoprire Artaud seguiva il principio del filosofo indiano Ananda Coomaraswamy secondo cui scopo dell’arte è imitare la natura nel suo modo di operare.

xix Antonin Artaud Van Gogh il suicidato della società Adelphi, Milano, 1988, p. 47

xxAntonin Artaud Il teatro e il suo doppio op. cit. p. 196.

xxi Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio op. cit. p. 211

xxii Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio op. cit. p. 213

xxiii :«Lo spazio avvolgente è lo spazio del teatro medioevale, all’aperto e al chiuso, lineare o circolare; è lo spazio che si costituisce nel tempo, nella successione delle azioni e dello sguardo. Non una forma di fronte alla quale ci si colloca, è una situazione di relazione nella quale ci si coinvolge». In Fabrizio Cruciani Lo spazio del teatro Bari, Laterza, p.49

xxiv John Cage Conversazione con Micheal Kirby e Richard Schechner In Riga n.16, Marcos y Marcos, Milano, 1998, p. 174. evidente in questo passo l’esempio di Marcel Duchamp per il quale era il pubblico a completare l’opera; «Tutto sommato l’artista non è solo nel compiere l’atto di creazione, perché lo spettatore stabilisce il contatto dell’opera con il mondo esterno decifrando e interpretando le sue qualificazioni profonde e con questo aggiunge il proprio contributo al processo creativo». In Marcel Duchamp Il processo creativo, In Riga n. 5 Marcos y Marcos, Milano, 1993, p. 26,

xxv Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio op. cit. p. 221

xxvi Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio op. cit. p.195

xxvii A proposito della ricezione di Artaud durante il periodo al Black Mountain College è interessante la testimonianza di Mary Caroline Richards: «Artaud si era dedicato ad approfondire l’immagine del teatro che, per lui, non era una branca della letteratura, per quanto le università possano dissentire. È un’arte con un linguaggio proprio, e la sua pratica è più da collegare con la magia che con la descrizione. Artaud si batteva per la liberazione dalla dittatura del testo». In Mary Emma Harris op. cit. p. 228.

xxviii John Cage Per gli uccelli. Conversazione con Daniel Charles op. cit. p. 228.

xxix Antonin Artaud Il teatro e il suo doppio op. cit. p.216-217.

xxx Ibidem.

xxxi John Cage Conversazione con Micheal Kirby e Richard Schechner op. cit. p. 175.