La comicità di Andrea Cosentino colpisce per essere sempre creatura duomorfa: aulica e dialettale, potente ed erosiva ma in qualche modo fallimentare, graffiante ma in maniera difensiva quasi a chieder scusa di tanto osare, assurda e fantastica nel suo essere estremamente reale e quotidiana.
Questa doppia natura è accattivante, accogliente. Il mostro a due facce che si agita sulla scena non fa paura, tutt’altro. Anzi aiuta a metterti comodo e a goderti le sue evoluzioni, ed è in quel momento che agisce con maggior efficacia sul pubblico, quando le difese sono abbassate, quando la nostra mente rubrica quanto si vede come inoffensivo. E il tutto viene anche facilitato dal fatto che le due facce si somigliano, pochi particolari le differiscono, dando quella vaga sensazione che non tutto è come dovrebbe essere ma, dopo un attimo di dubbio, si scrollano le spalle e si fa finta di nulla.
Questa supposta impotenza, questo indurre a farsi sottovalutare, è la vera forza del teatro di Andrea Cosentino: la morbidezza che si fa forza, la fluida debolezza che perfora più di una trivella. È come la mela di Biancaneve: perfetta e dolcissima ma che nasconde nel suo cuore un maleficio.
Ma vi è anche un altro aspetto da non tralasciare. Andrea Cosentino nutre il suo mostro dalla doppia natura con il fallimento inteso come mancanza, incompletezza, caducità. Sia gli atti che le parole vengono a mancare e proprio in questo loro quasi non essere complete, diventano forti. Le parole mitragliate e smangiucchiate, il gesto che prova a compiersi e ci ripensa rimanendo in potenza. Un armamentario di quasi, di incompiuti, di nati a metà.
In ogni spettacolo che ho visto di Andrea Cosentino mi ha colpito in primo luogo il vasto spettro di chiavi di lettura che fornisce al pubblico. Come un mago che pone un vasto mazzo di carte entro cui scegliere la carta eletta, così Andrea Cosentino presenta molteplici piani di visione che vanno dall’aulico, al metateatrale, al popolare inteso come folklorico e al pop inteso come cultura quotidiana condivisa.
L’aspetto aulico induce molti a pensare che sia un atteggiamento un poco ruffiano, che occhieggia a quella parte di pubblico intellettuale, in cerca di avanguardia pret-a-porter, quando in verità è solo una freccia linguistica e stilistica in più incoccata nel suo arco. È quello che in Giappone si chiamerebbe superflat: un miscuglio indistinguibile di alto e basso, di classico e pop, la citazione dotta in slang da strada.
Anche i riferimenti molteplici, penso ad esempio a Kotekino Riff, ultima sua fatica, dove abbondano i riferimenti a certa cultura teatrale come il pupazzo dalla figura di Antonin Artaud o ai riferimenti a Grotowski, non sono sfoggio di cultura, e nemmeno appunto occhiolini al pubblico snob, ma necessità all’interno di un linguaggio che si nutre di molteplicità, che attinge a un ampio bacino di strumenti di cui far uso ma in stato di necessità senza affettazione alcuna.
In Lourdes, visto ieri sera al Teatro della Caduta di Torino nell’ambito di Concentrica, lavoro per la regia di Luca Ricci che cura anche l’adattamento teatrale del romanzo di Rosa Matteucci, opera quindi non interamente del sacco di Andrea Cosentino, si assiste ai medesimi meccanismi di cui sopra: il mostro duomorfo appare, affascina, ammalia, ma corrode lentamente con il sorriso, svelando miserie e poche nobiltà dell’umano agire/patire.
Un Andrea Cosentino vestito da suora della carità, ci conduce per mano, sul torpedone per Lourdes, con gli anziani, i malati, gli sciancati, verso la grotta e la piscina della Madonna in cerca di un miracolo a buon mercato come un brutto souvenir o, al massimo, di un poco di avventura e compagnia.
Proprio in mezzo a questo bailamme, in questa folla improbabile, vociante, scombinata, superstiziosa nella sua religiosità egoista volta solo al soddisfacimento del proprio desiderio (Madonnina fammi diventare bella) o cura per i propri comunissimi acciacchi, che si trova l’abbandono a Dio. Un finale un po’ troppo facilmente consolatorio ma comprensibile nell’economia dell’opera.
Una sorta di moderno racconto boccaccesco, come Abraam giudeo che vista a Roma la gran cattiveria dei monaci torna a Parigi e fassi cristiano, così la protagonista immersa in tanta commerciale religiosità, e in tanta miserevole umanità ignorante e superstiziosa, scopre il Dio nascosto.
Lourdes è uno spettacolo divertente e profondo, viziato un poco da un finale scontato, sebbene, come detto, comprensibile. Non è l’opera che più si adatta alla pelle di Andrea Cosentino, ma che certo solo Andrea Cosentino poteva rendere così accattivante e profonda. Molto azzeccate le musiche originali eseguite in scena di Danila Massimi.