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Leonardo Lidi

ANTIREALISMO E VERITÀ NE LO ZOO DI VETRO DI LEONARDO LIDI

Lo Zoo di Vetro che il giovane e talentuoso Leonardo Lidi porta in scena al LAC di Lugano pone sin dalla prima battuta alcune interessanti e scottanti questioni sul teatro contemporaneo. Prima fra tutte il rapporto tra la scena e la verità. Ecco le parole iniziali di Tom Wingfield: “Mi chiamo Tommaso e sono un pagliaccio. Sono qui per raccontarvi la mia verità. Per farlo ho bisogno di finzione, io vi darò verità sotto il piacevole travestimento dell’illusione. C’è molto trucco e c’è molto inganno. Il dramma è memoria, è sentimentale non realistico”. Sembra dunque che in questo momento storico, che potremmo chiamare, seguendo l’orma di Noah Harari, della post-verità, il teatro riassuma in sé la primigenia funzione di velo disvelante. Fingendo si dice la verità o, meglio, si pone una verità possibile sul terreno di discussione comune con lo spettatore.

Leonardo Lidi, nuovamente alle prese con un universo familiare dopo Gli spettri di Ibsen alla Biennale di Venezia 2018, decide di affrontare la verità portata dal testo di Tennessee Williams attraverso un meccanismo rappresentativo antirealistico. La casa rosa e stilizzata come in un disegno di bambino circondata da un mare di palline di polistirolo azzurro sono due mondi diversi: la famiglia nel tempo del racconto, e l’età del ricordo, in un altrove futuro, lontano ma ancora imbrigliato in quella dimora. Entrambi sono artificiali ma non simbolici. Sono rappresentazione di un costrutto mentale dei personaggi e di Tom Wingfield, narratore ed evocatore. La regia dunque si discosta dalla maniera consueta ligia a un realismo borghese, per sfruttare la forza di un immaginario capace di smuovere sentimenti e sensazioni.

Ultimo elemento: la maschera clownesca, quello schermo, strumento rituale e antico, capace di far parlare le voci e le forze che stanno oltre l’interprete. Tutto è dunque finzione e artificio, ciò dunque che è più lontano possibile da una supposta realtà. Essa però è oggi sfuggente, relativa, essa stessa virtuale. Eccoci dunque alla domanda fondamentale: non resta che abbandonarsi a una spudorata finzione per giungere a una verità? In poco più di cento anni il “Non ci credo” di Stanislavkij è diventato non solo inutile ma anacronistico? La proliferazione di mondi possibili, più o meno virtuali, che la vita contemporanea ci costringe ad attraversare, ci ha condotto, volenti o nolenti, alle origini del teatro, dispositivo di menzogna portatore di riflessione sulla realtà del mondo. Di certo tutto questo ci ha anche costretto a porsi la questione fondamentale delle funzioni della scena che per troppi anni è stata data per scontata.

Una dichiarazione di intenti ambiziosissima da parte di Leonardo Lidi, regista di soli trentuno anni, ma condotta e sviluppata con abilità. Forse dobbiamo finalmente abbandonare l’idea che la giovinezza di un autore sia anche sintomo di immaturità compositiva. Thomas Mann pubblicò i Buddenbrook a ventisei anni, John Cage sperimentò il pianoforte preparato a ventotto, Filippo Tommaso Marinetti lanciò il futurismo a trentatré. Ossessionati dalla questione Under 35 ci stiamo dimenticando che a trent’anni si è adulti, solidi e maturi, pronti ad affrontare prove difficili e Leonardo Lidi ha già dimostrato ampiamente di essere in grado di aggredire anche i classici più ostici e dirigere attori di grande personalità e abilità.

La scelta antirealistica di Leonardo Lidi si sviluppa anche è soprattutto nel corpo degli attori, nella loro fisicità astratta, quasi di automi meccanici, costretti a protocolli operativi di cui si sia perso il senso. Si mimano gli oggetti mancanti: la tavola, il candelabro, la tovaglia stesa, i piatti lavati e, soprattutto, gli animaletti di vetro di Laura Wingfield, la cui assenza rende ancora più evidente il loro ruolo di rifugio nell’illusione. I costumi e le abnormi scarpe tipiche dei clown costringono a movimenti innaturali e goffi. L’unico personaggio che partecipa in qualche modo al nostro mondo è Jim O’Connor, ponte verso una normalità aggressiva, volta a impoverire l’unicità degli altri personaggi, e per questo più libero e sciolto nel corpo aderente a una quotidianità assente dalla scena.

Indovinato l’inserimento de “la casa stregata” di Topolino proiettato sulla parete schermo della casa rosa dei Wingfield. Non solo simbolo dell’ossessione per il cinema di Tom e suo personale luogo di evasione dal reale ma anche icona della fuga impossibile dai fantasmi del passato con cui termina Lo Zoo di vetro e di cui non ci si libera mai. Si è sempre in qualche modo presi dalla loro ragnatela polverosa e questa verità ancora una volta viene proferita da uno strumento di finzione, il cartone animato, inserito come scatola cinese nella rappresentazione.

Una prova matura e colma di interessanti spunti quella di Leonardo Lidi, abile soprattutto nel saper mescolare ritmi e sentimenti e nel modulare i toni del dramma oscillando tra gli estremi senza mai abusare.

Unica leggera perplessità la scelta della maschera clownesca. Essa è evocatrice di mondi oscuri, demonici, di forze irruenti collegate a un universo infero, più legata al grottesco, – pensiamo alla forza prepotente del recente Joker di Todd Phillips, splendidamente interpretato da Joachin Phoenix – piuttosto che non al delicato e fragile mondo da casa di bambola disegnato dalla regia. I clown che abitano questo Zoo di vetro sono invece più legati al cliché della tristezza e malinconia del pagliaccio dunque più costume che maschera, più immagine e ambiente che segno. Ma questo è forse un cercare il pelo nell’uovo in uno spettacolo che riesce a toccare il cuore e la mente dello spettatore.

Visto al LAC di Lugano il 4 novembre 2019

Matilde Vigna

INTERVISTA A MATILDE VIGNA SU AMINTA DI ANTONIO LATELLA

Dopo aver visto Aminta di Antonio Latella al Teatro dell’Arte della Triennale di Milano ed essere rimasto affascinato dall’uso sonoro e musicale della parola del Tasso, ho sentito la necessità di conoscere e approfondire le fasi di lavorazione. Ho incontrato in questa intervista Matilde Vigna, cheinsieme a Michelangelo Dalisi, Emanuele Turetta e Giuliana Bianca Vigogna compone il cast di Aminta.

Matilde Vigna, è stata vincitrice del premio Ubu 2016 come migliore attrice under 35 insieme all’intero cast di Santa Estasi, sempre per la regiadi Latella. Recentemente è stata protagonista di Causa di beatificazione per la regia di Michele di Mauro, presente nel cartellone dello scorso Festival delle Colline Torinesi, e di Spettri per la regia di Leonardo Lidi alla Biennale Teatro 2018.

A partire da quale elemento avete iniziato ad affrontare il lavoro su Aminta?

Direi che ci siamo approcciati ad Aminta guidati da due direttrici: il lavoro sul verso e la ricerca di Amore. Abbiamo affrontato Tasso partendo dal verso, esplorando non soltanto la sua metrica e musicalità ma anche la verticalità dello stesso, la sua capacità di portarci in profondità. Allo stesso tempo ci siamo chiesti cosa sia amore – Amore? è infatti la domanda iniziale dello spettacolo. Cosa sia per noi oggi, cosa fosse per lo stesso Torquato Tasso, come questa parola (così difficile da dire, attorialmente parlando) ed il suo significato possano essere declinati in un’infinità di modi. Questa domanda è la freccia iniziale che scagliamo in mezzo al pubblico. Il verso è la corda tesa e vibrante che permette – assieme al lavoro musicale di Franco Visioli – questa scoccata.

Attraverso quali fasi il testo scritto, quello che Carmelo Bene chiamava il morto-orale, si è trasformato in parola viva?

Il lavoro di Antonio Latella con noi attori è stato principalmente incentrato sulla concretezza del verso parlato. Inoltre il lavoro con Linda Dalisi sul testo, a livello di comprensione, etimologie, radici storiche e curiosità, è stato fondamentale per la nostra comprensione ed appropriazione del testo stesso. Le dinamiche tra gli attori che dialogano (I personaggi infatti nella presentazione della prima edizione di Aminta vengono chiamati INTERLOCUTORI) rendono il verso vivo, concreto, radicato, è un lavoro in “verticale”. Latella ha insistito molto sulla verticalità. Il verso si fa carne, ci attraversa, ma ogni verso è una freccia scoccata dritta verso il pubblico. Anche il suono curato da Franco Visioli va nella direzione della verticalità e non secondario è stato per noi l’ostacolo/arma rappresentato dai microfoni, governati sempre da Visioli. Non fermarci al suono della nostra voce, alla musica del verso. Il microfono ci “ruba l’anima”, ma la direzione è sempre verso l’Altro e non può fermarsi alla capsula del microfono.

Puoi raccontarmi qual è stato il processo di messa in scena? quali sono state le differenti fasi di lavorazione?

Il primo incontro è avvenuto nell’ottobre 2017. Abbiamo incontrato il regista e la sua

squadra e il resto del cast, ed è stato entusiasmante. In questa fase abbiamo lavorato con Linda Dalisi, sul testo, sulla storia del Tasso e sul periodo storico, sulle varie versioni di Aminta e sull’iconografia e le esperienze musicali collegate. Anche noi attori avevamo dei compiti da preparare e questo è stato fondamentale per immergerci da subito totalmente nell’opera e in noi stessi, per contaminarci a vicenda e anche per farci conoscere dal resto della compagnia. In questa sede abbiamo lavorato con Francesco Manetti sulla polka: com’è evidente nello spettacolo la scelta è stata radicalmente diversa ma credo che il lavoro sul ritmo ci sia rimasto dentro e ci abbia permesso di dire poi i versi nell’immobilità senza perdere mordente. A marzo 2018 c’è stata un’altra fase di lavoro a Esanatoglia, nelle Marche. Noi attori dovevamo arrivare con la memoria del primo atto e alcuni dei pezzi musicali. Abbiamo iniziato ad incarnare i versi, a provare soluzioni sceniche. In questa fase noi attori “nuovi” al lavoro con la compagnia Stabilemobile abbiamo potuto toccare con mano la qualità di una compagine di artisti e professionisti di altissimo livello. Antonio Latella guida una squadra encomiabile e noi giovani ci siamo sentiti parte di un processo creativo plurilaterale – e in queste condizioni memorizzare pagine di versi diventa un piacere e un onore. A ottobre 2018 il processo si è concluso a Macerata, dove Aminta ha debuttato l’8 novembre al Teatro Lauro Rossi. In questo frangente il secondo tempo si è concretizzato, abbiamo aggiunto un ulteriore pezzo musicale (Vitamin C), il lavoro su noi attori, su luci, suoni, scena e costumi si è definito.

In che modo sono emersi i materiali musicali e quale rapporto instaurano con il testo?

Le scelte musicali sono opera di Latella e Visioli. Il Lamento dell Ninfa di Claudio Monteverdi (coevo del Tasso) si colloca nel primo atto dove predominano immobilità, costumi neri (ad eccezione di Tirsi), e restituzione del testo originale. Nel secondo tempo, dopo il monologo del Satiro – ossia qui la trasformazione di Aminta nel Satiro ad opera di Silvia – tutto cambia. La poesia si perde pur rimanendo, Amore ha scoccato la sua freccia, c’è una liberazione, un urlo. Sopraggiunge il rock. Quindi PJ Harvey con Rid of Me all’inizio e Vitamin C dei CAN alla fine. Oltre alla musicalità penso che anche le allusioni più o meno esplicite contenute nei testi di queste canzoni abbiano suggerito a Antonio Latella la loro collocazione.

Antonio Latella nell’intervista che mi rilasciò a luglio 2017 alla Biennale Teatro, mi disse chesecondo lui era finita l’era del regista-capitano della nave. Stava emergendo piuttosto una nuova figura, più simile a un direttore d’orchestra o a un compositore. Dal punto di vista di un attore come vedi questa trasformazione del ruolo del regista? Si avverte questo cambio di rotta?

Decisamente. Antonio Latella guida una squadra di artisti che lavorano in autonomia, che propongono, c’è un confronto continuo. L’immagine del direttore d’orchestra è calzante. Per noi attori soprattutto Antonio Latella è guida maieutica, non impositrice: seguiamo chiaramente le sue indicazioni, ma è evidente come lui parta da noi, e non imponga nulla. Lo spettacolo si crea lavorando con noi attori con i nostri corpi e le nostre intelligenze e lui è maestro in questo. Forse è semplicistico dire che tutto si riduce al cast, ma penso che abbia saputo abilmente selezionare gli attori che potessero tradurre la sua idea di Aminta nel 2018.

Quale ruolo assume l’interprete in questa nuova creazione di Antonio Latella?

L’interprete è fondamentale. O, per tornare alla dicitura primaria di Tasso, l’interlocutore. Abbiamo il compito di riportare la meraviglia di questi versi facendoci attraversare, con un movimento necessariamente verticale. La musica ci supporta, i microfoni ci amplificano, il faro su rotaia circolare compie il suo moto di rivoluzione attorno a noi ma alla fine – complice anche la quasi totale immobilità – tutto si riduce a noi e alle parole del Tasso. Ed è nostra responsabilità ogni sera lasciare che questo accada, perché senza la nostra totale adesione la difficoltà della lingua rischia di superarne il valore, e questo non può accadere. É infatti un lavoro politico, di riscoperta senza edulcorazioni della ricchezza della nostra lingua madre, in un tempo di impoverimento e imbarbarimento linguistico e – se mi è permesso – non solo.

Qual è stata la tua principale difficoltà, come attrice, nell’affrontare Aminta, e come sei riuscita a superarla?

Personalmente, lasciare che Silvia fosse. Prima del debutto ero molto spaventata: temevo di non essere all’altezza, che nel mio sentirmi “troppo poco” caricassi eccessivamente o non fossi all’altezza del disegno registico, così elegante, forte e rigoroso. E devo ringraziare Antonio Latella che ha capito il mio momento di disagio e mi ha dato fiducia. Allo stesso modo il supporto di Franco Visioli sulla parte musicale per me è stato fondamentale e mi ha fatto esplorare nuove fantastiche possibilità.

Ph: @Brunella Giolivo

Antonio Latella

BIENNALE TEATRO 2018: INTERVISTA AD ANTONIO LATELLA

Si è conclusa la seconda edizione della Biennale Teatro sotto la direzione di Antonio Latella dedicata all’attore-performer. Ultimo atto del festival la premiazione di Leonardo Manzan, romano, 26 anni, vincitore del bando del College Registi Under 30. Menzione speciale a Giovanni Ortoleva, 26 anni, da Firenze.

Durante la prima settimana di festival abbiamo incontrato il direttore in quest’intervista per approfondire alcune delle questioni poste dalle opere e dagli artisti presenti nella rassegna.

Enrico Pastore: Antonio Latella perché ha sentito l’esigenza di porre la questione attore-performer?

Antonio Latella: «È una questione molto intima perché facendo il regista ti confronti sempre con gli esseri umani e non con una natura morta. Forse è l’unica arte dove alla fine tutto è consegnato agli uomini. Non sono filmati, non sono fotografati ma sono lì e agiscono per te. Per me il punto centrale resta sempre l’attore-performer perché senza di loro non può esserci il teatro e credo che per farlo abbia bisogno proprio di corpi e di vita per entrare in contatto con il pubblico.

Per questo penso che ci sarà sempre bisogno degli attori-performer. Per molti paesi europei, ma anche per gli americani, non c’è differenza tra attore o performer. Io non voglio dire se c’è o meno una differenza, però penso che, guardando gli spettacoli di questa Biennale, ognuno può farsi un’idea se tale condizione esista o meno. Se c’è è una differenza dello stare, non concettuale e l’essere in scena in quel momento e di quale tipo di contatto si cerca».

Enrico Pastore: Non pensa che si stia delineando di fronte a noi una nuova figura che non è un regista né un coreografo, quanto più un compositore della scena, un artista che compone con le modalità delle tre arti sceniche verso una nuova forma di teatro?

Antonio Latella: «Io non uso mai la parola artista riferendomi a un regista; eppure sempre più spesso ci troviamo di fronte a persone che vengono dall’arte figurativa e che scelgono come loro luogo d’azione il teatro. Questo crea già una scissione.

Finalmente, e lo dico anche contro me stesso che ho due piedi nel Novecento, è finita la figura dittatoriale del regista. Credo che la sua figura, come capitano che guida una nave sia finita. Il suo nuovo ruolo che emerge è quello che mi ha posto nella domanda: uno che ha la capacità di attendere ed è capace di portare al massimo i talenti di cui si circonda e fusi dal suo lavoro con delle meravigliose alchimie.

Il nuovo regista compie un atto creativo, e infatti, non si usa più la parola spettacolo quanto creazione. C’è una differenza sostanziale. Si tratta proprio di creare da zero, di scrivere per e con la scena. Questo permette una nuova dimensione di racconto.

Molti suoi colleghi si chiedono: ma dov’è la storia? In realtà c’è ma è diversa e pertiene a una modalità nuova di racconto, legata a una generazione esperta nell’uso delle nuove tecnologie di comunicazione e quasi non comunica più con le parole, non utilizza più gli scritti ma si basa su una divulgazione di simboli, di fotografie, una scrittura costituita dall’unione di immagini».

Enrico Pastore: Questa nuova figura possiamo dire che è già stata prefigurata dal Novecento. Pensiamo a Cage: un musicista che ha inventato l’happening e composto pezzi di teatro dove potevano agire danzatori, attori e performer. Stiamo andando finalmente contro le categorie di genere?

Antonio Latella: «Non esistono più le categorie. Ed è quello per cui personalmente mi batto da anni. Ci sono mille cose completamente diverse ma la categoria non esiste più. Io già inorridisco quando sento parlare di teatro di tradizione, di ricerca, teatro off.. Queste non ci sono più. Solo se siamo in grado di rimuoverle, riusciamo a rilanciare il teatro nella sua globalità. Se continuiamo a creare delle nicchie alimentiamo anche delle fruizioni di pubblico molto elitarie che non si fondono mai tra di loro. Credo, invece, che oggi l’atto politico importante, sia questa fusione del pubblico e non la sua separazione. Alcuni artisti riescono a farlo e posseggono questa abilità di scrittura trasversale».

Enrico Pastore: Quello che dice è giusto ma ci conduce a un punto dolente toccato dal convegno attore-performer: bisogna che le istituzioni si riformino e creino strumenti che superino le categorie. Questo non può essere delegato solo ai festival o ai teatri.

Antonio Latella: «Certo, c’è bisogno del lavoro delle istituzioni, ma credo sia fondamentale anche il lavoro del direttore artistico. Quest’ultimo, nonostante le trappole ministeriali, deve riuscire a essere coraggioso e capace di arredare la sua casa con diversi linguaggi e farli passare al pubblico. Il direttore artistico deve essere un po’ meno pigro. Spesso si accontenta di preparare una situazione da supermercato e non fa passare un pensiero. Se riesce, al contrario, a divulgarlo, farà in modo di coinvolgere anche il pubblico.

Ci sono casi in cui i primi due anni di mandato hanno addirittura svuotato teatri ma poi sono riusciti a creare nuovo pubblico. È vero che noi non possiamo essere competitivi dal punto di vista economico. L’Italia non è lo è da questo punto di vista. Le nostre risorse sono ridicole rispetto a quelle di altri paesi. Io però riesco a vedere delle forze che possono in qualche modo rilanciare e sono convinto che la cosa più interessante che sta accadendo, ora in Italia, siano proprio i festival. Si è compreso come rappresentino il luogo per un rilancio. E in qualche modo tra di noi c’è una competizione sana e creativa».

Enrico Pastore: Quale può essere il ruolo dei festival nel rilancio delle arti sceniche in Italia?

Antonio Latella: «Innanzitutto non competere con i grandi festival internazionali. Non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo essere potentissimi nella proposta e nelle idee e riuscire a porre delle domande.

L’altro aspetto fondamentale credo sia il coraggio dello scouting. Noi lo stiamo facendo e altri festival è gia da tempo che perseguono questo ruolo. Dobbiamo concentrarci sul fatto che non si lavora solo per quelli che sono già affermati, ma soprattutto per quelli che hanno bisogno di essere mostrati. Se riusciamo a operare in questa direzione il lavoro diventa altruistico. In questo modo riusciamo a creare delle curiosità per il pubblico e per gli operatori».

Enrico Pastore: Quale pensa sia la funzione delle arti sceniche nel nostro contemporaneo?

Antonio Latella: «Ci sono due cose che mi emozionano molto. La prima è che, al di là di quello che ho sentito al convegno, ci sarà sempre bisogno degli attori. Sia un regista che un performer avrà sempre bisogno di loro. Fare questo lavoro oggi è una scelta decisamente eroica. Personalmente trovo sempre commovente quando dei giovani decidono di far teatro. Non è il futuro, non è Star Trek, è archeologia. Vedere dei giovani che si siedono davanti a un testo che esiste da quattro o cinquecento anni, non è come ha detto qualcuno, roba da dilettanti. Io lo trovo eroico. Cercare di capire, assorbire, lottare per far proprie parole non tue è un atto di eroismo. In questo senso c’è già un futuro.

La seconda cosa è che quanto penso per l’attore lo penso per il pubblico. Ancora oggi mi chiedo, nonostante questa velocità che abbiamo nella vita, perché lo spettatore scelga di andare a teatro. Non siamo noi artisti a fare la differenza, la fa chi viene a vederci. Io credo che lo faccia, nonostante ci sia il cinema, la televisione, internet, proprio per la presenza degli attori. Sceglie qualcosa che accade ora, in questo momento preciso, di assistere ad uno spettacolo, e lo fa per regalarsi del tempo, rispetto a chi decide sul suo agire. Andare a teatro mi regala del tempo per me.

Io non penso a qual’è il nostro compito. Io sento una responsabilità nei confronti di chi sceglie di venire a vedermi. In questo non c’è nulla di consolatorio. Non credo debba essere trattato con i guanti bianchi, anzi, il contrario: vuole essere messo in discussione. Io penso che se il pubblico non sente di essere provocato ma avverte che gli vengono poste delle domande, sta al gioco. Questo rapporto basato sul rispetto ha un aspetto propriamente politico.

Io non so se sia vero che il teatro sia il luogo in cui traspare la verità mediante l’artificio. Sono convinto sia l’unico luogo in cui si possano fare delle domande. La risposta poi te la dai tu, quando torni a casa e lo fai in modalità intima nel tuo privato».

Da oggi tutti gli articoli del blog li trovate anche su https://www.rumorscena.com/category/teatro/enricopastore

Giuseppe Stellato

BIENNALE TEATRO 2018: GIUSEPPE STELLATO

Una gradita sorpresa alla Biennale Teatro 2018 è la performance Oblò di Giuseppe Stellato. In scena protagonista indiscussa una Lavatrice insieme al performer Domenico Riso.

Tecnicamente quello che fa Domenico Riso è un’azione performativa, mentre la Lavatrice ci racconta storie come un consumato attore professionista. Storie tragiche per lo più, sulla vita, la morte, su noi che guardiamo avidi, sulla società che insieme costituiamo, sul valore che diamo alla vita non solo degli oggetti.

Il performer dopo aver posizionato i microfoni davanti all’oblò, fa partire un programma di lavaggio e si posiziona seduto davanti alla Lavatrice osservando il suo lavoro. Il performer è anche il primo spettatore di quanto avviene.

I suoni della macchina si spandono nello spazio commisti a quelli di bambini che giocano, voci distanti, rumori tellurici, persino aeroplani.

Il performer si alza e prendendo un pennello dipinge di rosso una striscia di plexiglas posta in proscenio. La linea rossa si amplia, i suoni si spandono, la lavatrice gira. Tutto tende a una fine, terribile, inesorabile e sorprendente.

La macchina, presente in ogni rassicurante quotidiano domestico, diventa improvvisamente viva, pericolosa, aggressiva. Specchio di noi stessi costretta a lavare non solo i nostri panni sporchi ma quegli stracci di coscienza che ancor rimangono, seppur rimangono.

In Oblò di Giuseppe Stellato quella Lavatrice si trasforma in video tridimensionale in caricamento su qualsiasi smartphone, tablet, portatile, sempre rivedibile, on demand per ogni prouderie, in cui si lavano non solo le coscienze ma anche qualcosa che tocca a voi scoprire.

Vi è una storia di morte che tutti abbiamo visto e non importa di chi sia perché, se non oggi, domani ce ne sarà un’altra a prendere il posto. Resta l’atto politico di quest’oggetto che ci guarda monocolo come un ciclope. In quell’occhio ci perdiamo, ci specchiamo, ci vergognamo.

Performance intelligente quella di Giuseppe Stellato, artista visivo e scenografo (Pinocchio di Latella e Ma di Linda Dalisi per citare due suoi lavori). L’oggetto domestico e quotidiano diventa protagonista portando all’eccesso il suo funzionamento. La lavatrice in scena lava e nient’altro, ma il suo funzionamento fuori contesto diventa significante.

Performance con pochi elementi semplici e ben ordinati. Nessuna possibilità di equivocare. Ma a volte la genialità è semplice e non necessita di troppi orpelli.

Giuseppe Stellato porta alla Biennale Teatro 2018 anche Mind the gap, dove nuovamente un oggetto meccanico diventa protagonista e ci interroga. Questa volta è un distributore automatico, quelli che si trovano nelle stazioni non troppo distanti dalla fatidica linea gialla, quella che ci distanzia da un viaggio, da un distacco, da una partenza.

Clément Layes

BIENNALE TEATRO 2018: CLEMENT LAYES

Alla Biennale Teatro 2018 va in scena Clément Layes con un ciclo di lavori dedicati agli oggetti, al nostro modo di rapportarsi con loro, sul predominio che prendono sulla nostra vita.

La Biennale Teatro 2018 guidata da Antonio Latella propone di Clément Layes un ciclo di quattro lavori: Allege (2010), Things that surround us (2012), Dreamed apparatus (2014) e Title (2015). Durante la mia permanenza a Venezia, ho potuto vedere solo i primi due e ne sono rimasto entusiasta per la capacità di riflettere sul mondo che ci circonda con l’azione e l’uso degli oggetti. Una riflessione che travalica la rappresentazione, la rompe, la sventra direi e ne estrae succhi preziosissimi in salsa tragicomica.

In Allege Clément Layes mette in scena un performer, Vincent Weber, con alcune bottiglie piene d’acqua, un secchio, un innaffiatoio, un tavolo, alcuni bicchierini di vetro, una piantina, un bollitore, una lavagnetta con gessetti, uno straccio. E poi c’è una canzone di David Byrne diffusa quando serve all’azione.

Il performer entra in scena in tuta da lavoro, testa china su cui in è in equilibrio un bicchierino di vetro. Dal momento che entra in scena il performer inizia a progettare dei sistemi per compiere delle strane procedure che sembrano mirare a un risultato che per il momento rimane oscuro.

Le procedure paiono non funzionare, o semplicemente assolvono allo scopo e poi vengono sostituite da altre procedure sempre più complesse. Ogni tanto il performer verifica il suo progetto. Luci a pioggia e concentrate sostituiscono il piazzato diffuso, David Byrne canta. A verifica ultimata, si passa a un’ulteriore prassi progettuale.

Niente viene detto. Nessuna parola. Solo un fare che sembra avere uno scopo occulto, anche se è più probabile che sia completamente arbitrario. O forse sono gli oggetti a comandare il processo? Niente è certo.

Infine il performer prende la parola. Assegna a ogni oggetto un significato o, meglio, abbina concetto a oggetto. L’acqua è l’energia, il tavolo è il teatro, la lavagnetta l’organizzazione, l’acqua sparsa l’oceano, le luci a pioggia l’attenzione e così via.

Il performer comincia ora a snocciolare possibili combinazioni e interazioni tra oggetti e concetti. Ne potrebbe nascere una filosofia. Tutto è totalmente arbitrario. Non è la logica a guidare il percorso di permutazione, solo la possibilità. Si gioca con ironia sulla rappresentazione, il significato, il simbolismo e il rapporto tra uomo e oggetto. Quest’ultimo è un vero e proprio attore. Parla perché svincolato a una funzione che lo determina. È liberato e può finalmente dire la sua in maniera indipendente.

In Things that surround us Clément Layes mette in scena tre performer (Vincent Weber, Felix Marchand, Ante Pavic) circondati da oggetti allo sfascio. Un tavolino che si rompe di continuo, una bottiglia bucata che perde polvere, una sedia malmessa che finirà per rompersi definitivamente. I performer nominano gli oggetti in quattro lingue diverse: a bottle, ein flasche, une bouteille, una bottiglia. I performer girano in tondo frenetici.

Quando tutto pare ridotto uno sfascio e portato via, inizia una nuova fase. Sotto le sedie del pubblico c’è una mascherina per chi dovesse essere allergico alla polvere.

Sabbie di vari colori vengono sparse da grandi spazzoloni a formare un immenso maelstrom, un gorgo che appare e scompare e porta tutto via con sé: monete, bottiglie di plastica, sassolini, grani etc. Tutto ruota, appare e scompare. Appaiono spazzoloni sempre più grandi man mano che gli oggetti si accumulano. Come al circo, come nelle comiche di Buster Keaton. Un lavoro, quasi da catena di montaggio dove ognuno ripete i gesti e le azioni in un cerchio senza fine né scopo, quasi un gioco serissimo e tragico che sa di clownerie,

Tutto scorre, passa, quasi un mandala tibetano di sabbia che giunto al compimento viene spazzato via, impermanente e fuggitivo. La danza di Siva che crea e distrugge i mondi, gli oggetti e i concetti. Cerchi colorati pieni di oggetti appaiono, sussistono per un poco di tempo e poi vengono scopati via per ripartire con un nuovo ciclo. La vita degli oggetti che dopo l’uso vengono abbandonati, distrutti, riciclati. Ma è anche il ciclo dell’eterno ritorno dell’eguale dove non solo le cose vengono risucchiate, ma le persone, le vite, interi universi.

Kantor, uno che la sapeva lunga sugli oggetti, quelli della realtà dal rango più basso, relitti e negletti, diceva che il teatro parla sempre della morte. È quest’ultima che grava su tutta la performance di Clément Layes, ma in maniera lieve, quasi sorridente. Vi è un tocco surrealista, di gioco, tragicomico. Un sorriso che termina con un brivido lungo la schiena.

È ozioso porsi il problema se questo forma sia teatro o performance. È qualcos’altro, una nuova creatura ibrida formatasi da più innesti: l’agire performativo con la clownerie, con il teatro di Kantor, ma anche quell’uso degli oggetti che contraddistingue il lavoro di François Tanguy e il Theatre du Radeau (ricordo che François raccomandava agli attori di far passare l’aria tra le cose perché parlassero e non rappresentassero).

Quello che è sicuro è che siamo fuori dalla rappresentazione e dal simbolismo anche se si usano degli stilemi e delle pratiche appartenenti a questi mondi. Siamo oltre, siamo anche al di là del voler dire qualcosa, esporre una tesi. Siamo di fronte a un’esperienza che ognuno vive e ne trae le conseguenze per sé. È una prassi del pensiero in azione che ci fa riflettere a nostra volta. Ne usciamo trasformati non perché acquisiamo una conoscenza, ma perché la modalità performativa di Clément Layes ci pone delle domande che in qualche modo buffo e gentile ci obbligano a ragionare, a prendere posizione, a guardarsi allo specchio.

Antonio Rezza

BIENNALE TEATRO 2018: INTERVISTA AD ANTONIO REZZA E FLAVIA MASTRELLA

La Biennale Teatro 2018 insignisce con il Leone d’Oro due grandi artisti del nostro tempo: Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Li ho incontrati in questi giorni e abbiamo discusso di alcuni temi del loro lavoro, del ruolo dell’artista e delle funzioni della scena. Un ringraziamento a Emanuela Caldirola per averla resa possibile.

Enrico Pastore: Lo storico israeliano Noah Harari nel suo Da animali a dei dice che ciò che ci ha contraddistinto come specie e ci ha posti in cima alla piramide evolutiva non è tento la capacità di creare strumenti o il pollice opponibile quanto la capacità di creare finzioni come il denaro, la patria, Dio che ci hanno permesso di collaborare in grande numero oltre al branco. La cultura soprattutto del Novecento si è assunta il ruolo di demistificare le finzioni, di sollevare il velo sugli artifici della civilizzazione. Il vostro lavoro forse è uno degli esempi più eclatanti di demistificazione e di lotta contro le finzioni del vivere civile.

Flavia Mastrella: Sì, ci possiamo ritrovare in questo, ma vorrei anche dire che noi più che figli del Novecento siamo figli del Duemila, della nuova era. Tutta un’altra mentalità. Abbiamo superato questo smascheramento. Viviamo nella più completa confusione. È tutto ribaltato. Non esiste più un concetto determinato da ribaltare, solo regole. Regole e numeri solamente.

Antonio Rezza: Io sono d’accordo con quello che hai detto, perché Roland Barthes diceva, in quel libro bellissimo che è Frammenti di un discorso amoroso, che il ruolo dell’intellettuale è demistificare. Non che io legga, io ho letto solo ‘sta frase. È un libro talmente bello, che me piace talmente tanto, che non posso andare avanti a leggerlo. Noi possiamo dire con certezza che oggi la nostra cultura è priva di intellettuali. Nessuno si occupa di questo. Noi lo facciamo ma involontariamente. Ci occupiamo di noi ma, con quello che facciamo, demistifichiamo. Smascheriamo quelle che sono le tendenze dell’arte di serie B, quelle meno virtuose, assistite e assistenziali. È chiaro che quello che facciamo noi ha un ruolo catartico e pulisce.

Non lo facciamo apposta. È che viviamo in un periodo dove non ci sono intellettuali che si sporcano le mani con la demistificazione, perché è molto impopolare.

Enrico Pastore: Houellebecq dice che non c’è niente di meno rivoluzionario dell’arte.

Antonio Rezza: Houellebecq l’ho trovato molto affascinante. Ho conosciuto Houellebecq. Mi sembra però che lui ci stia bene in questo ripetersi. Ecco il ruolo dell’artista è: non ripetere quello che ha già fatto. A costo di intraprendere strade più impervie.

Flavia Mastrella: Mantenere lo stile, ma non la dinamica.

Enrico Pastore: La Biennale propone quest’anno il tema: attore-performer. Voi avete scelto da tempo da che parte stare. Una volta dicevi: il più grande performer fino a prova contraria.

Antonio Rezza: Una volta lo dicevo. Non lo dico più. L’ho detto all’incontro dell’altro giorno qua a Venezia: l’attore serve lo stato d’animo, il sentimento. Si fa il maggiordomo da sé. Si arruffiana da solo. La performance non è figlia dello stato d’animo. Perché devo calarmi in qualcos’altro quando ho me stesso? Questo è ciò che non sopporto dell’attore.

Io non posso essere attore perché agisco in spazi che non mi appartengono che crea Flavia per se stessa. L’incipit è già diverso. Non recito un testo perché non mi scrivo niente da me quando poi è il corpo che dovrà farlo. Non ci diamo proprio la possibilità di vivere uno stato d’animo e nessuno può immedesimarsi in quello che facciamo. Niente di quello che facciamo è concessivo. Mai. Ecco perché il pubblico ci adora. Perché non si sente mai preso per il culo.

Flavia Mastrella: Noi abbiamo lavorato fin da subito su arte e corpo. E sulla contaminazione. Abbiamo lavorato sempre in spazi non teatrali. Nelle Gallerie d’arte, nei centri sociali, a Zelig. La forza comunicativa che ha acquisito Antonio nel corso degli anni è propria del performer, cioè di colui che racconta se stesso rubando l’attenzione.

Enrico Pastore: Carmelo Bene diceva che il teatro è una cosa da Croce Verde. Tutti che fanno finta di credere a ciò che non è.

Antonio Rezza: Non è servito a niente quello che ha detto Carmelo Bene. E non servirà a niente quello che diciamo noi. Non è servito a niente nemmeno quello che ha detto Artaud. L’importante è che ci siano persone che dicono queste cose. Il teatro non serve a niente.

Flavia Mastrella: Lo dice ma non ci crede che non serve a niente, se no non stavamo qua (ride).

Antonio Rezza: io penso che se non ci fossero più soldi ci sarebbero più performer. È più faticoso ma più divertente. Se nessuno per lavorare venisse pagato, la performance sarebbe alle stelle. Ognuno farebbe quello che il corpo suo comanda, invece di fare quello che comanda chi lo paga. Io non ho fatto apposta a nascere performer. Sono incapace a recitare. Letteralmente incapace. Non credo nella battuta che mi dà in altro. Ma nemmeno in quelle mie.

Ci sono compagnie giovani che corrono dietro a finanziamenti di venti o trentamila Euro e poi passano l’anno a rendicontarli. Le fatturine, gli scontrini. Passano l’anno a fare il bando e a rendicontarlo. E così non pensano all’opera. Questo Leone d’oro dato a noi è importante perché è un segnale. Si può lavorare senza i finanziamenti. É più importante per gli altri che per noi.

Enrico Pastore: Molti vi accostano al teatro della crudeltà. Vi sentite a vostro agio ad andare a braccetto con il fantasma di Artaud, oppure la cosa vi infastidisce?

Flavia Mastrella: Un fantasma te lo attaccano sempre. Meglio Artaud che un altro. Poi è molto somigliante fisicamente ad Antonio.

Antonio Rezza: Io non lo conosco Artaud. C’ho tutti i libri ma non li leggo. È troppo bello per leggerlo. Mi fido. E poi non avrebbe mai preso i finanziamenti Artaud. Uno deve ispirarsi ai massimi sistemi. Se lui non li ha presi di che stiamo a parlà?

Flavia Mastrella: è nato proprio nel momento sbagliato Artaud. Lo hanno distrutto.

Antonio Rezza: Sì, però se vai a cliccare su Google Artaud ci sono tre milioni di risposte. Ha vinto lui.

Flavia Mastrella: vedi che serve?

Antonio Rezza: E serve sì! Da morti però. E io spero che il nostro lavoro sopravviva alla nostra morte, perché si passa più tempo da morti che da vivi. Che ci fai con la vita quando ti aspetta l’eternità della morte?

Flavia Mastrella: Per questo ci stanchiamo molto perché tanto poi c’è il riposo eterno.

Antonio Rezza: Questo vogliamo dire allo Stato. Questo è un appello ufficiale. Noi non abbiamo chiesto finanziamenti in vita, ma lo Stato ci deve fare ricchi sfondati da morti. Tutti i soldi che non ci ha dato li deve cacciare centuplicati per assistere ciò che noi abbiamo lasciato. Vogliamo essere ricchi da morti.

Enrico Pastore: Massimiliano Civica mi ha detto in un’intervista che il tragico ha una fiducia illimitata nella vita perché in qualche modo ricompone sempre le crisi. Il vero pessimista è il comico, che con la risata irride ogni cosa persino la morte.

Antonio Rezza: Sono d’accordo. Innanzitutto è più facile commuovere che far ridere. Ridere in un certo modo, con un sussulto. Per far commuovere basta una musica ben piazzata, una situazione evocativa. Si sono commossi pure quelli che sono venuti a vedere la cerimonia nostra. Io non mi sono commosso. Ero contento. È facile far commuovere, se ti commuove anche un Leone d’Oro.

Enrico Pastore: Il vostro quindi è un teatro pessimista?

Flavia Mastrella: Sì, è drammatico. È un dramma proprio. È talmente drammatico che fa ridere. Attacca il quotidiano. I drammi quotidiani diventano mastodontici e così diventano buffi.

Enrico Pastore: Oggi si parla tanto di multimedialità come poi se non ci fosse mai stata nel teatro. Pensiamo all’opera che è multimediale dalle origini. Voi siete multimediali, una coppia inscindibile costituita da ambienti e corpo che li abita.

Antonio Rezza: Noi partiamo sempre da luogo, contrariamente a tutti che partono prima da un testo. Anche qui alla Biennale college con i ragazzi li facciamo partire prima dal luogo, senza testo, senza niente. Io poi mi lascio sorprendere dagli ambienti di Flavia, mi ci perdo. Non bisogna mai avere paura delle idee dell’altro, che le idee dell’altro modifichino le tue. Io preferisco stupirmi, preferisco perdermi piuttosto che seguire un’idea. Noi le prime idee le diamo ai poveri. Non ci fidiamo delle prime idee, non vanno per niente sopravvalutate. Sotto una bella idea ce ne sono mille dirompenti. Se capisci questo meccanismo non è che dici: Ah che bell’idea! Dici: Aspetta che vediamo che ci sta sotto! La pigrizia spesso impedisce a chi non ha idea di fidarsi della prima, che magari poi è l’unica.

Come diceva Demetrio Stratos, ma anche Cruijff, quando parlava del secondo fiato. Sotto il primo fiato ce n’è un secondo che noi non conosciamo, che rompe il primo e dà possibilità ancora più grandi di respirare. Però è un fiato che sta sotto lo sforzo, al confine con lo spasmo. E se lo diceva Stratos e lo diceva Cruijff vuol dì che è vero. Così sono le idee. Ce ne sono tante sotto la prima. Che fretta c’è di concretizzare la prima?

Simone Aughterlony

BIENNALE TEATRO 2018: SIMONE AUGHTERLONY

La Biennale Teatro 2018 presenta la seconda trilogia dedicata agli artisti ospiti. È la volta di Simone Aughterlony, artista di origine neozelandese, ma che vive e lavora tra Zurigo e Berlino.

La trilogia di lavori presentati è composta da Everything fits in the room del 2017, Biofiction e Uni*form del 2016.

Simone Aughterlony è un esempio perfetto del superamento dei tradizionali confini tra i generi artistici verso una nuova concezione delle Live Arts. Danzatrice di formazione si avvale della collaborazione di performer e musicisti nella creazione di opere che, conservando l’idea e la pratica di un movimento coreografico, di fatto travalicano la danza.

I lavori visti alla Biennale Teatro 2018 non possono dirsi nemmeno performance in senso stretto, benché a uno sguardo superficiale ne abbiano tutta l’apparenza, in quanto conservano sottili legami con la narrazione e la rappresentazione.

La permeabilità dei confini tra le arti non è una novità soprattutto nella recente storia delle arti performative. Già Cage a partire dagli anni ’50 aveva concepito lavori che prevedevano la commistione e l’accostamento di linguaggi diversi. Quello che appare come un nuovo modo di concepire la scena è proprio l’idea di una composizione integrata dei diversi alfabeti dell’espressione corporea dal vivo.

Dinamiche, toni, procedure e protocolli vengono composti come voce di diversi strumenti a disposizione dell’autore o degli autori (nel caso di Simone Aughterlony la creazione è sempre frutto di un lavoro collettivo soprattutto con la collaborazione di Jen Rosenblit, Jorge Leon e Hahn Rowe).

Simone Aughterlony compone la scena utilizzando gli strumenti che danza, performance e musica le mettono a disposizione, prefigurando la possibilità di un nuovo confine comprensivo dei generi e oltre il genere, una vera e propria lingua ibrida che concepisce l’evento performativo come prassi di un pensiero in azione.

Nella trilogia di lavori presentata alla Biennale Teatro 2018 emergono anche altri tratti distintivi e pregni di interesse,

Innanzitutto la ricerca di sempre differente rapporto con il pubblico e il suo sguardo. In tutte e tre le performance muta la prospettiva di ingaggio del punto di vista: in Everything fits in the room il pubblico è libero di navigare nello spazio e costruirsi una propria e personale esperienza di quanto accade; in Biofiction lo sguardo è frontale e si apre su una rosea landa desolata abitata e agita dai performer; in Uni*form la scena è contenuta da un ring e il pubblico la circonda da ogni lato.

Inoltre non appare evidente nessun confine invalicabile tra scena e azione performativa. Se questo è palese in Everything fits in the room, dove il pubblico è immerso nell’azione e si creano sporadici contatti (per esempio nell’offerta di paste e pasticcini), in tutte e tre i lavori si imbastisce un dialogo di sguardi tra performer e audience. Ci si guarda negli occhi, in maniera franca e in qualche modo si parla, nasce un dialogo e un’empatia.

La trilogia di lavori di Simone Aughterlony è un tentativo, per altro ben riuscito, di mettere in questione le dicotomie del pensiero quotidiano: accettabile, inaccettabile; violenza, dolcezza; sadismo e masochismo; libertà, costrizione.

L’azione scenica mediante l’utilizzo dissacrante dell’ironia, non priva di accenti tragici, suggerisce una via di fuga dalla gabbia dell’opposizione di campi avversi. Ogni opposto si mescola con il suo contrario e ne acquisisce il sapore e le sembianze, si ibrida in maniera irreversibile. In Uni*form per esempio, i poliziotti che sorvegliano la scena sono a loro volta sorvegliati dal pubblico, e la violenza delle pratiche di polizia si trasforma con ironica semplicità in atti sessuali non convenzionali.

Appare evidente nei lavori di Simone Aughterlony il suo rigore nella ricerca, la volontà di infrangere le barriere, il costante lavorio per il superamento dei contrasti oppositivi attraverso una continuativa metamorfosi delle immagini.

In Everything fits in the room il luogo scenico, attraversato da un muro, racchiude pubblico e performer. Il muro non divide, si possono vedere entrambi i lati, e ciò che accade da un lato accade nell’altro. Si può circumnavigare il muro, e ciò che avviene si permuta furiosamente attraverso una costante tensione verso l’altro da sé.

Il lavoro di Simone Aughterlony necessiterebbe di uno sguardo maggiormente approfondito di quello che si può dedicare in un semplice articolo. In questa sede mi limito a indicare alcune linee del suo pensiero performativo. Sono peraltro convinto che i semi di questa ricerca si vedranno negli anni a venire. La nuova figura di artista compositore dei linguaggi scenici è in via di definizione. Pratiche e funzioni della nuova scena prefigurano feconde possibilità ancora da scoprire e attualmente tale figura contiene in sé ancora numerose contraddizioni.

Durante questa Biennale Teatro 2018 si sono poste alcune domande interessanti: non solo se esiste ancora una differenza tra attore e performer ma anche sui vettori su cui si sta dirigendo la pratica performativa sia essa teatro, danza o performance.

Sono domande necessarie a cui nell’immediato futuro, critici, operatori, politici e artisti saremo costretti a fornire le prime risposte. Non resta che accettare la sfida e ringraziare artisti come Simone Aughterlony per averci interrogato con tanta cura e ironia.

Simone Derai

BIENNALE TEATRO 2018: ANAGOOR – INTERVISTA A SIMONE DERAI

Questa intervista con Simone Derai, regista di Anagoor, è avvenuta a Venezia il giorno 21 luglio dopo il debutto in prima mondiale de l’Orestea (Agamennone, Schiavi, Conversio) alla Biennale Teatro 2018. Si ringrazia Michele Mele e Emanuela Caldirola per averla resa possibile.

Enrico Pastore: Milo Rau conclude Empire con le parole di Agamennone che ringrazia gli dei per il ritorno a casa. Milo Rau recupera la forma tribunale nel suo teatro ristabilendo l’unione dell’areopago con il teatro, recuperando la funzione della scena come luogo per sanare o comprendere le crisi che attraversano la società. Nella vostra versione de l’Orestea sembra invece assente il tribunale.

Simone Derai: Io non credo che manchi, almeno non nelle nostre intenzioni, l’idea del tribunale e del processo. È come se si dispiegassero le prove di un’esistenza o delle esistenze. Per me l’Agamennone è immerso in una laguna di rammarico per quanto è già avvenuto. Lo trovo così greve, pesantissimo. Se devo pensare a un processo penso a una grande ostensione delle prove e di quanto è stato commesso. È una lunghissima analisi delle conseguenze. Forse questo non appare evidente perché censurando la rappresentazione finale del processo può non emergere, risulta quasi mancante ma noi l’abbiamo assunto come un doveroso percorso. Il fatto è che non abbiamo voluto fare il processo a Oreste in sé, quanto alla nostra incapacità di sanare la violenza e comprendere quanto ogni nostro più piccolo atto abbia delle conseguenze e provochi delle ritorsioni.

Enrico Pastore: è un po’ come in Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy dove tutto coloro che muoiono sono coloro che hanno compiuto una scelta, quella di impadronirsi dei soldi proibiti. Sono quindi colpevoli e ne pagano il fio perché la scelta provoca delle conseguenze e queste ultime provocano l’azione.

Simone Derai: Esattamente. Non c’è nessuno che sia esente da questa legge. Noi non lo siamo. È quasi una legge fisica. Pensa che nella traduzione in inglese quando ne Le Coefore il coro dice ad Elettra: è una legge antichissima ogni azione provoca una reazione, usano le parole esatte della terza legge della termodinamica di Newton.

Enrico Pastore: Vedendo i vostri lavori, e in particolare in questa Orestea, si può notare una strana convivenza di modalità sceniche che normalmente si escluderebbero: performativo e rappresentativo, mimetico e straniante. Come siete giunti a questa modalità inconsueta?

Simone Derai: C’è innanzitutto una volontà di abitare lo spazio. Non pensiamo a utilizzare il performativo o il rappresentativo. Quest’ultimo forse è più tenuto sott’occhio, non per sfiducia ma perché crediamo che debba essere reingaggiato. La rappresentazione non è data, non basta entrare in scena. Necessita di tempo, di un suo tempo. Bisogna evocare un altro tempo.

Enrico Pastore: in un certo senso le due modalità rispettano le prassi differenti tra coro che commenta e azione dei personaggi che dal coro emergono.

Simone Derai: È così perché la nostra è anche un’assunzione di responsabilità. E se vogliamo pensarla come un’evocazione estatica c’è bisogno di un tempo perché questo avvenga, perché io possa dire: non sono io, sono un’altra cosa.

Enrico Pastore: Mi è parso che vi sia l’intenzione di mettere l’accento sull’invadenza del mondo dei morti in quello dei vivi. I morti che reclamano dai vivi delle azioni di vendetta. Non solo. Anche l’accento sul baratro che si spalanca con la morte, Mi è sembrato in quest’ultimo aspetto che abbiate usato l’interpretazione parmenidea di Severino.

Simone Derai: In Coefore, nel nostro Schiavi, è come una discesa nella zona più oscura del nostro rapporto con la morte, a tal punto da diventare visione notturna e incubo. Il canto commatico sulle tombe dei re diventa un vero e proprio sabba. Oreste ed Elettra evocano le potenze dell’inferno perché sia fatta giustizia, una giustizia parziale. Non si parla della di una giustizia alta che governa il mondo, non è la giustizia che invoca Clitennestra di un diritto contro l’altro. In questo Severino è presentissimo. Chiamano le potenze infere per piegare la realtà al proprio volere di riscatto fallendo nel riconoscere una giustizia più alta. Nell’avvicinarsi alle zone più oscure, ctonie, più sepolcrali si invade un territorio che è abbandona la realtà, quasi un’invasione di campo paranormale, addirittura gotica. In tutta quella parte di Sebald sulle schiere dei trapassati che brandiscono i vessilli a me quasi ricorda Edgar Allan Poe. Anche nella visione ottocentesca del classico c’è sempre questo slittamento dalla luce alla rovina notturna, il mostruoso. È una cosa che noi dimentichiamo della grecità perché noi la vogliamo azzurra, solare, limpida e invece conservava tracce e zone di mistero.

Enrico Pastore: Mi interessa conoscere il processo con cui avete trasformato il testo in azione scenica. Come avete lavorato con gli attori?

Simone Derai: La grande novità di questo lavoro è stata l’ingresso di una figura che ci ha aiutato, e sto parlando di Giorgia Ohanesian Nardin. La scala del lavoro cambiava e inoltre volevamo che il canto commatico diventasse frenetico. L’agitazione aveva una necessità atletica, serviva dunque la collaborazione con qualcuno che ci aiutasse a mantenere vivo per tutto il periodo di allestimento, di prove e di ricerca la salute dei performer e la qualità. Una qualità che è cercata all’interno di questa corsa menadica, rotta, vana, perché è un anello che gira su se stesso. Una corsa disperata che può far apparire il guizzo primaverile di Dioniso.

È stato un lungo percorso che parte proprio da questa corsa. Un grande maelstrom che ha trattenuto anche gli attori che non vi partecipano. Con gli attori siamo andati a lavorare come se la tragedia fosse un radiodramma perché in contrappunto con questa grande energia fisica che per tutta la tragedia rimane intrappolata, c’è in Eschilo questo presentarsi paratattico a esporre la parola, a ostenderla. Ci si è allenati a tenerla più limpida possibile con questo semplice gusto di classicità cinematografica.

Enrico Pastore: Vorrei approfondire la contrapposizione nei video delle immagini del macello e quelle della tosatura della lana.

Simone Derai: Da una parte c’è la volontà di far trasparire un rapporto diverso con l’animale, non quello del cacciatore, ma di colui che si assume la responsabilità dell’animale. Mettere in luce quindi il rapporto molto intimo del pastore che custodisce il suo gregge. Rapporto che non è scevro di contraddizioni perché non è che la pastorizia sia un’attività scevra di violenza, ma che ha toni diversi rispetto al macello. La pastorizia è sempre una lotta perché le pecore non vogliono essere tosate, ma c’è anche un affidamento perché alla fine si lasciano tosare abbandonandosi nelle mani del pastore. È una contrapposizione di violenze diverse.

Ph: @Giulio Favotto

Vincent Thomasset

BIENNALE TEATRO 2018: VINCENT THOMASSET

 

Alla Biennale Teatro 2018 va in scena la prima trilogia di lavori dedicata a Vincent Thomasset, costituita da Lettres de non-motivation, Ensemble ensemble e Medail décor.

Vincent Thomasset è un autore, scrittore di monologhi che è divenuto performer e che in seguito si è trasformato in coreografo. I suoi diversi e successivi attraversamenti dei mezzi utilizzati e utilizzabili dalla scena hanno lasciato traccia in lui facendolo divenire altro da un regista. Una figura artistica che ancora non ha una definizione precisa e che per comodità potremmo definire compositore scenico.

Vincent Thomasset è un artista che sfugge alle definizioni e ai generi. Nessuno dei tre spettacoli visti alla Biennale Teatro 2018 può definirsi teatro o danza o performance ma riunisce delle tre arti le caratteristiche più importanti.

C’è una recitazione che sfugge all’interpretazione di un personaggio ma ne utilizza le sfumature, i toni, le dinamiche a volte umoristicamente, a volte come semplice materiale compositivo; c’è la danza concepita più come movimento coreografico; c’è il performativo come azione significante non narrativa.

Questo sfuggire al genere, esserne al di là pur attraversandoli, lo fa divenire, come si diceva più sopra, più un compositore che un regista o un coreografo. Vincent Thomasset è un artista che usa la scena come piattaforma di un pensiero che per esprimersi necessita di elementi vivi, in movimento, parlanti: prassi filosofica per mezzo scenico.

Vincent Thomasset gioca negli interstizi del linguaggio, lo mette in crisi laddove crede di essere significante. Faccio alcuni esempi. In Lettres de non-motivation le lettere inviate alle aziende per non candidarsi ai lavori proposti dell’artista Julien Prévieux, vengono fatte detonare proprio per mezzo di una recitazione che assume toni drammatici o ironici, tragici o comici, e in cui queste sfumature non sono un’interpretazione ma un mezzo per farne risaltare il potere eversivo, quasi degli esercizi alla Queneau.

In Ensemble ensemble i dialoghi non portano da nessuna parte, benché poetici riflettono costantemente il bisogno dell’altro per definirsi, per acquisire realtà e consistenza. L’altro è necessario al racconto di sé, che sia privato o pubblico. Persino i diari di un altra persona trovati in soffitta diventano i propri, si trasformano nel proprio racconto che vengono indirizzati all’altro.

In Medail Dècor, terzo elemento di una trilogia titolata Serenpidity, quanto viene enunciato è il tentativo di raggiungere un risultato da parte dell’autore-narratore che viene continuamente condotto altrove dall’azione del performer. Autore e performer diventano una coppia che si rispecchia, si duplica, si fronteggia, e linguaggio e azione giocano in contrappunto divergente e convergente.

Questi esempi mettono in mostra l’altra caratteristica di Vincent Thomasset: azione e parola sono due linee compositive indipendenti che dialogano, si contraddicono, si rifiutano e si abbracciano. Se si aggiunge a questo luci e suono, si ottiene una vera e propria Teoria del montaggio scenico. Ogni elemento è come uno strumento che suona in un’orchestra che a volte necessita di una dissonanza a volte dell’armonia o dell’unisono.

In un certo qual modo Vincent Thomasset conduce un raffinato gioco metateatrale, ma potremmo dire anche metaperformativo, nel senso di Jerome Bel. L’azione proposta allo sguardo riflette su se stessa e si mette in questione il linguaggio utilizzato. Il fare scenico si interroga nel suo prendere forma.

Quella di Vincent Thomasset è una forma scenica non rappresentativa. È pensiero in azione, linguaggio che riflette sulla sua efficacia. Non si interpreta, non si finge di essere un personaggio. I performers, siano essi danzatori o attori, usano le tecniche del corpo come materiale di un pensiero che solo la scena può esplicare.

Dobbiamo trovare nuove parole per definire questo tipo di arte scenica che si sta formando dall’ibridazione dei tre linguaggi performativi che la ricerca dagli anni ’50 dello scorso secolo ci ha donato. Live arts potrebbe essere un termine, un’arte dal vivo che necessita di un incontro, di un dialogo con lo spettatore che non è solamente osservatore ma coautore di quanto avviene di fronte a lui.

Queste nuove forme, di cui Vincent Thomasset è interprete finissimo, necessitano anche di nuovi contenitori e di nuove politiche. Se avessimo visto i suoi lavori alla Biennale Danza nessuno si sarebbe stupito. Un travalicare i generi che va ben oltre la semplice multimedialità, intesa spesso come accostamento di linguaggi.

Nel caso di Vincent Thomasset non c’è accostamento ma vera e propria composizione. Si utilizzano tutti gli strumenti che necessita il pensiero in azione. Se serve la danza la si usa, se serve la recitazione non si ha tema di utilizzarla. Siamo di fronte a una nuova creatura che l’evoluzione del pensiero scenico ci ha consegnato. Ora tocca capire come agevolare le sue future trasformazioni affinché questa nuova specie, a cui in Italia siamo fortemente refrattari, non insterilisca. Tocca a noi darle luce e darle spazio.

Ph. @Philippe Munda

Biennale Teatro 2018

BIENNALE TEATRO 2018: simposio sull’attore-performer. Nuove sfide per l’istituzione teatrale.

Domenica mattina presso la Sale delle Colonne di Ca’ Giustinian, Antonio Latella propone un simposio sul tema dell’attore-performer a cui la Biennale Teatro 2018 è dedicata.

Al convegno intervengono come relatori figure di altissimo profilo artistico e professionale: Chris Dercon (storico d’arte, curatore e direttore del Volksbühne di Berlino), Paweł Sztarbowski (co-direttore Teatr Powszechny di Varsavia), Bianca Van der Schoot (già direttrice artistica RO Theater di Rotterdam e performer), Armando Punzo (regista, fondatore della Compagnia della Fortezza).

Il binomio attore-performer racchiude in sé sfide e criticità che la scena contemporanea deve saper accogliere se vuole rispondere alle urgenze poste dalla nostra società.

Bisogna innanzitutto chiarire due punti fondamentali: con la parola teatro non si intende più solo ed esclusivamente il teatro di rappresentazione, la cosiddetta prosa, a partire almeno dagli anni ’50. I confini di ciò che può essere considerato teatro tendono ad aespandersi in maniera esponenziale tanto quasi da sparire.

Se prendiamo come arbitrario punto di partenza – e nella storia ogni data è arbitraria in quanto è come gettare un sasso in un impetuoso fiume che scorre -, l’estate del 1952 al Black Mountain College dove Cage fa nascere The Untitled Event, e passando per l’Happening, il Tanztheatre di Pina Bausch, il Teatro di Kantor e la performance (solo per citare alcuni momenti cardine) la figura dell’attore si è ibridata con l’innesto di tanti elementi provenienti da ambiti artistici differenti che la parola stessa necessita di nuove definizioni.

Conseguenza di tale ibridazione, o generatio aequivoca, è stata la graduale ridefinizione del ruolo e delle funzioni dell’attore, non più solamente interprete di un ruolo scritto in un copione e al servizio del regista, ma fautore di un’esperienza condivisibile con il pubblico, filosofo in azione, stimolatore del pensiero critico sulla realtà.

Secondo elemento da notare: se la figura dell’attore mimetico/interpretativo è stata “contaminata” dalle pratiche performative dell’arte visiva e della danza contemporanea, difficilmente la modalità di finzione replicante si è trasferita alla performance e al teatro-danza, in qualche modo impermeabili a questa modalità. Non a caso, come a sottolineato in apertura Chris Dercon, è l’attore a “soffrire” la convivenza con i performer.

Su questi due aspetti esposti in maniera sommaria si potrebbe scrivere un intero saggio senza raggiungere conclusioni esaustive. In questo piccolo articolo mi limito a far emergere dei punti di discussioni possibili.

Nel continuare questa incompleta disamina dobbiamo notare che la performance stessa si è allontanata dai protocolli invalsi fino agli anni ’90 almeno, ossia dove l’artista era protagonista e interprete di un pensiero in azione. Oggi in qualche modo il creatore di performance tende a delegare l’azione a performer esecutori di compiti (per esempio Ivo Dimchev o Timo Seegal per fare solo due noti protagonisti). Anche in questo John Cage è stato un precursore (pensiamo a Theatre Piece del 1960).

L’influenza della performance ha mutato anche le modalità della scena: non evento separato dal pubblico ma esperienza immersiva, compartecipata, persino creata in comunione; non più evento ripetibile con un punto di vista preciso, ma istante irriproducibile dove il partecipante crea il proprio montaggio personale (esempio lampante la performance di Simone Aughterlony Everything fits in the room in programma alla Biennale Teatro 2018).

Tutto questo inevitabilmente porta a mutare le funzioni della scena. Come ricorda Bianca Van Der Stroot bisogna chiedersi: perché il teatro? Questa è la vera domanda da porsi oggi più che: esiste una differenza tra attore e performer?

Milo Rau sta provando da anni a porre in questione le funzioni del teatro. Il suo concetto di Interpellation, ossia una scena che domanda direttamente allo spettatore di ripensare il reale, è in fondo una ricerca di riformulare i protocolli di ingaggio del pubblico e le funzionalità della scena stessa.

La questione attore-performer è di fatto un falso problema. Come ricorda Dercon citando John Cage: non ci sono soluzioni perché non c’è il problema. Quello che conta è ciò che sottolinea Bianca Van Der Stroot: bisogna servire l’opera, utilizzare le forme e i materiali che gli sono più congeniali per giungere a un’efficacia. Pensiero in linea con quello di Roberto Castello.

Non importano i generi, importa l’efficacia di un’azione e di un’esperienza che si condivide con un pubblico non più passivo ma attore esso stesso dell’evento. Quindi non più un regista, o un coreografo o un artista visivo quanto più un compositore di linguaggio scenico che utilizza svariati strumenti e tecniche orchestrandoli in una sinfonia scenica. Mejerchol’d prefigurò nei suoi pensieri sul teatro un attore con queste caratteristiche e forse noi, oggi, potremmo integrare le sue teorizzazioni spingendosi un po’ oltre.

Quello che è avvenuto negli anni ’60/’70 e che continua nel nostro contemporaneo a produrre effetti è una ridefinizione totale della scena al di là dei generi. Un punto di non ritorno che ci spinge e stimola ad andare avanti, a cercare nuove soluzioni e nuove possibilità di espressione.

Non solo. Servono anche nuove istituzioni, aperte alla sfida per rigenerare i luoghi deputati alle live arts, pronte a riformulare i metodi di finanziamento, a garantire i luoghi e i tempi della ricerca, a coadiuvare la nascita di nuove strategie di produzione e distribuzione. Come ricorda Chris Dercon questo non è possibile demandarlo solo ai teatri e ai festival deputati, occorre un intervento e un’azione politica e istituzionale.

Il convegno su attore e performer in questa Biennale Teatro 2018 apre quindi scenari stimolanti per il pensiero non solo degli artisti ma degli operatori, dei critici, dei politici. In una mattinata di lavoro ovviamente non si può trovare delle soluzioni ma sono state poste le domande che necessitano di risposte urgenti. Dobbiamo rimboccarci le maniche, lavorare assiduamente per costruire fondamenta solide alla nuova scena che sta prendendo forma sotto i nostri occhi. Non si può tornare indietro dobbiamo spingerci avanti e prefigurare un nuovo teatro al di là dei generi tradizionali.