Biennale Teatro 2018

BIENNALE TEATRO 2018: simposio sull’attore-performer. Nuove sfide per l’istituzione teatrale.

Domenica mattina presso la Sale delle Colonne di Ca’ Giustinian, Antonio Latella propone un simposio sul tema dell’attore-performer a cui la Biennale Teatro 2018 è dedicata.

Al convegno intervengono come relatori figure di altissimo profilo artistico e professionale: Chris Dercon (storico d’arte, curatore e direttore del Volksbühne di Berlino), Paweł Sztarbowski (co-direttore Teatr Powszechny di Varsavia), Bianca Van der Schoot (già direttrice artistica RO Theater di Rotterdam e performer), Armando Punzo (regista, fondatore della Compagnia della Fortezza).

Il binomio attore-performer racchiude in sé sfide e criticità che la scena contemporanea deve saper accogliere se vuole rispondere alle urgenze poste dalla nostra società.

Bisogna innanzitutto chiarire due punti fondamentali: con la parola teatro non si intende più solo ed esclusivamente il teatro di rappresentazione, la cosiddetta prosa, a partire almeno dagli anni ’50. I confini di ciò che può essere considerato teatro tendono ad aespandersi in maniera esponenziale tanto quasi da sparire.

Se prendiamo come arbitrario punto di partenza – e nella storia ogni data è arbitraria in quanto è come gettare un sasso in un impetuoso fiume che scorre -, l’estate del 1952 al Black Mountain College dove Cage fa nascere The Untitled Event, e passando per l’Happening, il Tanztheatre di Pina Bausch, il Teatro di Kantor e la performance (solo per citare alcuni momenti cardine) la figura dell’attore si è ibridata con l’innesto di tanti elementi provenienti da ambiti artistici differenti che la parola stessa necessita di nuove definizioni.

Conseguenza di tale ibridazione, o generatio aequivoca, è stata la graduale ridefinizione del ruolo e delle funzioni dell’attore, non più solamente interprete di un ruolo scritto in un copione e al servizio del regista, ma fautore di un’esperienza condivisibile con il pubblico, filosofo in azione, stimolatore del pensiero critico sulla realtà.

Secondo elemento da notare: se la figura dell’attore mimetico/interpretativo è stata “contaminata” dalle pratiche performative dell’arte visiva e della danza contemporanea, difficilmente la modalità di finzione replicante si è trasferita alla performance e al teatro-danza, in qualche modo impermeabili a questa modalità. Non a caso, come a sottolineato in apertura Chris Dercon, è l’attore a “soffrire” la convivenza con i performer.

Su questi due aspetti esposti in maniera sommaria si potrebbe scrivere un intero saggio senza raggiungere conclusioni esaustive. In questo piccolo articolo mi limito a far emergere dei punti di discussioni possibili.

Nel continuare questa incompleta disamina dobbiamo notare che la performance stessa si è allontanata dai protocolli invalsi fino agli anni ’90 almeno, ossia dove l’artista era protagonista e interprete di un pensiero in azione. Oggi in qualche modo il creatore di performance tende a delegare l’azione a performer esecutori di compiti (per esempio Ivo Dimchev o Timo Seegal per fare solo due noti protagonisti). Anche in questo John Cage è stato un precursore (pensiamo a Theatre Piece del 1960).

L’influenza della performance ha mutato anche le modalità della scena: non evento separato dal pubblico ma esperienza immersiva, compartecipata, persino creata in comunione; non più evento ripetibile con un punto di vista preciso, ma istante irriproducibile dove il partecipante crea il proprio montaggio personale (esempio lampante la performance di Simone Aughterlony Everything fits in the room in programma alla Biennale Teatro 2018).

Tutto questo inevitabilmente porta a mutare le funzioni della scena. Come ricorda Bianca Van Der Stroot bisogna chiedersi: perché il teatro? Questa è la vera domanda da porsi oggi più che: esiste una differenza tra attore e performer?

Milo Rau sta provando da anni a porre in questione le funzioni del teatro. Il suo concetto di Interpellation, ossia una scena che domanda direttamente allo spettatore di ripensare il reale, è in fondo una ricerca di riformulare i protocolli di ingaggio del pubblico e le funzionalità della scena stessa.

La questione attore-performer è di fatto un falso problema. Come ricorda Dercon citando John Cage: non ci sono soluzioni perché non c’è il problema. Quello che conta è ciò che sottolinea Bianca Van Der Stroot: bisogna servire l’opera, utilizzare le forme e i materiali che gli sono più congeniali per giungere a un’efficacia. Pensiero in linea con quello di Roberto Castello.

Non importano i generi, importa l’efficacia di un’azione e di un’esperienza che si condivide con un pubblico non più passivo ma attore esso stesso dell’evento. Quindi non più un regista, o un coreografo o un artista visivo quanto più un compositore di linguaggio scenico che utilizza svariati strumenti e tecniche orchestrandoli in una sinfonia scenica. Mejerchol’d prefigurò nei suoi pensieri sul teatro un attore con queste caratteristiche e forse noi, oggi, potremmo integrare le sue teorizzazioni spingendosi un po’ oltre.

Quello che è avvenuto negli anni ’60/’70 e che continua nel nostro contemporaneo a produrre effetti è una ridefinizione totale della scena al di là dei generi. Un punto di non ritorno che ci spinge e stimola ad andare avanti, a cercare nuove soluzioni e nuove possibilità di espressione.

Non solo. Servono anche nuove istituzioni, aperte alla sfida per rigenerare i luoghi deputati alle live arts, pronte a riformulare i metodi di finanziamento, a garantire i luoghi e i tempi della ricerca, a coadiuvare la nascita di nuove strategie di produzione e distribuzione. Come ricorda Chris Dercon questo non è possibile demandarlo solo ai teatri e ai festival deputati, occorre un intervento e un’azione politica e istituzionale.

Il convegno su attore e performer in questa Biennale Teatro 2018 apre quindi scenari stimolanti per il pensiero non solo degli artisti ma degli operatori, dei critici, dei politici. In una mattinata di lavoro ovviamente non si può trovare delle soluzioni ma sono state poste le domande che necessitano di risposte urgenti. Dobbiamo rimboccarci le maniche, lavorare assiduamente per costruire fondamenta solide alla nuova scena che sta prendendo forma sotto i nostri occhi. Non si può tornare indietro dobbiamo spingerci avanti e prefigurare un nuovo teatro al di là dei generi tradizionali.

Leonardo Lidi

BIENNALE TEATRO 2018: LEONARDO LIDI Spettri

Debutta alla Biennale Teatro 2018 Spettri di Leonardo Lidi, vincitore della Biennale College Registi Under 30. Per descrivere il suo lavoro di riscrittura di Ibsen, il giovane Leonardo Lidi parla del gioco del Lego: “ho smontato il castello del Lego e l’ho ricomposto a mio piacimento”.

Gli Area cantavano: “giocare col mondo facendolo a pezzi”. Due modi per descrivere lo smontaggio e rimontaggio di un testo capitale del teatro borghese di fine Ottocento.

Gli attori in scena interpretano tutti i personaggi. Meglio sarebbe dire: prestano la loro voce, li fanno emergere per mezzo del loro corpo, in una sorta di labirinto di coscienze avviluppate e catturate dal gorgo della vicenda.

Le menzogne del passato tornano come spettri, influenzano il presente, incombono sul futuro. Vi è come un aria appestata, che sa di malattia, contagiosa. Gli eventi si sporcano nelle pozze di fango del ciò che fu un giorno. Una nuvolaglia nera e greve d’acqua pesante come il piombo schiaccia il cielo di cenere sulla testa dei personaggi, ma nemmeno una pioggia martellante riesce a lavare i peccati e le menzogne di un tempo.

È la famiglia il vaso di Pandora che viene scoperchiato. Il velo che nasconde le miserie viene sollevato, il bubbone suppura ma non guarisce. La cancrena si è ormai troppo diffusa.

L’azione si svolge su un quadrato di ferro, una semplice panchina nel mezzo, una buca verso il proscenio a sinistra. Sul fondo incombe una parete di ferro. Il quadrato è circondato da riflettori che illuminano a giorno la scena plumbea, fredda e metallica.

In Spettri Leonardo Lidi ha a disposizione quattro attori di grande livello tecnico espressivo: Michele Di Mauro, il premio Ubu Christian La Rosa, Mariano Pirrello e Matilde Vigna recentemente ammirata al Festival delle Colline Torinesi con Causa di Beatificazione di Sgorbani.

Leonardo Lidi dà buona prova di sé in questi Spettri ricomposti e rimontati. Un confronto con i classici, non solo letterari. Nel programma di sala, Leonardo Lidi chiama questa sua prova un punto di partenza e mi sembra appropriato. Come i pittori del passato per trovare le loro cifra espressiva, il loro stile pittorico, copiavano i capolavori del passato, così Leonardo Lidi si confronta, in maniera libera, frutto di un gioco di scomposizione ricomposizione, con la grande tradizione drammaturgia di fine Ottocento.

Gli auguro che veramente sia un punto di partenza per andare altrove, per esplorare nuove strade per il teatro, alle ricerca di nuove funzioni. Per quanto il teatro borghese sia stato una tappa fondamentale nell’evoluzione scenica, oggi il l’arte teatrale ha bisogno di altro, di qualcosa di più confacente ai suoi tempi e alle sue crisi. In un mondo dove la borghesia è a rischio estinzione, i segreti sono pubblicamente esposti sui social, e la famiglia non è più tradizionale, altre sono le problematiche che si agitano nelle fratture del corpo sociale.

Da questo punto di partenza bisogna andare avanti, verso il mondo, nel cuore di tenebra che palpita sotto il velo apparentemente sereno del civilizzazione, e per farlo, bisogna andare alla ricerca di strumenti affilatissimi che incidano, sezionino, intaglino, estirpino.

Simone Derai

BIENNALE TEATRO 2018: ANAGOOR Orestea

La Biennale Teatro 2018 si apre con la prima assoluta de l’Orestea secondo Anagoor, Leoni D’Argento. Un viaggio oscuro nei pantani di una faida di sangue che si perpetua di generazione in generazione.

Il sapore metallico del sangue si spande sin dai primi versi di Eschilo. Nubi nere si accalcano furiose nell’attesa delle notizie da Troia. Si attende il ritorno di Agamennone nel decimo anno dal sacrificio di Ifigenia. Nella casa dell’Atride le intenzioni di vendetta di Clitennestra covano e strisciano come velenosa serpe tra l’erba alta.

E l’omicidio, o mattanza, dell’eroe avviene su purpurei tappetti a nascondere il sangue. L’assassinio a colpi di scure avviene lontano dai nostri occhi. Ora tocca a Oreste. Tra mille titubanze, Amleto ante litteram, e con l’incombenza dell’ordine di Apollo, Oreste uccide la madre per vendicare il padre. Le Erinni vogliono a loro volta giustizia. Sembra che la catena di sangue generata dal conflitto fratricida tra Atreo e Tieste non debba avere mai fine.

Nasce qui, all’alba della scena, il tribunale. Dei e uomini uniti nel teatro, ora areopago, devono guarire la ferita che squassa la comunità. Si deve placare le Erinni, mutarle in Eumenidi. Oreste è colpevole? Il verdetto in parità non risolve. Solo la parola decisiva di Atena allontana le Furie. La giustizia è arbitraria, un sforzo comune di dei e uomini, briglia alla violenza che agita l’animo umano e divino.

Il teatro come tribunale che affronta e prova a comporre le crisi in seno alla comunità/pubblico è archetipo che giunge fino al nostro contemporaneo. Pensiamo a Milo Rau, non solo in The Moscow Trials o in The Congo Tribunal, ma soprattutto in Empire dove proprio le parole di Agamennone, che ringrazia gli dei per il ritorno, concludono l’opera. L’alba del teatro riverbera i suoi raggi sulla scena di oggi.

Anagoor propone dunque un viaggio in forma scenica attraverso l’Orestea. Quattro ore durante le quali si solcano i mari in tempesta evocati da Eschilo oltre Eschilo.

Orestea in tre parti: Agamennone, Schiavi, Conversio. Tre stazioni di un calvario che si sovrappone alla trilogia originale lasciandone trasparire il calco: Agamennone, Coefore, Eumenidi.

Agamennone, l’origine che non è l’origine di una tragedia si presenta integrale nel testo laddove la scena, ieratica nell’incedere, sovrappone modalità di rappresentazioni distanti e incompatibili seppur conviventi: rappresentativo e performativo, mimetico e straniante.

Le vesti, le maschere funerarie, le anfore colme di cenere, la lana tosata a richiamare un mondo attico non solo solare, ma come nel sogno di Hans Castorp nella neve de La Montagna Incantata, oscuro e torbido, ctonio e feroce.

Sono i morti a dominare l’azione dei vivi. Ifigenia morta sull’altare per placare Artemis spinge Clitennestra a cercare vendetta, il banchetto osceno offerto da Atreo a Tieste costringe Egidio a bramare il sangue. E poi Agamennone a sua volta conduce Oreste ed Elettra. Chi fermerà quel maelstrom che conduce ogni nave a naufragar in questo mare di sangue?

Schiavi dei morti. Nel lutto e nella vendetta sono i morti a dominare la vita, i morti in fitta schiera brandiscono stendardi di eserciti in battaglia, non mai pacati nel reclamare la vita a loro strappata con violenza.

Schiavi sostituisce, o forse integra, le Coefore eschilee. Nel cimitero davanti alla tomba dei re non si incontrano solo Oreste ed Elettra con i loro dubbi, ma si riverberano anche le faide del popolo corso, sangue chiama sangue, il coltello anticipa l’azione non solo di Macbeth, ma il gesto violento di ogni uomo che abbia bramato vendetta in questo vasto mondo che respira.

Conversio, terza parte, si affranca da Eschilo, il tribunale che trasforma le Erinni in Eumenidi si dissolve, ed è la morte dalla fame vorace a inghiottire le vite travagliate degli uomini, eroi e non. La morte che accoglie e sana ogni dolore, l’essere che sparisce nel non essere, Parmenide nell’occhio sagace di Severino.

Non solo. Immagini di pecore tosate, sostituiscono le vacche al macello. La violenza del mattatoio viene sostituita da una versione più mite. La mano del pastore toglie dal corpo dell’animale la lana, se ne appropria. Non toglie la vita, prende rapace. La giustizia della faida viene emendata dalla Dike di quella umana, violenta anch’essa ma sancita dalla legge.

Anagoor, diretti da Simone Derai, portano sul palco delle Tese dell’Arsenale un attraversamento dell’Orestea in cui gli stilemi stilistici della compagnia si presentano in tutta la loro particolarità: tradizione e innovazione, ritmi ipnotici e ieratici, immagini video in contrappunto con l’azione e la linea vocale e sonora, convivenza di rappresentativo e performativo (ricordiamo che il tema di questa Biennale è proprio attore-performer).

Un’Orestea, quella di Anagoor, quasi radiodramma, mentre l’azione si svolge secondo una linea sua propria. Voce portata da microfoni e altoparlanti, suoni elettronici tellurici e I Canti dei Bambini Morti di Mahler. Un dispositivo sonoro imponente, magmatico quasi signore della scena.

Un’Orestea che presenta anche qualche fragilità, soprattutto di organicità nella convivenza delle tre parti. Agamennone che copre quasi più della metà dell’opera, quasi debordante, e più fedele all’originale Eschileo; Schiavi e Conversio più snelle e personali, alla ricerca di una risposta odierna a un trauma antico seppur tutt’ora presente. Quasi un dittico, e non solo per la presenza di un intervallo a separare le due parti. Due modalità, aderenza e allontanamento, fedeltà e riscrittura.

Fragile anche la danza commatica che evoca il gorgo spirale. Seppur centrale e significante ancora acerba, quasi training in scena, alla ricerca di una forma sua propria seppur chiara nella sua intenzione. Ci sarà tempo per evolvere, lontani dall’incombenza del debutto in Biennale.

Anagoor e la sua personalissima ricerca nei classici portati alla luce del contemporaneo viene insignita dai un Leone d’argento che sancisce la profondità e serietà di un lavoro ormai decennale. Anagoor è una compagnia solida con chiare linee di ricerca e un’idea precisa sulle funzioni del teatro nel contemporaneo: esplorare l’oggi, non in quanto cronaca ma in quanto universale che torna attraverso variazioni e permutazioni dell’uguale, mediante lo scavo furioso nei classici.

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Daniel Hellmann

INTERVISTA A DANIEL HELLMANN: il corpo desiderante tra mercato e politica

Ho conosciuto Daniel Hellmann in Svizzera qualche anno fa al Performa Festival. Ho partecipato al suo Full Service, performance in cui lo spettatore contratta con il performer il soddisfacimento di un desiderio a pagamento. Abbiamo parlato a lungo in quei giorni e ho riscontrato immediatamente la grande profondità di pensiero di un artista decisamente fuori dalle righe. Da allora seguo attentamente l’evoluzione del suo lavoro che pone sempre domande scottanti e urgenti al pubblico che vi partecipa. In questa intervista abbiamo parlato di alcune sue opere e dei temi che le attraversano per presentarlo al pubblico italiano che per la prima volta vede un suo lavoro all’interno della programmazione di Kilowatt Festival.

Enrico Pastore: Traumboy parla della tua esperienza come di un gigolò. Perché ti sei sentito in dovere di trasformare la tua esperienza in una performance? Perché pensi che sia essenziale riflettere insieme al pubblico sul tema del desiderio e della sua soddisfazione?

Daniel Hellmann: Traumboy va molto al di là della mia esperienza. È un lavoro che mette in discussione le nostre nozioni di desiderio, di istituzione, di autenticità, di performance. Ho collaborato con diversi lavoratori del sesso per questo progetto, le cui prospettive ed esperienze mi hanno aiutato a costruire la forma e il contenuto di questo spettacolo. Il lavoro sessuale, specialmente quello maschile, mette in discussione molte delle norme che portiamo avanti, sulla sessualità, sul denaro, sui rapporti di potere. Invito il pubblico a tuffarsi in questo universo e a interrogarsi sui pregiudizi che abbiamo ereditato.

Enrico Pastore: Sia Traumboy che Full Service, la performance che precede e anticipa questo tuo lavoro, affrontano il tema del desiderio e del mercato. Questa disamina sull’economia del desiderio non avviene in maniera astratta ma attraverso l’esperienza viva nel e sul corpo del performer ma in due modalità differenti: in Full Service pubblico e performer si affrontano direttamente, vis a vis, dovendo pagare per soddisfare un proprio desiderio; in Traumboy in modalità più tradizionalmente teatrale, mediante un racconto. Perché hai deciso di proporre al pubblico due esperienze performative così diverse e in un certo modo antitetiche sullo stesso argomento?

Daniel Hellmann: Entrambe le opere sono complementari. E per entrambe le performance, mi dedico pienamente per creare una certa esperienza al pubblico / ai partecipanti. Full Service è nato come esperimento, come formato aperto, quasi come una pratica di ricerca, e poi ha guadagnato una vita propria. Full Service è molto più vicino al lavoro effettivo di una sex worker, mentre Traumboy usa il contesto e la cornice del teatro per raccontare una storia. La drammaturgia di Traumboy segue l’incontro tra una prostituta/o e il suo cliente. La goffaggine iniziale, la conoscenza, sedurre e creare desiderio, una sorta di climax e poi è finita. E entrambi, il teatro e il servizio sessuale a pagamento, esistono in questa ambiguità dove tutto è totalmente falso e autentico allo stesso tempo. Il membro del pubblico che paga per un biglietto è infatti molto simile al cliente che paga per il sesso. C’è un insieme di aspettative e di regole che aiutano entrambi a dimenticare l’artificiosità della situazione.

Enrico Pastore: La sessualità possiede una dimensione teatrale? In che modo può divenire materiale per la scena contemporanea?

Daniel Hellmann: Una prestazione di una prostituta/o è immediata, fisica, emotiva. E’ una danza tra realtà e finzione, tra desiderio e fredda professionalità. Uno spettacolo per un singolo spettatore. Sono affascinato da questa qualità di lavoro sessuale e penso che sia molto interessante per la scena e come pratica artistica.

Enrico Pastore: Il cibo legato al desiderio e alla sessualità, ma anche congiunto alla violenza, alla morte e ancora al mercato sono i temi di altre due tue performance: Requiem for a piece of meat and Soya the cow. In che modo si differenzia il tuo pensiero nelle due performance?

Daniel Hellmann: Per me, il concetto di consenso è fondamentale. Nessuno ha il diritto di disporre del corpo o della sessualità di qualcun altro senza il loro consenso. Soprattutto quando si tratta dei gruppi di persone più emarginati: lavoratori del sesso, migranti, persone di colore, LGBT* e anche animali. Durante la mia ricerca su Requiem for a piece of meat, sono rimasto scioccato per apprendere quanto sia crudele, violento e contraddittorio il nostro sistema alimentare. La quantità di violenza e di abusi che gli animali devono subire solo per il nostro piacere culinario è spaventosa. Il movimento di liberazione degli animali è, a mio parere, il più grande movimento per i diritti civili del XXI secolo. E voglio sottolineare, attraverso il mio lavoro, le intersezioni di questi diversi sistemi oppressivi. Spero davvero che il mondo dell’arte contemporanea inizi ad essere alleato in questa battaglia, come è stato storicamente nel movimento di emancipazione femminista o antirazzista.

Enrico Pastore: Tu poni nei tuoi lavori delle questioni scottanti al pubblico senza un tuo giudizio ma attraverso la tua esperienza. Il tuo vissuto pone domande, scatena riflessioni e provoca inevitabili giudizi. Possiamo dire che in qualche modo il tuo è un corpo politico e le tue performance hanno un chiaro intento politico?

Daniel Hellmann: Sì, spero di sì. Sono un cantante lirico esperto, e nel campo della musica classica, ho sentito che non riuscivo a raccontare le mie storie, a parlare di questioni che mi stavano a cuore. Ora, in campo contemporaneo, ho il privilegio e la responsabilità di far emergere argomenti che hanno carattere di urgenza. Vedo la mia arte come una forma molto privilegiata di attivismo e sono felice di mettere il mio corpo là fuori per confrontarsi su queste domande.

Enrico Pastore: Qual è, a tuo modo di vedere, la funzione dell’arte performativa nel nostro contemporaneo?

Daniel Hellmann: Per me le istituzioni artistiche sono in crisi. Vogliamo avere un impatto sulle nostre società e sulla sfera politica, ma tale impatto rimane molto limitato. Allora, che cosa possiamo fare? Vedo le arti performative un po’ come un laboratorio, dove possiamo discutere e inventare nuove forme, nuovi modi di pensare, nuovi modi di relazionarci gli uni con gli altri. E speriamo di poter ispirare gli altri e il nostro pubblico, in modo che ci sia più libertà, più gioia e più giustizia nel mondo. Sono un idealista, lo so, ma non ho altra scelta.

Roberto Latini

SEI. E PERCHÉ DUNQUE, SI FA MERAVIGLIA DI NOI? Di Roberto Latini

Roberto Latini torna a Inequilibrio con: Sei. E perchè dunque, si fa meraviglia di noi? Una nuova tappa dell’indagine sul teatro attraverso i suoi classici e un ritorno a Pirandello dopo I Giganti della montagna. Lavoro molto complesso questa riscrittura scenica de I sei personaggi in cerca d’autore, interpretati da un solo performer, il giovane e talentuoso Piergiuseppe Di Tanno: un intricato intreccio vocale, sonoro e fisico nel corpo uno e molteplice dell’unico attore.

Su un’alta pedanina, quasi trespolo, sotto una luce a pioggia, il personaggio indossa la maschera fedele alla didascalia pirandelliana: costruita d’una materia che per il sudore non s’afflosci […]; lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e la bocca.

A ridosso, dietro il personaggio che è legione, corpo trafitto da molte voci, un telo bianco. Tra una sezione e l’altra di questa prima lunga scena, un vento che viene dal palcoscenico, a smuovere il telo, ad accarezzare il volto del pubblico, una carezza sinistra, come alito di morte. E quella luce bianca, abbacinante, richiesta dal testo pirandelliano.

Attraversamento è il termine per questo ultimo lavoro di Roberto Latini, un passare attraverso e nello stesso tempo un farsi trafiggere da parte a parte, dell’unico interprete e del pubblico che viene colpito dalle parole pirandelliane come da frecce, o da coltelli lanciati dal personaggio in maschera.

Con le dovute distanze e differenze, I Sei Personaggi di Roberto Latini mi rammentano il Manfred di Carmelo Bene. Multiple voci di unico interprete, una sorta di concerto, non rappresentazione ma teatro come atto di riflessione filosofica, la parola protagonista come suono, le parole nella loro opacità, velate da plurimi significati, oggetto sonoro più che intellettivo.

Vi sono terribili violenze nelle parole […] ma poi la lingua ha avuto paura” così diceva Artaud. In questi Sei personaggi di Roberto Latini il dramma violento è proprio nelle parole che non sono solo proferite, si stagliano sul telo proiettate mentre la musica le accompagna come martello di fabbro sull’incudine della scena.

Sei. E perchè dunque, si fa meraviglia di noi? Siamo quasi esclusivamente nella terza parte della versione, credo, del 1925, quella più inquietante dell’annegamento della Bambina, del suicidio del Giovinetto, quella parte” che dà un brivido nell’accostarsi” a quelle entità che hanno realtà e verità pur vivendo sul crinale tra vita e teatro.

Cos’è vero? Cos’è reale? come cerca di far capire il Padre al Capocomico la scena è più reale di ciò che si crede realtà, che invece è un fluire informe in perenne permutazione senza consistenza: solo le figure dell’arte posseggono una certa qual stabilità data dalla forma sempre possibilmente ripetibile. Persona è la maschera.

Nel finale la pedanina diventa la vasca dove annega la Bambina, e da questa si trasforma in fossa scavata dai due becchini (un due che è sempre unico), quelli della tomba di Ofelia, anch’essa annegata.

Il prestito amletico è in inglese. Il testo diventa sempre più suono, cima sempre più difficile da scalare. Il linguaggio ha come desiderio di farsi sempre più arcano, più luogo d’evocazione che di significazione

Nella vasca/fossa entra il performer seppellito da una valanga di schiuma, come di bagno sbarazzino, come il suicidio del Giovinetto, atto indiscernibile e confitto sul confine tra verità e finzione.

Sei. E perchè dunque, si fa meraviglia di noi? di Roberto Latini porta alla ribalta un giovane attore straordinario, versatile, di impressionante presenza e potenza espressiva: Piergiuseppe Di Tanno. La sua esecuzione, non interpretazione più incarnazione o evocazione, rende concrete le forze terribili e inquietanti che pur vengono evocate dal testo pirandelliano (non dimentichiamo che il Capocomico alla fine quasi fugge impaurito dal teatro dove restano solo le ombre dei Personaggi).

Una modalità di essere in scena non facile, che necessita di grande tecnica, e di padronanza di sé, la capacità di svanire, come sciamano, sotto il diluvio di voci e presenze che ti attraversano.

Sei. E perchè dunque, si fa meraviglia di noi? di Roberto Latini è dunque un lavoro intenso e difficile. Un teatro che riflette su stesso con i mezzi suoi propri, un meta-specchio che rimanda infinite immagini di sé tanto da non distinguer più quale sia il riflesso e quale il soggetto. Un labirinto intricato in cui è difficile orientarsi senza fili di Arianna. Forse questo è l’unico difetto in un congegno mirabile: l’esser oggetto d’occhi padroni del linguaggio della scena. Ma il teatro deve proprio esser per tutti? Nell’era dell’audience engagement generalizzato questa domanda merita più di una riflessione.

Compagnia Frosini Timpano

SPECIALE INEQUILIBRIO: Gli sposi di Compagnia Frosini Timpano

Gli sposi della Compagnia Frosini Timpano è uno dei lavori che attendevo di vedere con grande curiosità a Inequilibrio XXI.

Vi sono molte ragioni sottese a questo interesse: primaria la stima verso due artisti, Elvira Frosini e Daniele Timpano, la cui cifra è demolire con sfrontata ironia le idee preconcette utilizzando i fatti storici; in seconda battuta la loro abilità di trasformare i materiali in azioni teatrali costruendo non solo una drammaturgia ma una vera composizione scenica fatta di gesti, spazio, oggetti, luci e musiche; terzo elemento l’uso di eventi storici del passato più o meno a noi contemporanei è finalizzato a un intento, prima che estetico, politico.

Per la Compagnia Frosini Timpano il teatro è innanzitutto gesto politico, e come per molti artisti nel corso dell’ultimo secolo spesso l’azione di denuncia politica sul presente si nasconde nell’evento storico passato.

La Compagnia Frosini Timpano ha chiara la funzione del proprio teatro: far saltare le certezze e le opinioni consolidate che come comunità abbiamo degli eventi storici che ci hanno condotto a questo presente: il corpo del duce come luogo d’azione delle contraddizioni dell’Italia post-fascista (Dux in scatola); il nostro equivoco passato coloniale cancellato e dimenticato sotto la menzogna dell’italiano brava gente (Acqua di Colonia); la vicenda Moro (Aldo Morto); e ora la parabola della coppia di dittatori Nicolae Ceausescu e Elena Petrescu fucilati in diretta televisiva il giorno di Natale 1989.

La fucilazione dei dittatori rumeni, che ancora viene trasmessa il giorno di Natale in Romania, si può vedere tranquillamente su Youtube. Sono immagini forti che in qualche modo inaugurano una stagione in cui la storia si può osservare nel suo svolgersi, semplicemente ripresa al di là della retorica e della propaganda. Pensiamo a come si è sviluppato oggi dove tutto po’ essere ripreso in qualsiasi momento e diventare virale.

Milo Rau, autore di The last days of the Ceausescu nel 2009, mi raccontò in un’intervista che vedendo i filmati dell’esecuzione si convinse che il teatro doveva affrontare la realtà con una potenza pari a quelle immagini.

La Compagnia Frosini Timpano in Gli Sposi di David Lescot nella traduzione di Attilio Scarpellini raccontano l’intera parabola dei coniugi Ceausescu dagli oscuri esordi alla tragica morte. L’esecuzione è solo accennata, il processo avviene in voice off, con i piccoli gesti accennati e descritti. Il finale volutamente sfugge alla forza delle quelle immagini.

Sia Nicolae Ceausescu che Elena Petrescu sono di famiglia povera e contadini. Originari della Valacchia sono individui scialbi, senza particolari talenti, non troppo intelligenti o dotati, eppure per le oscure trame della storia si trovano a guidare una nazione, a farne il proprio feudo personale, a decidere della vita e della morte dei proprio concittadini.

Il regime di sangue costruito crolla esattamente come quello di Macbeth e di Lady Macbeth: nel sangue e nella violenza. La Romania è l’unico caso nel blocco comunista europeo a sfaldarsi a colpi di fucile. Dai tumulti e dalle stragi di Timisoara fino alla cattura a Targoviste, e al processo e fucilazione dei Ceausescu passano solo nove giorni, dal 16 al 25 dicembre del 1989. Quel che avviene in quei fatidici giorni è frutto però di un lento processo che porta i due al vertice e li precipita nell’abisso, ed è il processo di acquisizione del potere che viene prima di tutto indagato. La fine è una conseguenza di infinite azioni e reazioni. E poi c’è l’oggi. Dove ci ha portato quella liberazione?

La Compagnia Frosini Timpano ne Gli Sposi racconta la vita, mette in luce le contraddizioni di questi due oscuri personaggi divenuti emblema del male, li umanizza e martirizza, i loro corpi e le loro anime vengono sezionati e analizzati con la potente lente di ingrandimento dell’ironia.

Il gesticolare convulso con la mano di Ceausescu, il suo balbettare, l’influenza di una moglie inflessibile, i pugni socialisti levati al cielo quasi in pose di manifesto di propaganda in luce rossa, la fuga tremante, esitante, tragicomica in elicottero e poi in macchina, semplicemente evocata con rumori e piccoli gesti, tutto si trasforma nel racconto di una spaventosa dittatura la cui anima era costituita da due persone inette.

La maschera del dittatore viene sollevata e si scopre che ciò che vi si nascondeva non è una coppia di mostri eccezioni di natura ma uomini banali, insipidi in fuga come qualsiasi animale braccato. L’era degli eroi si è conclusa sotto le mura di Troia. Oggi restano solo gli uomini, uguali tutti nel condividere un destino miserevole.

La faccia del potere si sgretola, non rimangono che i corpi sul selciato, inerti, morti, svuotati. Il cadavere nella sua pura e inquietante oggettività non è che un vuoto guscio una volta ammantato degli emblemi di un terribile potere.

Gli sposi della Compagnia Frosini Timpano è una danza macabra contemporanea: la morte livella e ci mostra la vacuità di ogni agire/patire umano, svuota di senso anche il mostro più orribile. Forse è questo che aveva scoperto Odisseo quando, nel mito platonico, al momento di scegliere una nuova vita, optò per la più anonima di tutte.

Non solo danza macabra questi Sposi della Compagnia Frosini Timpano anche analisi sapientemente ironica della natura del potere, qualsiasi potere. Non si parla solo della Romania, ciò che viene raccontato non è solo un fatto non troppo lontano nella storia. Si parla di molto contemporaneo e dei molti ometti che si aggirano negli odierni telegiornali con in mano spaventosi poteri, a guidare nazioni, a decidere di vite umane.

Un saggio scrisse che per prevedere il futuro bastava studiare la storia. L’opera di Elvira Frosini e Daniele Timpano ci dice proprio questo: tutto si ripete, tutto è già avvenuto, e guardare il passato è affrontare il presente. Per questo il loro teatro apparentemente semplice e sbarazzino è oggi tanto necessario.

I Sacchi di Sabbia

SPECIALE INEQUILIBRIO: Andromaca de I Sacchi di Sabbia

Nasce il 4 luglio, o forse sarebbe meglio dire rinasce, Andromaca de I Sacchi di Sabbia diretti da Massimiliano Civica. Debutta in prima nazionale a Inequilibrio XXI questo secondo capitolo della riscrittura dei classici greci che segue I dialoghi degli dei da Luciano di Samosata.

In Andromaca de I Sacchi di Sabbia la tragedia volge al comico. In una passata intervista Massimiliano Civica mi disse che il tragico in fondo è ottimista perché dopo la crisi ristabilisce un ordine mentre il comico, dietro la risata, nasconde un cinico pessimismo.

In Andromaca credo che questo sia ben evidente. La vedova di Ettore, dopo aver visto uccidere il marito e il figlio, bruciare la sua città, dopo esser stata tradotta schiava a Ptia, aver subito violenza da Neottolemo e avergli dato un figlio, ecco che viene minacciata di morte da Ermione, figlia di Menelao e di Elena, vera sposa del figlio del Pelide. Andromaca per evitare la morte si stringe alla statua di Teti, madre di Achille e quindi per forza di cose, dea parente, per invocare protezione.

Già solo nell’elenco delle disgrazie della povera Andromaca, e nella citazione delle parentele si può notare una mole impressionante di materiale comico, dalle corna agli strani intrecci parentali.

Due elementi sono assenti: la divinità (Teti è invocata ma non partecipa) e il destino ineluttabile. Questa di Andromaca è vicenda umanissima dove non Ananke tesse l’intreccio quanto le gelosie, i rancori, le passioni mal riposte.

Altro assente illustre è Neottolemo perché già morto ma nessuno lo sa. Nel consulto con l’oracolo viene ucciso in un imboscata. Gli strazi che avvengono a Ptia risultano inutili alla luce di questa notizia.

Il vano agire è il sale del comico. Le umane vicende, vanitas vanitatis, risultano vacui fantasmi alla luce fredda della realtà. La risata va a braccetto con la verità.

Se ne I dialoghi degli dei l’operazione di riscrittura messa in opera da I Sacchi di Sabbia e Massimiliano Civica sembrava un po’ scolastica e didascalica, nei confronti del testo Euripideo si assiste all’emersione di un’immagine del tragico insolita. Il comico non lo svilisce ma ne mostra un lato nascosto. Laddove la tragedia, attraverso il pathos dell’ineluttabilità del destino e della colpa da espiare, rimanda a un cielo che può caderci in testa in ogni momento, il comico sgretola la fatalità con l’inutilità e vacuità dell’umano agire/patire.

Il riso squarcia il velo di serietà di cui ammantiamo il nostro dolore, e ci sussurra maliardo che tutto passa e tutto scorre e il più delle volte si fa i conti senza l’oste. Neottolemo è già morto. Tutto quel che accade potrebbe anche non accadere e niente sarebbe scosso di un millimetro.

L’uso del dialetto, toscano e napoletano, aumenta l’efficacia delle battute anche se qualche volta si inciampa in un facile boccaccesco. Massimiliano Civica è uomo di teatro che conosce e ama la tradizione farsesca e popolare, ne conosce i meccanismi e i ritmi, e li usa con efficacia.

Andromaca risulta quindi uno spettacolo di comicità intelligente, colmo di meccanismi farseschi tratti da una tradizione scenica che è propria del teatro italiano popolare, dai ludi satirici alla commedia dell’arte fino all’avanspettacolo.

Al di là degli esiti, più o meno riusciti, di questo dittico sui classici greci, I Sacchi di Sabbia e Massimiliano Civica indicano una strada efficace per una rivalutazione del materiale comico della tradizione e una modalità di riscrittura che non banalizza il classico ma lo snellisce di un linguaggio non più nostro.

In una certa maniera, con le dovute distanze, l’operazione scenica ricorda Mejerchol’d quando cercò di recuperare i lazzi, i giochi, le battute della commedia dell’arte per farne materiale da attore da usare per la scena contemporanea. Tali materiali tecnici sono bagaglio imprescindibile per l’attore, non solo di teatro popolare, e sono strumenti efficacissimi e soprattutto stranianti, lontani da un’interpretazione mimetica.

Come la violenza clownesca, pur non essendo vera, evoca tutta la terrificante fisicità archetipica, così il comico popolare ha un potere disvelante sulla realtà. Dietro una risata, se coltivata con strumenti intelligenti e sapienti, si nasconde sempre un pensiero filosofico.

AttoDue/Murmuris

SPECIALE INEQUILIBRIO: Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris

Nella mia seconda giornata a Inequilibrio mi sono imbattuto in uno spettacolo che mi ha fatto molto pensare. Parlo di Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris da un testo di Jean-Luc Lagarce per la regia di Simona Arrighi e Laura Croce.

La riflessione a cui mi spinge questo spettacolo non è di natura estetica (posso tranquillamente dire che ogni immagine era ben studiata e concepita), e nemmeno di natura attorica, quanto piuttosto funzionale.

Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris è un lavoro strutturato su una rappresentazione mimetica e naturalistica. Siamo nella Sala del Ricamo del Castello Pasquini, le finestre sono aperte sul mare, un salotto borghese e ben arredato accoglie gli spettatori. La scena è già in atto. È come entrare in casa d’altri. C’è quindi fin dall’inizio una quarta parete che ogni tanto viene leggermente rimossa con degli a parte.

Tutto è assolutamente credibile e naturale. Gli attori (Luisa Bosi, Laura Croce, Sandra Garuglieri, Roberto Gioffrè, Riccardo Naldini) sono bravi, senza affettazione, privi gesti inutili, con una partitura di azioni serrata, misurata, genuina che fa trasparire i sentimenti che le parole non dicono, gli imbarazzi, la rabbia, la frustrazione.

E poi gli oggetti di scena: il vino nei calici, la zuppa nel piatto, la foto dei bambini, il caffè nelle tazzine. La mimesi con la realtà è quasi perfetta, non fosse per il pubblico e le americane al soffitto. Fin dalle prime battute si ha come l’impressione di essere a Mosca a casa Stanislavskij o a Parigi a godersi uno spettacolo di Antoine. Siamo di fronte a un teatro naturalista che rappresenta un salotto borghese.

Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris mi ha fatto sorgere sin dai primi minuti una domanda insistente: è questo che chiediamo oggi al teatro? Un teatro mimetico?

Queste domande le pongo senza alcun intento polemico, ma in quanto studioso di arte scenica. Nella Parigi di Zola e Antoine e della loro battaglia per il naturalismo contro le viete convenzioni ottocentesche, o nella Mosca di Stanislavskij, la mimesi tra arte e vita era una contesa attuale che riformava i teatro. Nonostante questo, già dopo pochi anni, le avanguardie o registi come Vachtangov e Mejerchol’d cominciano a demolire l’edificio mimetico verso un teatro che non sia rappresentazione ma vada al di là.

Oggi, mi chiedo, è questa rincorsa alla mimesi che serve al teatro? È la simulazione che assolve alla funzione del teatro? Non ci sono altri media che possono farlo meglio? Perfino i primi reenactment di Milo Rau non erano mimetici, ma sempre era rivelato, in maniera quasi brechtiana, l’artificio e la distanza dal reale.

Pensiamo a Hate Radio: siamo di fronte alla rimessa in scena di una trasmissione radiofonica di Radio Milles Collines, ma nessuno vuole farci credere che siamo a Kigali in Ruanda, solo farci comprendere che cosa è avvenuto.

Quello che è davanti a noi è come un vetrino di laboratorio, è un oggetto di studio e di critica del reale non la sua copia e nessuno fa finta di credere che i conduttori siano quelli veri. C’è una distanza critica necessaria per comprendere e in qualche modo giudicare la realtà e, se possibile, modificarla.

La funzione del teatro è quindi quella di sguardo sul mondo, luogo dove la comunità/pubblico indaga la realtà, ne affronta le sue crisi cercando modalità di risposta. Il dispositivo scenico ha quindi una chiara funzione.

Nel caso di Giusto la fine del mondo di AttoDue/Murmuris, benché il lavoro sia ben fatto e ben eseguito, la funzione mimetica non appare per nulla chiara. Perché si vuole che si creda che sia reale? Perché quello che capita sulla scena potrebbe capitare a tutti? Ma per raggiungere questo scopo è la simulazione la strategia più adeguata?

Già Carmelo Bene diceva, nelle sue meravigliose lezioni su Cos’è il teatro, che far finta di credere che quello sulla scena sia Amleto era cosa da Croce Verde. Dopo le rivoluzioni del Novecento, dopo aver fatto di tutto per uscire dalla rappresentazione e cercare nuove funzioni alla scena, veramente crediamo necessario il ritorno a un teatro naturalistico borghese? È così essenziale mettere una zuppa nel piatto come se ci si trovasse di fronte a un vero pranzo in famiglia? La scena non possiede modalità più efficaci?

Queste domande le pongo, ripeto, senza tono giudicante. Il lavoro di AttoDue/Murmuris, dal punto di vista tecnico, è irreprensibile. Perfino Stanislavskij avrebbe proferito il suo fatidico: “Ci credo!”. Il problema non è la qualità, ma la funzione della scena in se stessa. Che teatro vogliamo nel nostro contemporaneo? È la mimesi tra arte e vita lo strumento adeguato per il reale che ci troviamo ad affrontare?

Carmelo Alù

SPECIALE INEQUILIBRIO: CANI MORTI di Carmelo Alù

Carmelo Alù, vincitore del progetto Davanti al pubblico 2018 organizzato dal Teatro Metastasio di Prato, mette in scena, nella Sala del Camino del Castello Pasquini di Castiglioncello, Cani Morti del drammaturgo norvegese Jon Fosse.

Un ragazzo è seduto al tavolo. Non esce mai. La mare gli chiede dove sia il cane. Non è tornato. Nessuno lo va a cercare. Manca anche il caffè. La madre esce a comprarlo dopo un ultimo tentativo di smuovere il figlio.

Si susseguono le visite: un amico, la sorella con il marito. Da un’unica finestra sul mondo tutti scrutano a turno ciò che avviene dalla finestra. Il cane non torna.

I dialoghi sono spossanti. Tutti ripetono in circolo le stesse frasi banali, inconcluse e inconcludenti. Non si va da nessuna parte. Non si dice niente di importante. Il cane viene trovato morto.

È stato il vicino. Forse per sbaglio. Si scava la fossa in giardino e tutti la contemplano dalla finestra. Anche il vicino viene trovato morto. Lo portano via in ambulanza.

Non sveliamo il finale anche se non è un giallo quello di cui stiamo parlando. Manteniamo il mistero senza commettere il peccato di spoiler. Quello che importa è la forma di un uragano che si forma dal nulla di dialoghi senza via d’uscita e da piccole azioni di per sé non così connotate dal marchio della violenza. Il cane è il fulcro. Scomparso dalla scena perché mai vi è salito eppure nella sua assenza è protagonista. Tutto in qualche modo è già successo. Non avviene in scena. Quest’ultima ospita le cause non gli effetti.

L’assenza del cane è già morte. Non ci si aspetta niente di buono e questo antivedere grava come un macigno d’angoscia. Si sa che qualcosa succederà e non sarà un lieto fine.

Si scivola verso un abisso tra un buongiorno e un buonasera. Senza quasi accorgersene. Non ci sono dei che stabiliscono un destino. Non è Ananke che muove la sua ruota inesorabile. Sono le banalità. Il piccolo sasso che provoca una valanga.

Carmelo Alù mete in scena questo meccanismo con semplicità francescana. Solo un tavolo e tre sedie identiche se non per il colore a quelle di Bidibidobidiboo di Cattelan. Già in questo c’è un richiamo alla morte. Un proiettore da 5000w su uno stativo è la finestra sul mondo. Le sue bandiere le persiane. Luce gialla di un sole malato e cadente.

Gli attori sono intensi in questo testo non facile all’interpretazione. I personaggi sono tutti scialbi e incolori. Le loro parole vane e vacue. Nelle sfumature si accoccola il demonio e sono quelle a essere difficilissime. Quindi complimenti a Alessandra Bedino, Domenico Macrì, Emanuele Linfatti, Caterina Fornaciai, Daniele Paoloni.

La regia di Carmelo Alù non è quindi nel movimento e nella spazialità ma nel saper far emergere dalle piccole crepe del linguaggio l’angoscia e la violenza.

Il teatro che ci propone Carmelo Alù è un teatro di rappresentazione e interpretazione da un testo letterario. Lo fa molto bene con dei bravi attori. Trovo sempre una punta di delusione quando non vedo il teatro parlare la sua propria lingua, quel teatro che non necessita della letteratura per esprimersi, o dove la letteratura è solo uno dei tanti materiali di una composizione, e non posso che prendere atto di un ritorno prepotente delle tradizionali rappresentazioni.

Carmelo Alù mette in scena un testo da lui tradotto, lo fa molto bene all’interno di una solida tradizione di teatro rappresentativo. Carmelo Alù, come molti altri giovani italiani, sceglie di affidarsi al testo e alla letteratura per far scaturire il teatro. Lo vediamo in moltissimi casi dagli esiti migliori (pensiamo a Macbettu) a quelli più deficitari. Bisognerebbe indagare il perché di un abbandono di un teatro che cerca nella letteratura e non nel mondo il motore del suo agire, non nella composizione, nel movimento, nell’uso degli oggetti la sua lingua senza parole, o dove le parole sono semplice elemento.

Forse è la certezza di essere in qualche modo comprensibili, forse l’ossessione a raggiungere quanto più pubblico possibile, o forse solo un amore verso la drammaturgia teatrale. Non riesco a darmi una risposta anche se si rafforza in me la convinzione che sia la danza, forse, la vera erede della composizione scenica. E di questo forse bisognerebbe interrogarsi.

Ph: @ Anita Martorana

Cristina Kristal Rizzo

SPECIALE INEQUILIBRIO: VN SERENADE di Cristina Kristal Rizzo

VN Serenade di Cristina Kristal Rizzo, visto in prima nazionale a Inequilibrio è un lavoro composto di due coreografie che indagano il rapporto tra la composizione corporea e quella musicale.

Due coreografie per due oggetti sonori complessi come la Verklärte Nacht op. 4 di Arnold Schönberg e la Serenata op. 48 di Petr Il’ič Čajkovskij.

Verklärte Nacht scritta nel 1899, è la prima opera importante di Schönberg, Inizialmente nata sestetto d’archi (la prima fu eseguita dal celebre Quartetto Rosé allargato), rielaborato nel 1917 e nel 1943 per orchestra d’archi, è di fatto un poema sinfonico ispirato dal testo del poeta Richard Dehmel.

Il poema, assolutamente simbolista per le atmosfere e i toni, racconta una tormentata passeggiata notturna al chiaro di luna di due amanti. Lei confessa a lui di aspettare un figlio da un matrimonio non voluto. Lui accetta la nuova creatura come fosse sua e i due si riconciliano dopo i timori, i dubbi e le inquietudini che mettono in crisi il loro amore clandestino.

Una sorta di viaggio di formazione questa promenade, che si esplica musicalmente nella contrapposizione e nell’urto delle masse sonore, quasi onde che si infrangono sulla scogliera: i toni gravi dei contrabbassi con gli estremi acuti dei violini, il cromatismo wagneriano con il principio di variazione/sviluppo di marca brahmsiana.

Cristina Kristal Rizzo sceglie di comporre la sua coreografia con onde formate da coppie di danzatori che si sovrappongono e si scambiano. Un fluire ininterrotto di movimenti per lo più fluidi, curvilinei, sinusoidali con ritmi più o meno intensi non necessariamente in accordo con la musica.

La danza che si intreccia con Verklärte Nacht quasi rifugge angoli e spigoli, facendosi quasi movimento gassoso, quasi di sbuffo di fumo su un raggio di sole. Il fluire delle forme corporee ha un che di ipnotico, sognante, non privo di certa drammaticità, risvegliando nell’occhio di chi guarda tinte simboliste tardo ottocentesche.

Diversa la scelta per la Serenata op. 48, primo pezzo coreografato da Balanchine nel 1934 per l’American Ballet Theatre. Nata in un periodo di crisi compositiva di Čajkovskij dovuta ai tormenti della sua vita di coppia, la Serenata per archi non brilla tra le migliori composizioni del maestro russo.

La Serenata è intrisa di forte accademismo di maniera che ricorda stilemi della musica di genere del XVIII sec. (nel primo movimento il tema esposto e poi ripreso nel finale elemento presente anche nella coreografia di Cristina Kristal Rizzo) e contrappunti fugati macchinosi che appesantiscono lo sviluppo.

La coreografia di Cristina Kristal Rizzo che si intreccia con Serenata quasi replica gli stessi difetti presenti nella composizione musicale, La forma balletto è più riconoscibile, si appesantisce di figure obsolete che richiamano un mondo danzato lontano nel tempo. La presenza di un certo sentimentalismo figurato, quasi romanticismo di maniera replica in qualche modo nel movimento la musica di Čajkovskij divenendo composizione nella composizione.

La danza non è ancella della musica ma compagna, linguaggio autonomo che adotta una composizione che in questo secondo pezzo agisce per accordo e accostamento di elementi simili che in qualche modo fanno esplodere i difetti congeniti della Serenata.

Cristina Kristal Rizzo con questa sua VN Serenade studia e indaga la composizione a fianco della composizione. Il rapporto danza/musica che spesso ormai viene dato per scontato o come accostamento semplice di una colonna sonora o come forma di illustrazione visiva di ciò che si ascolta. Questa di Cristina Kristal Rizzo è un’operazione in qualche modo similare a certe operazione di Anna Therese de Keersmaker dove la struttura musicale spinge ad affiancarne una danzata ispirata agli stessi principi.

Certo l’atmosfera un po’ vintage dell’operazione rischia di far apparire tutto leggermente nostalgico e affettato, ma credo che anche questo effetto sia in qualche modo voluto, come se nella replicazione del DNA musicale si sia trasferito anche l’atmosfera di un tempo che fu.

Ph:@lucadalpia