ARGO

ARGO: UN VIAGGIO CHE POTREBBE PORTARE LONTANO LONTANO

Una delle più avvincenti saghe della fantascienza degli ultimi anni è Il ciclo di Hyperion di Dan Simmons. Nel mondo immaginato dallo scrittore statunitense la terra è collassata e l’umanità si è divisa: da una parte l’Egemonia sparsa in centinaia di pianeti in alleanza con le IA del Tecnonucleo e che vive, bene o male, come prima della diaspora spaziale adattata a contesti differenti; dall’altra ci sono gli Ouster, umani mutati dall’adattamento della vita nello spazio profondo, unici ad aver accettato la sfida dell’evoluzione senza l’aiuto invadente delle IA: essi sono liberi, irriconoscibili, odiati, sconosciuti, eppure saranno loro a vincere la guerra.

Quello che sta avvenendo in questo lungo e difficile 2020 è probabilmente uno degli spartiacque fondamentali nella storia dell’uomo e non per la questione sanitaria ma perché la situazione è miccia e innesco per cambiamenti epocali in tutti i settori di attività e tali mutamenti avvengono in gran parte per e a causa delle tecnologie digitali.

La chiusura forzata dei teatri obbliga a riflettere, non solo sulla natura del proprio agire artistico, ma soprattutto sul ricercare nuove strategie di sopravvivenza, molte delle quali, già nella prima ora, si sono rivolte verso la terra di frontiera digitale, attualmente, a causa della lentezza legislativa rispetto allo sviluppo delle tecnologie, molto simile a un Far West. Questa musa fredda, fino a ora e a parte rari casi, è stata usata come in megafono o come una televisione, quindi in maniera sostanzialmente conservativa, replicando appunto la modalità di media conosciuti e, in qualche modo rassicuranti. Qualcuno però prova ad accettare la sfida dell’evoluzione e come gli Ouster tenta la metamorfosi per sopravvivere alle condizioni estreme dello spazio profondo.

Molto ci sarebbe da discutere se tale trasformazione sia o meno necessaria, se quello che ne verrà fuori sia ancora e sempre teatro, e via così, di domanda in domanda, ma resta il fatto che quando l’umanità inizia a usare uno strumento su larga scala difficilmente lo abbandona. Le cabine del telefono relitti negletti in qualche angolo di strada testimoniano questo processo. Indagare le funzioni del teatro in questo oscuro presente non è dunque questione di lana caprina né vuota osservazione di lanugini ombelicali ma un processo necessario per indirizzare la trasformazione obbligata in cui ci troviamo tutti immersi.

Un tentativo in questa direzione è il progetto ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro presentato il 19 novembre in video conferenza stampa dal direttore del Teatro Stabile di Torino Filippo Fonsatti, insieme ai partner istituzionali (Scuola Holden, Comune di Torino, Fondazione CRT e Fondazione Compagnia di San Paolo). ARGO è la nave che porta Giasone e gli Argonauti. Nel nome quindi l’idea del viaggio in terre sconosciute su una navicella dell’ingegno in cui il Teatro Stabile di Torino ha voluto imbarcare ben settanta artisti della città.

Gli scopi di ARGO sono molteplici: il primo è quello di creare sette oggetti digitali a partire da altrettanti temi base, oggetti volti a prefigurare il futuro e a discutere le funzioni della scena nel nuovo nebuloso contesto, oggetti con valenze politiche e non direzionati a una produzione artistica. Gli artisti chiamati sono i più significativi del territorio cittadino, un territorio fortunatamente ricco, e da cui sono stati esclusi coloro che già percepiscono fondi del FUS o hanno cariche e funzioni all’interno di istituzioni teatrali. Si è privilegiato dunque gli indipendenti. Oltre a questi di cui fanno parte Il Mulino di Amleto, Piccola Compagnia della Magnolia, Domenico Castaldo e il suo LabPerm, Giulia Pont, Asterlizze Teatro, Girolamo Lucania, Simone Schinocca, Giorgia Goldin, Davide Barbato etc, a titolo di esempio perché lungo sarebbe l’elenco, oltre a questi dicevamo partecipano, a titolo gratuito, sette senior Eugenio Allegri, Valerio Binasco, Emiliano Bronzino, Laura Curino, Valter Malosti, Beppe Rosso, Gabriele Vacis, al fine di stimolare un confronto generazionale nel dibattimento dei temi. Si è dunque voluto essere trasversali in quanto a range di età e di esperienza. Peccato che da questo confronto sia esclusa la danza e il circo, pur ben rappresentati in città, settori che avrebbero potuto dare un notevole contributo.

Il secondo scopo è sostenere il settore in un momento di grande difficoltà. Tutti gli artisti sono assunti regolarmente. Terzo obiettivo è rafforzare l’identità artistica del territorio torinese. Lavorare insieme a un progetto potrebbe creare connessioni per ora impreviste e rendere più unito un ambiente non sempre pronto a sentirsi categoria unita da problemi ed esigenze simili.

Ma veniamo ai metodi di lavori. I settanta partecipanti verranno divisi in sette tavoli ciascuno dei quali è presieduto da un leader e affiancato da ”un editor-facilitatore, che ha il compito di elaborare e sintetizzare le idee e i contenuti affrontati nel corso del lavoro”. A ognuno dei sette tavoli previsti gli artisti convocati dovranno immaginare e produrre degli oggetti concreti: un manifesto, una mappa concettuale che racconti non solo il passato ma anche il futuro, un appello alla nazione, una campagna di comunicazione, un gioco/esperienza, una fake identity frutto di riflessione sull’autonarrazione di sé che accompagna l’esperienza digitale e infine un podcast per esporre il punto zero da cui si parte. Tutti questi oggetti esplorano le funzioni del teatro nel contesto politico e sociale, oltre al confronto con l’ambiente digitale.

Potenzialmente ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro è un progetto che potrebbe avere un notevole impatto sul mondo teatrale italiano (paragonabile si spera a quanto avvenne a Ivrea nel 1967), sia per l’aspetto innovativo, sia nel generare un precedente di collaborazione fruttuosa e virtuosa tra mondo teatrale indipendente e Teatri Stabili. Dall’altra si rischia la nascita di un monopolio, e non lo diciamo per pregiudiziale diffidenza o sospetto ma solo come dato di riflessione. Da anni si assiste a questo fenomeno dove festival, formazione e innovazioni vengono assorbiti o nascono all’ombra dei Teatri Nazionali (un esempio sono gli esiti dell’ultimo Premio Scenario quasi tutti provenienti da scuole o progetti legati ai Teatri Nazionali, così come l’emersione di talenti come Liv Ferracchiati o Leonardo Lidi per fare due esempi). L’altra forza innovativa sono i Festival con le residenze, la possibilità distributiva e la visibilità offerta, forza però in possesso di molti meno mezzi rispetto agli Stabili e quindi sempre più ampia diventa la forbice nel panorama produttivo e distributivo italiano.

Il progetto ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro si muove dunque nella corrente di accentramento dei Teatri Stabili che già da anni si nota in un paese come il nostro in cui la cultura si è dimostrata sempre vitalissima proprio nell’essere policentrica, nel fiorire anche nella provincia più depressa e oscura, lontana dai centri di potere. L’accentramento quindi, se da una parte può essere fenomeno fisiologico, dall’altro genera dei problemi e solleva questioni. Speriamo dunque che ai tavoli di discussione tali temi emergano e vengano dibattuti, così come si spera che il Teatro Stabile di Torino e il suo direttore Filippo Fonsatti vogliano veramente battersi con e per i deboli e gli indipendenti per cercare di sconfiggere l’irrilevanza.

ARGO, come si è detto, è la nave degli Argonauti solido traghetto verso il vello d’oro, ARGO è una costellazione rappresentazione stellare del vascello mitico, ma ARGO, come racconta il film di Ben Affleck del 2012, è anche una mistificazione, certo volta a salvare dei reclusi da un destino ancora peggiore, ma pur sempre una manipolazione. L’augurio a tutti i partecipanti e attori di ARGO. Materiali per un’ipotesi di futuro è che non si avveri l’ultimo scenario ma il loro lavoro possa offrire a noi tutti dei materiali di discussione che pongano veramente le domande giuste, che obblighino i legislatori e chi si occupa del teatro italiano a porre mano a una riforma attesa da troppo e sempre più necessaria, che possano disegnare davanti ai nostri occhi un futuro meno fosco di quel che appare al momento.

Trieste Science+Fiction Festival

RAGGI FOTONICI SUL TRIESTE SCI+FICTION FESTIVAL

RAGGI FOTONICI SUL TRIESTE SCI+FICTION FESTIVAL

Si è da poco conclusa l’edizione 2020 del Trieste Science+Fiction Festival, edizione quest’anno interamente digitale a causa della presente pandemia. Per chi scrive è stata questa la prima esperienza festivaliera interamente digitale. Inizierò quindi con alcune considerazioni su quanto vissuto considerato che, da più parti, si insiste su investimenti massicci in questo senso sia per ragioni di audience engagement sia per innovazione e sviluppo. L’esperienza suggerisce che se certamente maggiore è stato l’afflusso di pubblico nella sala virtuale di Mymovies, decisamente è stata nullificata l’esperienza umana che accompagna ogni festival: i commenti con gli altri spettatori durante le pause e le file per gli accessi, le feste dove molto spesso si creano occasioni per intessere relazioni umane e professionali, la conoscenza della città ospitante, tutto questo resta un ricordo. L’esperienza digitale è concentrata sulla fruizione del film, esperienza in solitaria se si escludono le possibilità di commento in chat. Se veniamo alle considerazioni più tecniche temo che i costi tra il vivo e il digitale siano pressoché identici: se da una parte calano le spese di ospitalità (e con esse il relativo indotto per la città) e forse di allestimento (il digitale comunque necessita di studi e ambienti per le dirette), dall’altra non diminuiscono le spese di personale né quelle per i diritti e le sottotitolazioni. Sugli incassi mancano dei dati definitivi ma scommetterei su un flessione rispetto alla sala. La rivoluzione digitale dei festival è avvenuta troppo in fretta e in condizioni di emergenza per capire pregi e difetti dell’esperienza. Sarà solo il ritorno a una vita normale e non distanziata né segregata a farci capire queli sono veramente le possibilità di integrazione digitale con la tradizionale fruizione del vivo. Sarò un tradizionalista ma spero vivamente si possa tornare ai festival dal vivo, sicuramente più caldi e divertenti, più ricchi di possibilità di crescita.

Veniamo ai film, veri protagonisti di un festival. La fantascienza da sempre si è caratterizzata come genere con forti valenze politiche, luogo fantastico e patafisico di messa in questione del presente, dove ci si prova a immaginare un futuro alternativo, distopico, utopistico, quasi mai compiacente con l’attualità, per quanto di essa si nutra. Ma in questa temperie che di fatto ci ha catapultato tutti in scenari tra L’ombra dello scorpione e Contagion, mai i territori della fantascienza hanno collimato con il complesso presente in cui siamo immersi. Chi scrive si trova ora in zona rossa, in un piccolo paese che in certe ore del giorno assomiglia agli scenari di Walking dead e Io sono leggenda esclusa la presenza degli zombi.

SF8 Trieste Science+Fiction Festival

Non è un caso quindi che molti dei film presenti nella ricca e complessa selezione del Trieste Science+Fiction Festival riflettano il reale in uno specchio non più tanto deformante, non solo per la pandemia in sé ma per gli effetti sulle nostre vite dell’immersione nel mondo digitale che essa ha accelerato. Esempio eclatante la straordinaria serie coreana SF8 in cui otto registi provano a raccontare il rapporto con la tecnologia e gli aspetti irrisolti del nostro rapporto con essa. Il primo episodio The prayer di Kyudong Min racconta di una robot infermiera destinata ad accudire una malata in coma irreversibile. L’intelligenza artificiale dell’automa perfettamente similare all’umano naturale, nel vedere gli effetti della lunga degenza sulla figlia della malata, depressa e vicina al suicidio, si risolve a togliere la vita alla paziente per poter salvare la giovane. La reazione è tutt’altro che di gratitudine. La robot viene smembrata e condannata a un limbo infernale in quanto considerata difettosa. Il tema etico è duplice: da una parte l’eutanasia e dall’altra quali siano i valori su cui un’IA si debba basare per prendere una decisione. Se si pensa che questo sia un tema di là da venire, meglio considerare i dibattiti sulla questione in merito alle Google Car. Il quarto episodio Manxin di Deok Roh si occupa della nostra dipendenza cronica da App. Manxin è infatti una app basata su un algoritmo altamente predittivo. Nessuno può più uscire di casa senza sapere da Manxin cosa riserverà il proprio futuro. Le decisioni autonome sono viste con orrore e meraviglia. Si crea persino una chiesa volta all’adorazione di questa tecnodeità pronta in ogni momento a venire incontro ai suoi fedeli con un semplice click. Il rapporto con le app e l’intreccio inestricabile tra virtuale e reale caratterizza anche il sesto episodio Love virtually di Kihwan Dia. Una coppia si conosce su uno spazio virtuale tramite avatar. I volti dei due protagonisti nella vita reale sono stati ricostruiti con plastiche disegnate da un’IA, i loro volti sono bellissimi ma comuni tanto da incontrare dei “gemelli” per la strada o al centro commerciale. Nel mondo virtuale i protagonisti si sono costruiti quindi degli avatar con i loro volti originari pieni di difetti. Cercano chi li ami per quello che sono. Un improvvviso aggiornamento del sistema li costringe lontano dal mondo virtuale e non potendosi incontrare i due innamorati decidono di vedersi dal vivo. Qualcosa però non funziona: non capiscono più cosa sia reale, quale sia la loro vera forma, e l’amore sfuma relegandoli nell’infelicità e nella solitudine. In SF8 la fantascienza assume aspetti più filosofici che spettacolari, ponendo domande sul mondo che stiamo costruendo senza fornire facili risposte. La serie si richiama alla nota Black Mirror e con essa apertamente si confronta, ma contrariamente alla serie britannica, SF8 riesce a porre in questione la realtà con maggiore leggerezza, per quanto non disdegni i toni fortemente tragici e patetici.

Post Mortem di Peter Bergendy

Nella selezione del Trieste Science+Fiction Festival non mancano riferimenti alla presente pandemia, allusioni per lo più involontarie in quanto le produzioni se terminate nel 2020 sono iniziate ben prima della sua diffusione a livello mondiale. Mi riferisco soprattutto a Post Mortem dell’ungherese Péter Bergendy che ambienta il primo horror della storia cinematografica del suo paese nel 1918 anno segnato dalle devastazioni della Prima Guerra e l’imperversare dall’epidemia di spagnola. Tomas è un fotografo specializzato nel rappresentare i defunti. Lavora nelle fiere dove, a un prezzo popolare, fornisce la possibilità a tutti di ritrarre i propri defunti. Qui incontra Anna, una strana bambina, orfana, che lo invita a fotografare i deceduti nel suo villaggio devastato dall’epidemia. Ben presto i due si troveranno ad affrontare le ombre catturate dalle fotografie. Quello di Bergendy è un horror magnificamente ambientato abile nella rappresentazione dello spirito di un’epoca gravata dalla morte, ma capace di convivere con la sua quotidiana presenza proprio attraverso l’uso delle immagini.

Alone di Johnny Matin

Più classico Alone di Johnny Martin, stuntman statunitense con alle spalle più di duecento film girati in carriera e per una volta regista. Aidan è un giovane uomo che viene improvvisamente costretto in casa dallo scoppio di una strana malattia che trasforma chi ne è affetto in zombie. Per salvarsi dall’epidemia non resta che isolarsi in casa. I giorni passano e la solitudine diventa più aggressiva degli zombie. Aidan è al colmo della disperazione pronto al suicidio quando vede, al balcone di fronte, una donna, Eva, con cui inizia una relazione a distanza. La distanza diventa insostenibile e i due provano a incontrarsi ma il mondo che li circonda, tra cannibali e un vicino mascherato dietro una gentilezza ingannevole (magistralmente interpretato da Donald Sutherland) rende il superamento dei pochi metri di distanza un’impresa quasi impossibile. Nonostante non dimostri una grande originalità di trama (siamo di fronte all’ennesima versione di un’epidemia zombie), il film si illumina proprio nel trasformarsi suo malgrado in una rappresentazione della pandemia. La solitudine di Aiden ed Eva, rifugiati e blindati in casa, depressi e pronti a tutto per incontrarsi nonostante i pericoli che li circondano, diventa la nostra storia e quasi controvoglia si empatizza con loro. Johnny Martin è stato capace di rendere materica la claustrofobica detenzione negli appartamenti, scegliendo un piccolo condominio, con appartamenti da single dove, già prima che la malattia si diffondesse, abitava la solitudine e la separazione sociale. Non è comunque superfluo ricordare che la figura degli zombi, famelici, decerebrati e inarrestabili, frutto di contagio è dal suo sorgere un’efficace rappresentazione della cannibalistica società capitalista, oggi più famelica che mai. Inoltre il contagio da sempre è innesco di molta letteratura fantastica da Dracula a L’esercito delle dodici scimmie.

Lapsis di Noah Hutton

Fantascienza filosofica pronta a gettare una luce inquietante sul nostro presente è Lapsis di Noah Hutton. Protagonista è la gig economy e i lavori ad essa associati. Ray Tincelli è un uomo modesto pronto a sacrificarsi per poter recuperare i denari necessari alla cura del fratello minore, afflitto da una strana malattia che provoca stanchezza cronica. Ray per sostenere le ingenti spese per la casa di cura, si lancia nel lavoro di cablaggio di cubi quantum nelle foreste dei monti Allegheny. I cablaggi a tecnologia quantistica fanno risparmiare tempo alle transazioni e quindi le compagnie interessate ben retribuiscono chi si offre di passare giorni nei boschi tirando cavi su e giù per le montagne. Il problema è la messa in concorrenza di umani e robot, umani così imperfetti da necessitare riposo e cibo mentre i robot risultano sempre efficienti H24. Ray si trova a dover affrontare una scelta: prendere i soldi e scappare o scendere in campo e difendere i diritti dei lavoratori. Noah Hutton con un film girato con semplici mezzi riesce dunque ad aprire squarci interessanti sul modello di economia del lavoro che il neocapitalismo arrembante sta imponendo.

Koma di Nikita Argunov

Molti film in selezione gettano uno sguardo preoccupato negli abissi della mente. Koma di Nikita Argunov si immerge nel mondo dei ricordi creando un mondo immaginario decisamente originale che da una parte ricorda Inception dall’altra Avalon. Sprazzi di memorie e paesaggi legati da ponti aperti sul vuoto, spazi liberi dalle leggi della fisica da cui i protagonisti imprigionati tentano la fuga, mondi fantasiosi e imperfetti, frutto di continua riorganizzazione, rendono il film appassionante e divertente. Decisamente deludente il finale dove il geniale giovane architetto al suo rientro nel mondo decide di adeguarsi al sistema anziché immaginarne uno alternativo. Meander di Matthieu Turi già presente al Trieste Science+fiction Festival con Hostiles, racconta la storia di Lisa, giovane e infelice cameriera. Dopo l’incontro con un serial killer si sveglia in un lungo cunicolo pieno di trappole dove deve affrontare non solo un difficile presente ma un passato doloroso. Claustrofobica l’ambientazione e ottima la tensione anche se la trama ricorda molto The cube senza però gli aspetti filosofici. Ultimo Come True del canadese Anthony Scott Burns, menzione speciale per il Premio Asteroide dedicato ai giovani autori emergenti. In un’atmosfera notturna e inquietante si dipana la storia della diciottenne Sarah, ribelle e solitaria affetta da disturbi del sonno. I suoi sogni monitorati da un’equipe di ricerca sono popolati da ombre che ricordano La horla di Maupassant. La fuga dalle ombre e dai sogni porterà a una scoperta ancora più inquietante.

Jumbo di Zoé Witcock

Eccezione dolce e commovente è Jumbo di Zoé Witcock. Tratto da una storia vera di oggettofilia ispirata alla vicenda di Erika Eiffel, ora sposa della celebre Tour Eiffel. Jeanne, giovane donna eccentrica e timida, lavora di notte in un parco divertimenti e si innamora perdutamente di Jumbo, l’ultima attrazione. Jumbo ricambia l’amore di Jeanne è la società che male accetta questo matrimonio che proprio non s’ha da fare. Le scene del corteggiamento sono di grande tenerezza e si situano in uno strano crinale tra Incontri ravvicinati del terzo tipo e Crash. Jumbo è un film che affronta la diversità e l’incredibile spettro di possibilità di quel sentimento chiamato amore con un tocco lieve, senza inutili pesantezze e retoriche, offrendo una storia semplice ma commovente.

Sputnik di Egor Ebramenko

Da ultimo come non nominare il vincitore del Premio Asteroide destinato alle migliori opere prime, seconde e terze di registi emergenti e quest’anno assegnato a Sputnik di Egor Abramenko. Il film si confronta con Life di Daniel Espinosa. Siamo in Unione Sovietica e Kostantin, cosmonauta in rientro, porta dentro di sé un alieno parassita. La psichiatra Tatjana prova con tutti i metodi a liberare Kostja dall’alieno simbionte. I tentativi di Tatjana ovviamente sono contrastati dal colonnello Semiradov (interpretato dal regista di block buster fantascientifici Fedor Bondarcuk) che vuole trasformare l’alieno in arma. Abramenko ci regala un film magistralmente girato e pieno di suspense in una ambientazione di fine impero sovietico estremamente intrigante. Sputnik così come Koma di Argunov oltre a The Black Out di Egor Baranov, successo venduto in tutto il mondo, ci regalano una fantascienza russa estremamente vitale e pronta a rinnovare i fasti del passato.

Il Trieste Science+Fiction Festival ci ha catapultato con la sua ricca selezione in un mondo di fantascienza più vicino e possibile di quanto mai sia stato in precedenza. Le questioni sono scottanti e verso le quali, presto o tardi tutti, dovremo prendere posizione. La fantascienza più che mai si presenta al pubblico come un genere dinamico ed esuberante, capace di coniugare cultura pop con l’alta riflessione filosofica e politica, genere abile come quanti altri mai di illuminare il reale con tinte forti e inquietanti. Sta a noi cambiare il futuro che la fantascienza ci presenta. 1984 o Il mondo nuovo sono solo possibilità e parti della fantasia, sono gli atti dei singoli uomini a rendere quei mondi più o meno reali.

La casa di Bernarda Alba

LA CASA DI BERNARDA ALBA DI LEONARDO LIDI

In questi giorni non c’è niente di più inutile che il scrivere una recensione teatrale. Un esame critico di uno spettacolo si rivolge tendenzialmente a un certo tipo di persone: pubblico presente in sala, pubblico potenziale, appassionati, studiosi e artisti. Oggi i teatri sono chiusi e molti rischiano la sopravvivenza nei prossimi mesi. Gli artisti stessi vivono l’incertezza del momento con affanno e preoccupazione. Il pubblico poi non è e non si sa nemmeno quando potrà di nuovo essere e in che condizioni lo sarà. Quindi perché parlare de La casa di Bernarda Alba di Leonardo Lidi?

Innanzitutto perché il testo di Garcia Lorca, scritto nel 1936, ci parla di argomenti scottanti e urgenti del nostro contemporaneo a partire, ma non solo, dalla questione femminile e del ruolo della donna ancor oggi purtroppo soggiacente a un pensiero e a un desiderio ancora vincolato a quello del maschio.

La casa di Bernarda Alba, in scena al Teatro Stabile di Torino e bloccato prima da una quarantena precauzionale e in seguito dal DPCM, sfuggiva al proprio argomento, si ricontestualizzava forzatamente a causa di una realtà che diventa ogni giorno più pressante e indefinibile. Leonardo Lidi, che traduce e riadatta il testo di Lorca, ci presenta una casa blindata, trasparente e di un biancore ospedaliero come di camera di contenimento. È impossibile per le donne imprigionate uscirne e tra loro aleggia una presenza nera a soffocare e rendere amara la loro permanenza. La casa di Bernarda Alba si apre con un funerale e si chiude con un suicidio. La morte è padrona di quello spazio chiuso e asfittico, dove i sentimenti prevalenti sono l’invidia, l’insofferenza, la rivalità, il dominio padronale, la violenza anche sessuale. Una piccola società che anziché unirsi, consolarsi e difendersi, si disgrega. Tra questi sentimenti entra prepotente ciò che vive ognuno di noi in questo momento in questo paese. Ecco perché scrivere di questo spettacolo è in qualche modo occuparsi del momento presente al di là dei confini propri del teatro.

Bernarda, la madre, dispotica tiranneggia le figlie e la serva, ma in questa sua mania del controllo, dimostra solo la propria impotenza a governare il disfacimento. Sono le parole della serva (Orietta Notari) a dispiegare la vicenda verso un orizzonte oltre la platea: “Pensavo che quando non si riesce a dominare il mare la cosa più facile da fare è girarsi per non vederlo”. E così, grazie a questa battuta, ci sbatte contro tutta la durezza di questo momento: siamo impotenti di fronte a qualcosa che ci sovrasta e appare incomprensibile e le conseguenze sono al momento impredicibili, Nonostante tutto però siamo ad affannarci nel provare a fronteggiare la marea, e lo facciamo con strumenti obsoleti, impreparati, disarmati facendo finta di non sapere la nostra vulnerabilità. Eppure un piccolo spiraglio si apre proprio nel finale con l’entrata della suicida Adele, non più di nero vestita, ma verde di vegetale che morto nella terra rinasce alla vita.

Leonardo Lidi in questa regia de La casa di Bernarda Alba riesce a far emergere la bellezza e brutalità del testo di Lorca, riuscendo anche a proiettare la vicenda nel nostro presente quotidiano dimostrando in questo la necessità del teatro, strumento di comprensione del reale attraverso la finzione. E questo nonostante alcune scelte, per esempio i registri volutamente e insistentemente pop, che allentano sì la pressione, ma alla lunga depressurizzano e disinnescano scene potenzialmente esplosive. Farò un solo esempio: la scena si apre con una danza sfrenata sulle note di Guarda come dondolo di Edoardo Vianello. Le donne vestite di nero in questa stanza sigillata di un biancore accecante. Il contrasto con il funerale è ampio ma significativo. Anche la partecipazione dell’ombra di Lui (Riccardo Micheletti) rende tutto più inquietante. L’elemento popolare è qui volano di significati, grimaldello che squarcia un velo sulla vicenda. Poco oltre questa scena, dopo il dialogo di Bernarda (Francesca Mazza) e della serva ecco l’entrata delle cinque figlie (Francesca Bracchino Angustia, Matilde Vigna Amelia, Barbara Mattavelli Maddalena, Paola Giannini Martirio, Giuliana Vigogna Adele) in punta di piedi, in fila indiana e con le braccia strette ai fianchi e le mani aperte di lato. Le cinque giovani donne si dispongono in fila sul gradino. Una si tuffa in platea e sempre a passettini si avvicina al pianoforte sulla destra e comincia a suonare e cantare Legata a un granello di sabbia di Nico Fidenco. Al toccante momento ecco subentrare un dialogo fatto di vocine in falsetto che smorza e disinnesca il momento. La violenza insita in quei pettegolezzi tra sorelle che dovrebbero amarsi, si stempera tra quelle vocine di bambinette sciocchine e svanite. Il pop qui è controproducente perché non innalza la materia, la rende solo più leggera nel senso deteriore del termine.

Leonardo Lidi è un regista di talento, che in molte scene delle sue già numerose opere dimostra maturità da artista consumato, ma la cui giovane età si intravede proprio e solamente nell’esagerare i toni e i chiaroscuri. Questa non è un’accusa, né una ricerca della critica per la critica di colui che vuole trovare anche nel talento il fantomatico pelo nell’uovo. É solo, secondo la modesta opinione di chi scrive e si assume le responsabilità del dire del lavoro altrui, il rilevare il luogo dove il talento deve maggiormente lavorare per emergere ancora più forte. Sono gli eccessi che insegnano a dosare, sono le sbavature che addestrano la mano alla fermezza e decisione del tratto.

Leonardo Lidi ci consegna un testo di grande e sofferta poesia, e una regia che in buona parte apre la vicenda verso un reale incombente e ci porta a riflettere su noi tutti, fragili e incapaci di guardare il mare in tempesta. É un peccato che le circostanze avverse abbiano sospeso questo lavoro. Avrebbe meritato di essere visto e speriamo che il futuro possa accoglierlo nuovamente sulle scene. Abbiamo bisogno di confrontarci con materie così scottanti, così come abbiamo bisogno di uscire tutti da La casa di Bernarda Alba per affrontare il mondo nuovo che si aprirà dopo questa immane tragedia che colpisce tutti. Dobbiamo ripensare il mondo, dobbiamo trovare nuovi paradigmi, e non solo nel teatro, per non rimanere incastrati tutti tra quattro mura, tra concetti vecchi, disgregati e soli.

Dario Franceschini

LETTERA APERTA AL MINISTRO DARIO FRANCESCHINI

Gentile On. Ministro Dario Franceschini,

mi permetto di scriverle queste poche righe in seguito alla decisione, inserita nell’ultimo DPCM, di chiudere i teatri e i cinema considerandoli attività non essenziali. Mi rivolgo a lei cercando, nel mio piccolo di storico del teatro, di farle comprendere come in realtà proprio il teatro sia stato, nei momenti più drammatici della storia recente, l’attività umana tra le più necessarie. Mi permetta di farle pochi ma significativi esempi: in Russia tra il 1917 e il 1922, in una nazione alle prese con la Rivoluzione d’ottobre, la fine della Prima Guerra Mondiale e la seguente guerra civile, immersa in una crisi economica senza precedenti, si trovò proprio nel teatro e per opera di artisti straordinari come Stanislavskij, Mejerchol’d, Vachtangov, Ejsenstein, Tairov, un luogo dove immaginare un futuro e un mondo. E il pubblico non mancava perché sapeva di poter trovare in mezzo a tanti drammi un luogo dove tutto poteva essere ripensato. E poi durante l’Olocausto il teatro accompagnò gli ebrei nei campi di sterminio, non solo ad Auschwitz, ma a Dachau, Theresienstadt, Sachsenhausen, Malines, Westerbork. In quasi ogni campo i prigionieri, immersi nel più grande male che l’uomo abbia commesso, trovavano conforto nel teatro, e questo proprio laddove non avevano niente, nella più assoluta fragilità. Da ultimo le ricordo che nella città di Sarajevo assediata i teatri rimasero aperti e frequentati nonostante i bombardamenti e i cecchini cetnici e questo perché, caro ministro, fin dalle origini dell’Occidente, all’alba radiosa della grecità, il teatro è stato il luogo primario della nascita dell’agorà, dove la comunità si riuniva per metabolizzare le crisi che la attraversavano.

Necessari il teatro e la danza lo sono, come vede, fin dal principio, e li troviamo presenti nei luoghi di maggior dolore e complessità della storia recente. Questa necessità Signor Ministro la può constatare non tanto nei teatri stabili o dei teatri lirici, ma soprattutto delle piccole realtà, quelle di periferia e di provincia, spazi in cui si ritrova spesso la vita socio-culturale delle comunità. Gli artisti della scena sono presenti, infatti, nei presidi culturali di tutte le città italiane nel lavoro indefesso e costante con le categorie più deboli: con i malati, gli anziani, i giovani, i carcerati, gli immigrati. Vuole veramente dirci, signor ministro, che questo lavoro sia inutile o sacrificabile per la società? Non le pare piuttosto che in questo drammatico frangente della storia nazionale, avere un luogo dove poter riflettere, metabolizzare, rielaborare, tutto quanto ci sta accadendo sia invece salutare per lo spirito e le menti della cittadinanza tutta? Il teatro è un luogo sicuro perché l’intero comparto ha cura dei propri spettatori, parte fondamentale del processo creativo, specchio in cui riflettere e rifletterci, senza i quali la nostra arte non avrebbe senso di esistere. Il teatro è necessario perché è una delle cellule base su cui è costruito il corpo sociale e dove, a ogni rappresentazione, si ricostruisce simbolicamente tale corpo. Far mancare l’ossigeno a questa cellula mette a grave rischio l’intera nostra comunità nazionale.

Signor Ministro chi le scrive sa che le parole spese saranno probabilmente inascoltate, che voci più autorevoli della mia verranno ignorate sotto la bandiera della salute pubblica, ma rammenti, la prego, che non di solo pane vive l’uomo, che il nutrimento dello spirito e delle menti è necessario come l’aria che si respira. Certo il teatro non morirà oggi, non per la sua serrata, essendo sopravvissuto a millenni di sciagurata storia umana, ma certo la maggior parte di chi oggi si occupa di quest’arte meravigliosa sarà costretta a immensi sacrifici, molti dei quali si dimostreranno inutili, e molti si troveranno costretti non solo a sospendere, ma a chiudere la propria attività e da questo deriverà una desertificazione culturale di interi quartieri e territori. Avremmo sperato che lei Sig. Ministro si battesse per le categorie di cui il suo Ministero avrebbe dovuto occuparsi. Invece l’intera categoria si sente abbandonata perché Lei non ha nemmeno preso in considerazione la profonda necessità del nostro operare in seno alla comunità. Ci ha considerati inutili e superflui. Per questo, la prego, si dimetta e faccia come i nobili comandanti che affondano con la nave loro affidatagli, condivida così almeno simbolicamente i nostri non piccoli sacrifici.

Biennale Teatro

BIENNALE TEATRO 2020: CHIAROSCURI VENEZIANI

Si è concluso in questi giorni il quarto atto della Biennale Teatro sotto la direzione di Antonio Latella. Dopo aver posto l’accento sulla regia femminile (primo atto), sulla questione: attore o performer? (secondo atto), infine sulla drammaturgia (atto terzo), Latella quest’anno ha voluto dedicare tutta la sua attenzione al teatro italiano, costruendo, e usiamo le sue parole, una sorta di “Padiglione Italia”.

Il titolo di questa edizione del Festival era Nascondi(no) a evocare due aspetti: da una parte il nascondimento di tanto teatro italiano, soprattutto nei confronti dell’estero (ma anche in casa propria aggiungerei), dall’altro una certa idea di censura, direi piuttosto cecità selettiva, in cui gli occhi degli operatori vedono solo un certo tipo di scena. Antonio Latella del nascondino evoca perciò l’aspetto giocoso del direttore che “fa la conta” prima di andare alla cerca degli artisti nascosti.

Pensiero lodevole ma il direttore, come chiunque si trovi nella sua posizione, vede ciò che vuole vedere, osserva lo spicchio di realtà che in fondo, consapevolmente o meno, predilige. È la responsabilità della direzione: scegliere uno o più idee di teatro che si reputa essere di particolare interesse nel momento storico in cui si vive, o che pare preannuncino tempi e modalità innovative. E così ha fatto Antonio Latella. Ha scelto, e non certo i “nascosti”, non i “sommersi” sebbene non certo i “salvati”. Anzi in alcuni casi possiamo tranquillamente parlare di sovraesposizione e non certo di nascondimento (per esempio il caso di Leonardo Lidi, Babilonia Teatri, Liv Ferracchiati e Fabiana Iacozzilli che in questi ultimi anni sono stati decisamente e meritatamente sotto i riflettori). Se si voleva veramente cercare il nascosto, secondo l’opinione di chi scrive, si doveva guardare altrove, ma si parlava di scelte e queste di certo sono state compiute con coscienza, serietà e trasparenza.

Altro luogo in cui si denota da parte del direttore una scelta precisa è laddove ha chiesto ai partecipanti di creare i loro lavori senza pensare al contesto distributivo. Un ricercare dunque una libertà creativa, spesso negata dai paletti inseriti nei bandi di finanziamento pubblici e privati e dal contesto stesso che tende a chiudere la visione entro confini ben precisi con parametri che si pensa accontentino lo spettatore o l’abbonato, molto più spesso gli stessi operatori. Quella che potremmo chiamare censura di sistema, per tornare al tema principale. Dietro questa libertà vi è però un pericolo insidioso: creare un’opera svincolata dal contesto produttivo e distributivo, può portare a molti nascondimenti proprio perché il mercato attuale, in modalità iperproduttiva da anni, non è in grado di assorbire tutte le nuove creazioni. Questa libertà rischia dunque di alimentare proprio quel sistema di “censura” che si vuole evitare. E il rischio è forte. Alcuni dei lavori presentati dovranno aspettare mesi prima di una ripresa e quindi l’esordio veneziano rischia di essere un isolato fuoco d’artificio. C’è da chiedersi dunque se veramente ci si possa permettere di ignorare le leggi vigenti di un sistema produttivo ipercapitalistico che non si intende mettere in discussione, restandone all’interno. Sembra piuttosto un episodio di voluta cecità, un volersi dimenticare per un momento dell’esistenza di un regime costrittivo e limitante. I giovani autori però se lo possono veramente permettere? Non sarebbe invece il caso di mettere in questione tale regime chiedendone a gran voce la revisione e mettendo in cantiere delle proposte alternative?

La grande vitalità del teatro italiano più volte evocata da Antonio Latella sembra invece qualcosa di simile gli spasmi di un malato che, come diceva Dante: “non può trovar posa in su le piume,/ma con dar volta suo dolore scherma”. Questi mesi hanno fatto emergere una volta di più la terribile fragilità e precarietà del teatro italiano, instabilità di certo non causata dal Covid, ma presente nell’ossatura del sistema da decenni. La mancanza di una storicizzazione della ricerca italiana nel corso degli ultimi quarant’anni è sotto gli occhi di tutti. Quanti gruppi sono sopravvissuti dagli anni ’90? e dai 2000? quanti sono diventati dei “maestri” tanto da passare la loro esperienza alle più giovani generazioni favorendo quel lavoro di bottega tanto necessario al teatro? E il metodo invalso da anni degli under 35 non ha favorito proprio l’elezione prima e decapitazione poi di molti artisti giunti alla fatidica data? Come può esserci vera vitalità in un tale contesto di spaesamento e di contrasto generazionale? Non è che la vitalità nasconda invece le poche, insufficienti e macchinose tecniche di rianimazione messe in campo? E il pubblico come rientra in questa equazione? Cosa stiamo condividendo con coloro che chiamiamo in teatro?

Queste le molte domande sollevate dalla Biennale Teatro a cui ci troviamo a dover dare risposta in tempi brevi prima che l’incertezza e instabilità recati in dono dalla presente pandemia non renda i problemi insolubili.

Veniamo ora alle opere visionate durante le giornate veneziane che, tra luci e ombre, hanno saputo darci un’immagine, seppur parziale, del nostro teatro attuale.

Liv Ferracchiati La tragedia è finita Platonov La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Innanzitutto Liv Ferracchiati con il suo La tragedia è finita, Platonov (menzione speciale Biennale 2020) dove un giovane autore, regista e interprete ha saputo dar prova di una sua raggiunta maturità. Il confronto con il grande incompiuto di Anton Cechov si sviluppa attraverso un sottile e ironico confronto a prima vista metateatrale, tra il lettore e i personaggi. In realtà in gioco c’è il contraddittorio tra il proprio presente e il contesto passato evocato dalla vicenda di Platonov, in cui aleggia la domanda: come abbiamo potuto disperderci? Dove sono finite le nostre potenzialità? Così il destino di Platonov diventa non solo del lettore, o di Amleto, ma il nostro, di persone divorate dall’incapacità di agire in maniera veramente efficace, che si disseminano come stille d’acqua in arido terreno. Il testo elaborato da e per la scena da Liv Ferracchiati è poetico, ironico con venature tragiche e melanconiche, e si nutre e partecipa dell’abbondanza dell’originale cechoviano e necessiterebbe forse di un leggero ridimensionamento. Più incerta seppur nella solidità dell’impianto e solo in confronto alla dirompente forza drammaturgica, la resa scenica, dove il movimento, lo spazio e il tempo, così come il corpo attorico sono a volte compresse dalla sovrabbondante presenza della parola (notevole comunque la scena delle donne di carta, così come efficace il duello finale tra Platonov e il lettore). Ferracchiati è ora un artista maturo, con un chiaro progetto di scena e un solido impianto concettuale tale da far emergere con adamantina limpidezza le intenzioni del suo teatro arguto e intelligente.

Prova di maturità anche per Giovanni Ortoleva con I rifiuti, la città e la morte di Reiner Werner Fassbinder. Ortoleva dopo Oh, little man, e il Saul al debutto in Biennale Teatro proprio l’anno scorso, porta sul palco del Teatro Piccolo Arsenale una regia di grande respiro, che ricorda non solo lo stesso Latella ma un’Ostermeier prima maniera, e capace di far trasparire la poesia violentemente tenera dell’autore tedesco attraverso una recitazione che oscilla tra teatro epico e intimismo mimetico. Questo movimento di entrata e uscita dal mondo perverso evocato dal testo di Fassbinder, avviene con leggerezza, senza forzature, utilizzando tutti i registri della scena. I costumi pop e vintage, le musiche sempre segno e mai semplice tappeto sonoro (dal Lacrymosa del Requiem verdiano, ai corali di Hendel, alla musica elettronica), le luci a disegnare un paesaggio di forti contrasti emotivi, la presenza di attori capaci di dar corpo, con economia di gesti, alle potenti forze telluriche che abitano le parole e la vicenda. Giovanni Ortoleva è ora, nonostante la sua giovane età, un autore di comprovata solidità e maturità, pronto ad affrontare le prossime prove con autorevolezza, soprattutto se aiutato da un sistema che non sfrutti ma esalti le sue ormai chiare potenzialità.

Babilonia Teatri con Natura Morta prova a mettere in questione il travaso della nostra esperienza dalla realtà al virtuale del cellulare con un’opera che si svolge nella quasi totalità nel chiuso di un gruppo What’s up. I messaggi e le questioni che portano bersagliano il pubblico con violenza, costringendolo a farne i conti in uno spazio privo di illuminazione con l’eccezione delle luci degli smart phone. Un problema tecnico di rete ha interrotto lungamente l’esecuzione del processo. La risoluzione del disguido porta all’apertura della chat invasa ora anche dalle risposte del pubblico, a volte ironiche più spesso infastidite e subito censurate. Il progetto, per quanto chiare ne siano le intenzioni di interpellazione politica e civile su questioni scottanti, appare però un poco pretenzioso, chiuso nella sua volontà assertiva e moralistica. È come se da parte degli autori vi sia la certezza di essere dalla parte giusta della barricata. Inoltre per quanto chiaramente si metta in discussione la dipendenza da virtuale ormai acquisita, il progetto rimane ingabbiato proprio dall’incapacità di porci nella possibilità di reagire, di creare un vero dialogo, e il pubblico rimane così costretto nella parte del ricevente passivo.

Leonardo LidiLa città morta La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Passo indietro per Leonardo Lidi al confronta con un riadattamento di testo dimenticato di Gabriele D’Annunzio, La città morta. Il pubblico si trova di fronte a una gradinata da stadio americano in un’atmosfera alla Greese. Per quanto si comprenda chiaramente la volontà di calare l’opera in un mondo defunto e trapassato, la scelta appare un poco stucchevole più che veramente significante. L’impianto registico è quanto mai tradizionale, dove le trovate sceniche si ispirano a un pop trito e ampiamente sfruttato che ricorda molto la “locura” tanto ben descritta dalla serie Boris: conservatorismo con un poco di pazzia. Ci si aspettava di più da un ragazzo che con Gli spettri e Lo zoo di vetro aveva pur dato prova di una complessità compositiva di maggior respiro.

Leonardo Manzan con Glory Wall (Premio miglior spettacolo Biennale 2020) prova a giocare con il tema della censura proposto dalla Biennale Teatro mettendolo in discussione. Ci si trova davanti a un invalicabile muro bianco, pagina su cui inizia il discorso si di esso proiettato: se lo spettacolo fosse veramente sulla censura, essa dovrebbe intervenire e proibirlo, visto che non succede è un controsenso parlare di censura; ma perché poi dovrebbe intervenire la censura visto che del teatro non importa niente a nessuno? Il muro diventa quindi un’autocensura, ma anche strumento di piacere (da qui il riferimento alla pratica sessuale), poi lapide su cui grandi censurati come Pier Paolo Pasolini, De Sade e Giordano Bruno discutono sul tema con le voci di persone tra il pubblico. Così di numero in numero si arriva all’intervista finale in cui l’artista cerca di radicalizzare la messa in questione del sistema teatro. Benché l’ironia del lavoro e molte trovate siano efficaci, questo gioco di critica appare di maniera, leggermente ruffiano, più strappa applausi che vera interpellazione su un tema di politica culturale. Soprattutto riprende operazioni simili già attuate nel passato (per esempio da Cattelan) ma con altra efficacia. Se è infatti vero che gran parte del teatro ha perso presa ed effetto sulla realtà, è anche vero che dirlo dal palco della Biennale, senza provare ad attuare una vera azione di contro tendenza generale, restando in posizione di scherzosa critica, appare ancora meno energico e utile. È un gesto che sa di rinuncia più che di ribellione.

Leonardo Manzan Glory Wall La Biennale di Venezia / ©Andrea Avezzù

Luci ed ombre quindi in questi debutti alla Biennale Teatro. In alcuni casi forse sarebbe stato più saggio presentarli come studi, produzioni provvisorie, processi in fieri, piuttosto che lavori chiusi e finiti. Questo vale per molti ma soprattutto per Fabiana Iacozzilli (Una cosa enorme), il cui lavoro sembra risentire di due temi distinti e non ben amalgamati, la paura della maternità e la cura dell’anziano incapace di badare a se stesso, così come per Babilonia il cui processo di relazione con il pubblico avrebbe forse bisogno di ulteriori indagini e aggiustamenti. Molti di questi lavori poi avranno sicuramente e purtroppo problemi ad essere distribuiti, con il Covid a complicare ulteriormente il panorama. L’intento di sostenere il teatro italiano passa anche attraverso la creazione delle condizioni per la circuitazione e il sostegno del futuro dei progetti. Farli venire al mondo non basta. La vitalità, sempre che ci sia, va coltivata se no si inaridisce e presto muore.

Cortoindanza

CORTOINDANZA 2020: far crescere i germogli

Siamo malati di iperproduzione. Lo possiamo chiaramente constatare in questo settembre dove gli eventi si accalcano e sovrappongono come folla al black friday. Chi li ha contati è giunto alla incredibile cifra di centonovantacinque festival in questo solo mese. Una volta di più si constata quanto siamo tutti costretti a produrre, a dimostrare di fare per meritare fondi e sostegni. Diventa dunque sempre più pressante la domanda di Milo Rau: come possiamo parlare di libertà artistica?

In questo contesto frenetico, dove la scena è intasata di attori e mattatori alla ricerca d’aria e visibilità in proscenio, risulta difficile illuminare con il giusto taglio e intensità chi lavora in controscena. È un’impresa sempre più difficile far risaltare il lavoro alacre e discreto di chi si discosta o, per lo meno cerca di divergere, dalla comune foga produttiva senza cadere a propria volta nella furia della condivisione e della promozione social. Insomma in questo contesto iperproduttivo e ipercompetitivo come far emergere chi lavora sottotraccia, senza enfasi e retorica privilegiando altre parole chiave quali formazione, cura, etica, comunità?

Un evento dove queste caratteristiche sono protette e favorite è il Festival Cortoindanza, organizzato a Cagliari da Tersicorea sotto la direzione artistica di Simonetta Pusceddu e giunto, in questo complicato 2020, alla sua tredicesima edizione. Ogni anno il festival seleziona un numero variabile di scritture coreografiche (quest’anno sette) da presentare a una commissione formata da coreografi, programmatori, critici (quest’anno ho avuto l’onore di farne parte), a cui viene chiesto, non di assegnare un premio al migliore, ma di valutare in che modo ciascun progetto possa essere valorizzato assegnando alla bisogna tutoraggi, residenze artistiche, produzione, circuitazione. Tale azione è possibile grazie alla rete Med’arte della Sardegna e del Bacino del Mediterraneo di cui fanno parte Twain Centro di Produzione Danza (Roma/Tuscania), Zerogrammi (Torino), Lavanderia a vapore (Torino) Festival ConformAzioni (Palermo), Fondazione Fabbrica Europa, Certamen Coreográfico de Madrid (ES), Café de les artes Teatro de Santander (ES), Project Insomnia de Granada (ES), Cie Héliotropion (FR).

L’azione e l’attenzione di Cortoindanza e della commissione è rivolta a creare un percorso personale per ciascun lavoro e per ciascun artista su un periodo di un anno al termine del quale ritrovarsi e scoprire le evoluzioni, stabilire se il cammino formativo è stato utile, quale criticità sono state risolte, verificare insomma l’efficacia delle azioni prodotte. Il processo decisionale della commissione è complesso e passa da numerosi stadi, alcuni dei quali ripetuti più volte (per esempio le visioni dei lavori), in cui il dialogo e il confronto con gli artisti sono il nucleo principale. Tutto ciò è necessario per individuare per ciascun lavoro il giusto sostegno.

L’attenzione e la cura investiti in questo percorso valutativo e formativo voluto da Cortoindanza e da Simonetta Pusceddu spingono a condividere una serie di riflessioni utili forse a illuminare possibili prassi alternative nel sistema danza e teatro italiano.

In primo luogo la volontà di ricercare un dialogo costruttivo e non paternalistico con le nuove generazioni. Al primo posto quindi l’ascolto e non il giudizio, il mettersi a servizio più che imporre punti di vista. Nella pratica di valutazione questo si sostanzia, come detto, in visioni ripetute dei lavori, scambi di feedback e incontri singoli con gli autori al fine di individuare per ciascun lavoro il corretto e più utile supporto che, in forme diverse e personalizzate, viene a tutti garantito. Il festival diviene dunque un momento formativo non solo per i giovani ma per la commissione medesima in questo mettere a confronto esperienze, conoscere percorsi di vita e apprendere linguaggi.

Tale offerta formativa e umana è avvenuta nonostante le difficoltà oggettive del periodo (distanziamento, sicurezza e sanificazione), aggravate dalla sordità e inefficienza della politica. La Regione Sardegna ha infatti tagliato i fondi a Cortoindanza di quasi al cinquanta per cento mettendo fortemente a rischio la realizzazione del progetto. Inoltre le usuali location dal Teatro Massimo, al teatro di Selargius al T.Off, sono tutte venute meno per le condizioni dettate dalla pandemia, per cui è stato necessario individuare uno spazio all’aperto (un locale musicale l’INOFF) dove l’organizzazione di Cortoindanza si è spesa con estrema generosità per superare le carenze tecniche al fine di garantire a tutti i lavori in selezione le migliori condizioni possibili per l’incontro con il pubblico e la commissione.

Un secondo punto caratterizzante il progetto di Simonetta Pusceddu è l’accento posto su un’azione volta a sviluppare i suoi effetti in un tempo non misurato sull’istante. Tutti gli artisti selezionati ritorneranno in Sardegna a distanza di un anno dopo aver affrontato le varie tappe di residenza, crescita e formazione, un’altra volta a confronto, riportando al pubblico le proprie crescite e consolidamenti. Una cura contadina nel vedere crescere il germoglio, nel rafforzarlo perché cresca forte e rigoglioso. Tutto il contrario del commercio ipercapitalistico, dell’allevamento intensivo di talenti da immettere sul mercato e poi abbandonare una volta ottenuto lo scopo. La cura e l’attenzione al posto dello sfruttamento sistematico. È un punto di principio su cui sarebbe necessario riflettere a lungo soprattutto a paragone di eventi che producono, in un anno critico come questo, decine di lavori nuovi che non avranno alcuna possibilità di trovare un ambiente atto alla crescita e allo sviluppo. Pasolini diceva: “non si può trattare la poesia come merce” eppure tutto spinge in quella direzione. Simonetta Pusceddu e Cortoindanza cercano di opporre un’azione diretta nell’arco di un anno, periodo breve ma non brevissimo, su cui è possibile misurare uno sviluppo.

Ultima breve riflessione sul tentativo di superamento del concetto logoro e abusato di under 35. Da sempre chi scrive contesta il confine d’età, quel vallo Atlantico che separa la selva di opportunità dal deserto dei Tartari, privilegiando piuttosto una metodologia in uso in ambito cinematografico di opera prima e seconda, quindi più un avviamento all’indipendenza professionale che lo sfruttamento intensivo di un dato puramente anagrafico. A Cortoindanza l’età non è discriminante, sono i progetti a ricevere attenzione e l’eventuale percorso di accompagnamento diretto alla crescita e allo sviluppo.

Due parole in generale sui progetti. Tutti e sette si sono presentati con un buon livello tecnico e con idee piuttosto chiare e intellegibili. Emergono per la cura coreografica e l’immaginario creativo 752 giorni di Silvia Bandini e Ultimo Piano del duo Gasparetto/Pizziol. Tutti i partecipanti con grande generosità e umiltà si sono messi in gioco e in ascolto, condividendo pensieri, preoccupazioni e aspirazioni in questo momento storico di grande fragilità del sistema. I problemi maggiori concernono la drammaturgia e l’impianto scenico, fenomeno più che mai comprensibile rispetto ai tempi in cui viviamo, laddove i progetti si sono sviluppati in tempi di solitudine, contenimento e quarantena, ma comunque endemico degli ultimi anni. Si pensa più a cosa dire che a come dirlo anche perché spesso è difficile sperimentarne la tecnica da cui il linguaggio dovrebbe prendere il volo (ricerca corporea, illuminotecnica, audio, tempi di prova, utilizzo di piccoli o grandi spazi, etc.). La fase creativa è estremamente fragile, non supportata, non valorizzata. Si vuole dai giovani il risultato, si pretende che portino pubblico, non che possano sbagliare, utilizzare il tempo per cadere e apprendere a rialzarsi. Soprattutto a mancare è quel tempo necessario a elaborare una narrazione (stratta o concreta, intima o universale) che superi il momento dell’espressione di sé diventando un istante di messa in questione della realtà in comunione con lo spettatore.

Quello che è necessario ricostruire è dunque il rapporto con il pubblico, cosa condividere con la comunità che osserva. Anche questo aspetto non è una novità. La risposta non è la strategia di engagement, che pensa esclusivamente al successo numerico immediato e a tirar per la giacchetta il pubblico, quanto piuttosto l’impact to society, ossia come essere parte integrante di una comunità, con un ruolo e una funzione soprattutto oggi in cui viene a essere minato il valore politico e sociale della compresenza dei corpi, schiacciato da due opposte visioni, quella dell’estremo distanziamento e quella becera del negazionismo populista alla ricerca dell’indifferenziato di massa e non dell’individuale significativo e condiviso.

A conclusione di questo breve quanto incompleto racconto di un festival piccolo ma complesso come Cortoindanza di Simonetta Pusceddu vorrei riportare le parole di Georges Didi-Huberman: ”Per conoscere le lucciole, bisogna vederle nel presente della loro sopravvivenza, bisogna vederle danzare vive nel cuore della notte, anche se quella notte viene spazzata via da qualche feroce riflettore” questo spirito mi ha spinto a scrivere nonostante il mio coinvolgimento come commissario. In mezzo alla selva fitta e intricata dei mille eventi su cui tutti puntano i riflettori mi sembrava giusto, essendo stato testimone, di riportare l’occhio di chi non c’era su questa piccola ma poetica lucciola nel mondo della danza, sulla sua generosità e disponibilità, sulla sua volontà di far sbocciare i germogli, di averne cura e poi lasciarli andare sperando che crescano forti.

Cagliari 1 – 4 settembre

I progetti di Cortoindanza 2020:

“Ultimo piano” Giorgia Gasparetto, Priscilla Pizziol
”752 giorni” Silvia Bandini
“A faun” Chiara Olivieri con Carlotta Graffigna e Luca Ghedini
” Crisalide” Giovanni Insaudo, con Sandra Salietti Aguilera
”Origami” Sofia Casprini
” Sono solo tuo padre” Giovanni Leonarduzzi
” Accade” Chiara Bagni

Pergine Festival

PERGINE FESTIVAL: IL CORAGGIO DI RISCHIARE

Pergine Festival è una di quelle realtà solide e laboriose, capaci di vantare una lunga e robusta tradizione, rinnovata notevolmente nell’ultimo decennio sotto la direzione intelligente di Carla Esperanza Tommasini, e che, chissà come mai, resta ai margini dei Grand tour festivalieri estivi. Eppure vi si respira una atmosfera sincera, profonda, in cui è possibile il dialogo e il confronto, quello che si prende il suo tempo, senza la fretta di correre al prossimo appuntamento. È possibile intessere relazioni durevoli in questo ecosistema capace di lasciar spazio all’accadere, seduti in tranquillità ai tavolini del caffè della piazza del Municipio, con l’ospitale e caloroso staff del festival, con gli artisti che hanno tempo di chiacchierare e raccontare i loro lavori e aspirazioni. Tutto è a portata di mano, umanamente rispettoso di un fruire non consumistico e frettoloso. Ogni opera presentata ha il suo spazio di decantazione prima della successiva, e il programma non è mai troppo fitto da obbligare lo spettatore a gargantuesche scorpacciate.

Quest’anno però le condizioni erano più avverse, in un distanziamento che raffredda, impedisce il ritrovarsi, di fronte al quale si può decidere come comportarsi: far finta di niente, fingere che tutto sia come prima, oppure reagire, rispondere a tono, proporre delle modalità. Pergine Festival ha saputo offrire al suo pubblico un programma capace di regalare diverse possibilità di fruizione in questo tempo fuor di sesto dove i rapporti sono falsati per le persone come per le opere.

Trickster-P Book is a book is a book Ph:@Giulia Lenzi

Dei cinque lavori a cui ho potuto assistere nei due giorni in cui sono stato a Pergine due erano in visione classica frontale e non interattiva (Sul rovescio di Claudia Caldarano, e Umani sognano leoni elettrici di S.EE – Serena Dibiase), uno itinerante (Forastica di Martina Badiluzzi), un’istallazione interattiva e immersiva (Book is a book is a book di Trickster-P), un processo condiviso (Radio Olimpia. Bomba libera tutti di Collettivo MMM). Un esperire possibilità e rapporti tra lo sguardo e l’opera, quest’ultima sempre ibrida sul confine tra i linguaggi, nella maggior parte processi più che prodotti, testimonianze di un percorso di lavoro piuttosto che oggetti preconfezionati per tutte le occasioni.

Da questo punto di vista di particolare rilevanza il progetto degli svizzeri Trickster-P, la cui proposta porta il pubblico in un ambiente a cavallo tra istallazione e performance, un luogo silenzioso in cui confrontarsi con un oggetto quale il libro, di per sé foriero di evasioni, immaginazioni, riflessioni dentro e fuori di sé. Si entra in uno spazio geometrico, occupato da tavoli, quasi banchi di scuola, dove sono posti un libro, una lampada, una torcia, delle cuffie, un equalizzatore per il volume. Gli artisti sono alle nostre spalle. Ne sentiamo la presenza e la voce in cuffia, ma sono fuori dalla visuale. Il nostro sguardo deve profondarsi nel libro pronto a rivelarsi un labirinto come Rayuela di Julio Cortazar. Un gioco del mondo, tra mappe, immagini, sensazioni, connessioni improvvise tra cose inaspettate. Si sfoglia il libro, si ascolta il racconto che giunge all’orecchio come di lontano insieme a suoni che richiamano le immagini con in uno specchio tra i sensi, e ci si lancia in un viaggio il cui esito è per ciascuno differente. Alla fine ci si risveglia come da un sogno ad occhi aperti, ricchi di una mappatura in un territorio imprevisto, persi e ritrovati, uguali e diversi.

Interessante il presupposto di Radio Olimpia. Bomba libera tutti di Collettivo MMM, progetto vincitore del bando Open a sostegno della creazione contemporanea per lo spazio pubblico promosso in rete da Pergine Festival con Zona K di Milano, Giardino delle Esperidi Festival di Lecco, Indisciplinarte di Terni, Periferico Festival di Modena e In/visible cities di Gorizia.

Collettivo MMM Ph:@Giulia Lenzi

Collettivo MMM prova a costruire un evento performativo ludico in cui si affrontano diverse squadre formate tra gli abitanti del luogo, ognuna con il suo inno e bandiera come nei famosi Giochi senza frontiere. Attraverso vari dispositivi elaborati a partire da storiche performance e Happening di artisti quali Allan Kaprow o Gino De Dominicis, le squadre e il pubblico sperimentano possibilità creative, modalità di pensiero, azioni patafisiche. Vi è poi il ruolo della radio, non solo in funzione di narratore e connettore ma, nelle intenzioni, come modalità di espansione e diffusione dell’esperienza. Il dispositivo di Radio Olimpia. Bomba libera tutti benché presenti aspetti di grande interesse, soprattutto per le sue possibilità applicative in luoghi non teatrali e con pubblici diversissimi, necessita, a mio modo di vedere, di ulteriori aggiustamenti e raffinazioni, soprattutto evitando il teatrale o il mimetico e il rischio conseguente di scadere nell’effetto buffonesco fine a se stesso, concentrando l’attenzione sulle regole del gioco e sul gioco stesso come modalità di interazione del pubblico con esperienze artistiche storicizzate.

Forastica di Martina Badiluzzi, vincitrice della terza edizione della Biennale College e il cui The Making of Anastasia debutterà alla prossima Biennale Teatro, è un racconto itinerante ispirato a Orso, romanzo di Marian Engel. Forastica è un viaggio di trasformazione mediante il quale una donna si spoglia dei condizionamenti imposti dalla società, riconquistando il suo corpo e la sua anima e affrontando anche gli aspetti più crudi dello stato di natura. È un abbandonare la città e un ritorno ad essa dopo aver esperito il naturale nei suoi aspetti anche bestiali, un naturale che chiede di essere vissuto senza vergogna. La modalità della passeggiata nel bosco è stato in questa ripresa molto sfruttata da artisti e festival, spesso come semplice via di fuga dalla gabbia delle imposizioni senza veramente indagare le possibilità offerte dal mezzo scelto. Nel caso di Martina Badiluzzi trovo che nonostante la semplicità dell’impianto registico e narrativo abbia cercato sinceramente di condividere l’esperienza raccontata con il pubblico. Non si è limitata a riferire una storia nel bosco, ma ha cercato, attraverso la buona interpretazione di Federica Rossellini, di farci vivere il percorso narrato.

Federica Rossellini in Forastica di Martina Badiluzzi Ph:@Giulia Lenzi

Da queste poche note su alcuni eventi proposti da Pergine Festival si può comprendere come la direzione abbia cercato di proporre al suo pubblico, non un palinsesto abborracciato che facesse passare la nottata, quanto abbia cercato piuttosto di proporre una serie di esperienze significative volte a creare uno sguardo che ricostruisse una comunità e questo nonostante i limiti imposti dalle regole di contenimento e prevenzione. Tentare non vuol dire riuscire, significa piuttosto tendere, così come non riuscire non vuol dire fallire. Dobbiamo toglierci dalla mente l’idea di risultato raggiunto attraverso un progresso infinito crescente. Quest’anno era difficile e impossibile per tutti, senza alcuna certezza, con i fondi in bilico, ricalendarizzando gli eventi in un contesto di confusione in cui ciascuno ha corso per sé e la politica sul territorio non ha certo dato il meglio. Pergine Festival ha tentato di proporre in queste condizioni avverse un programma coerente con il suo progetto, coinvolgendo artisti che generosamente si sono messi in gioco e hanno cercato il rapporto con il pubblico senza spocchioserie intellettualistiche. Credo che oggi questo sia quanto di meglio avremmo potuto sperare da un festival di arti performative e dagli artisti che lo hanno abitato.

Kollaps

IL MULINO DI AMLETO: KOLLAPS DI PHILLIP LÖHLE

Kollaps di Phillip Löhle in prima nazionale al Teatro Carignano di Torino per la regia di Marco Lorenzi e Il Mulino di Amleto è un atto di immersione. Si trattiene il fiato e si entra in un ambiente in cui verremo bombardati da pressanti domande a cui prima o poi, ciascuno nel proprio privato, dovremo provare a dare delle risposte.

Si comincia così, con queste parole: «La civiltà si nutre della nostra repressione imponendo all’individuo sacrifici sempre maggiori». È una citazione di Herbert Marcuse da Eros e civiltà. Poi ci viene raccontata una storiella, quella del pollo che viveva felice e ben nutrito nella fattoria, contento che la sorte gli avesse affidato un buon contadino pronto a prendersi cura di lui. Poi arriva il giorno del macello e il pollo capisce di aver frainteso. Morale della favola: durante non si capisce. Solo alla fine ci si trova faccia a faccia con la verità, quella che consapevolmente o meno abbiamo ignorato di vedere.

Kollaps ph: @Andrea Macchia

La situazione è simile a La parabola dei ciechi di Bruegel, una delle immagini più sconvolgenti della storia dell’arte. Sei ciechi camminano in fila indiana appoggiandosi uno all’altro lungo un sentiero diretto a un nero fosso. Il primo già cade nell’abisso, il secondo avverte lo scivolare e sul suo viso si disegnano i tratti dello spavento generato dalla consapevolezza, ma è il terzo il più inquietante, quello che cammina fiducioso, quello che ignora.

Philipp Löhle ci regala qualcosa di più di Bruegel: ci racconta non solo la caduta nell’abisso ma anche l’emersione. I ciechi riemergono ciechi, benché resti il ricordo di un evento catastrofico. Si prova a cancellarlo, a rendere testimonianza, persino ignorarlo ma non è possibile metabolizzarlo, il ricordo permane e rende tutto insipido, decolorato, come fossero passati i langolieri di Stephen King. Eppure, nonostante questa perseveranza, non si procede alla messa in questione del sistema che ha condotto al crollo. Si continua, si persiste nella cecità. Si fa solo finta di niente senza crederci troppo. E non è questa la nostra situazione? Non stiamo noi facendo lo stesso nel voler tornare a quel “come prima” causa della situazione attuale?

Questi sono gli eventi di Kollaps; il racconto del fatidico giorno in cui il mondo finì, e il resoconto di quanto avvenne dopo, quando tutto ricominciò e si provò a far finta di niente senza veramente riuscirci. Si raccontano le reazioni immediate allo spaesamento di fronte al venir meno del manto rassicurante della civiltà, insieme alle scuse meschine volte a giustificare l’ingiustificabile. La questione è di quelle imprescindibili, riguardo alla quale bisogna quanto meno interrogarsi se non prendere partito, scegliere da che parte stare e cosa fare dal momento in cui essa giunge alla coscienza.

Si potrebbe pensare che tutto questo abbia a che fare con la pandemia e sarebbe un grave errore. Il testo di Philipp Löhle è del 2015 e il collasso di cui si parla è affine a quello descritto da Jared Diamond nel suo Collasso. Come le società scelgono di vivere o morire. Si parla del crollo di una civiltà per aver scelto consapevolmente di negare a se stessa la visione dei segnali di pericolo, di aver fatto insomma come gli abitanti dell’Isola di Pasqua: tagliare l’ultimo albero ben sapendo che non ne sarebbero cresciuti altri. Si parla di risorse, del loro utilizzo, del loro sfruttamento e delle conseguenze di una visione volta all’auto-accecamento. Quello di cui si parla è la cecità di Elias Canetti, quella che porta all’autodafé. Ovviamente il contesto risemantizza l’argomento ma la domanda sottesa al testo e al lavoro scenico de Il Mulino di Amleto e di Marco Lorenzi è un’altra.

Potremmo porla così, con le parole di Emanuele Severino: «Si comincia a prestare attenzione all’abissale impotenza della civiltà della potenza. Si comincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?»

Il mulino di Amleto Ph:@Andrea Macchia

Questa domanda è stata posta non solo mettendo in scena le parole scritte da Philipp Löhle, ma utilizzando i mezzi e le funzioni proprie del teatro. Il luogo innanzitutto, come diceva Mejerchol’d. La scena come agorà dove il pubblico non è un numero da mettere in conto alle presenze e alla statistica quanto piuttosto un estratto di quella società di cui si fa parte e che si ritrova qui e ora, di fronte alla rappresentazione, per mettere in questione il reale, trovare una cura alle ferite, provare ad afferrare un senso sfuggente come un’anguilla.

La scena in secondo luogo, dove non si assiste al riferito, al rimasticato, dove ciò che si vede non è solo la messa in immagini di quanto scritto, ma è voce in contrappunto, colma di toni, ritmi e voci assonanti/dissonanti, ironiche e tragiche, squallide seppur meravigliose nella loro nettezza, dove i linguaggi dialogano e si scontrano, dove i corpi incarnano, dove i quadri ci scuotono per quanto ci interrogano. specchi che rimandano ad ognuno un’immagine di sé insospettata o volutamente ignorata. Questa scena parla a tutti, non agli spettatori professionisti, ai patiti e agli ossessi del teatro, ai critici e agli addetti ai lavori, parla a chiunque, con la forza di un maglio che sbatte sull’incudine.

Kollaps Ph:@Andrea Macchia

Non mancano i difetti. Vi sono degli eccessi, gesti inutili, ridondanze, personaggi a volte sopra le righe, ma in questo materiale sporco, forse persino un poco grezzo, generato dai pochi giorni di prova concessi da un sistema produttivo incapace di sostenere la vera ricerca, risalta e si illumina la forza devastante del teatro, quell’energia cercata da Artaud, quelle idee più forti della fame tanto da ricordare che il cielo può caderci in testa a ogni istante e dove l’attore è colui che fa segni tra le fiamme.

Questo è teatro nella sua forma migliore, quella che tendiamo a dimenticare. Una forza che resiste sotto le ceneri dell’enterteinment, delle politiche scellerate, degli inutili presenzialismi, dei prodottini da catena di montaggio, uguali a se stessi e senza nulla da dire. Fortunatamente qualcuno ogni tanto rinfocola la fiamma e permette di vedere il teatro nella sua manifestazione più potente. Questo è il merito principale di Marco Lorenzi e de Il Mulino di Amleto: aver provato a mettere in discussione il nostro modello di società in questo momento difficile, di smarrimento dell’arte teatrale, dove i più si sono affannati a ricominciare come prima alimentando un insensato milieu produttivo-distributivo volto all’eccesso e al consumo. Tentare non vuol dire riuscire, ma vuol dire tendere. Questa è la strada su cui si sono incamminati Marco Lorenzi e il suo Mulino, non come ciechi ma come artisti consapevoli dei propri mezzi e delle funzioni dell’arte da loro scelta. E questo già il giorno prima del collasso, quando i molti dormivano o si lamentavano inutilmente.

Scena Madre

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A SCENA MADRE

Per la cinquantatreesima e ultima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Marta Abate e Michelangelo Frola di Scena Madre. Con questa di oggi si conclude Lo stato delle cose, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Scena Madre è un gruppo che nasce in Liguria nel 2013 da un’idea di Marta Abate e Michelangelo Frola. Nel 2014 vince il Premio Scenario Infanzia con La stanza dei giochi. Tre è il loro ultimo spettacolo.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La caratteristica più importante della nostra creazione scenica è forse la PRESENZA, intesa in diversi significati.

  • La presenza fisica, gli uni di fronte agli altri. Se pensiamo ad esempio a TRE, la nostra ultima produzione, individuare il cast non è stato semplice anche per questo motivo, perché è stato lungo il processo attraverso il quale trovare 3 performer con una certa presenza scenica che stavamo cercando, e la cui presenza trovasse un equilibrio con quella degli altri due. Non è nemmeno tanto semplice da spiegare, ma l’idea è che ogni persona, attraverso la propria semplice presenza scenica, sia portatrice di un linguaggio unico, una vera e propria lingua. Dunque con 3 persone in scena ognuna parla una lingua diversa, ognuna con la sua ricchezza. E il punto è fare sì che queste lingue diverse riescano in qualche modo a comunicare tra di loro, a trovare una modalità per comprendersi, ascoltarsi, parlarsi.
  • Essere presenti a se stessi. Viviamo ormai in una società dove possiamo essere contemporaneamente qui e altrove, perlomeno virtualmente. Posso essere fisicamente con te e parlare con te e allo stesso tempo, solo guardando il telefono, posso essere in decine di luoghi diversi con altre persone, a comunicare anche con loro. In un certo senso siamo in tanti luoghi contemporaneamente ma non siamo mai PIENAMENTE da nessuna parte, con tutti noi stessi. Questo per noi è molto importante, che chi è presente nella creazione scenica sia presente davvero, con tutto se stesso.
  • Essere qui e ora. Tante cose, nella nostra creazione, non avvengono perché preparate a tavolino ma proposte sul momento, nell’ascolto di ciò che sta avvenendo in quel momento. Non importa cosa è successo nelle prove il giorno prima, cerchiamo di ascoltare quello che sta succedendo in quel preciso momento.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Ovviamente il nostro punto di vista è quello di una piccola compagnia.

Servirebbero percorsi di accompagnamento nel medio-lungo periodo, che dessero alle compagnie una sicurezza un minimo duratura nel tempo. Residenze, bandi ecc. sono sicuramente opportunità ottime, ma di breve durata, non consentono una progettazione con un ampio orizzonte temporale. Tutto diventa quindi pensato per l’immediato o quasi, per il breve tempo concesso in questa opportunità-oasi. E terminata l’acqua dell’oasi? Si troverà un’altra oasi? Chi può garantirlo? E quanto dista la nuova oasi, quanto deserto c’è da attraversare? Chi ci accompagnerà? E quanta acqua troveremo là e a quali condizioni potremo berla?

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Sempre dal punto di vista di una piccola compagnia, sarebbe auspicabile una riduzione della succitata impermeabilità dei circuiti e che aumentasse (e di molto) il dialogo tra teatri stabili e realtà indipendenti.

In questo senso, la pratica degli “scambi” non aiuta certo la situazione, anzi. Diventa un muro di gomma impossibile da attraversare se non si hanno possibilità di scambio da mettere in gioco.

Sarebbe bello che gli operatori delle realtà stabili e affermate andassero più di frequente a visionare le produzioni indipendenti, che fossero più curiosi nei confronti di ciò che accade “fuori”, più aperti ad accogliere produzioni valide anche se provenienti da realtà poco conosciute.

Dal punto di vista delle azioni, vediamo tanti bandi di sostegno alla produzione, di ricerca di nuove produzioni, e pochissimi di sostegno alla distribuzione. Forse bisognerebbe partite da lì, dallo smettere di chiedere in continuazione nuove produzioni su nuove produzioni e si progettassero bandi per sostenere la circuitazione di produzioni già esistenti.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

Non sappiamo dire quale sia la “funzione” della creazione scenica nel mondo di oggi. Quello che però vediamo sono gli effetti sulle persone, sia chi vi assiste come spettatore di uno spettacolo sia chi vi prende parte attiva come partecipante a un laboratorio.

Quello che percepiamo, alla fine, è una sensazione intensa che è un misto di gioia, senso di appartenenza, soddisfazione, liberazione da un peso.

Come se in fondo ci fosse la consapevolezza che questo continuo legame tra offline e online non fa bene, non ci rende felici, non ci appaga, ma allo stesso tempo non fossimo capaci di staccarcene. Una sorta di dipendenza di cui percepisci gli effetti negativi ma da cui non riesci a liberarti.

Ecco, forse la creazione scenica, da spettatore e da performer, è un momento in cui riusciamo a essere liberi da questa dipendenza, questo tira e molla tra virtuale e reale. E sentiamo che ci fa bene, ci fa profondamente bene.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Per noi, il confronto con la realtà è fondamentale. È da essa che partono quasi tutte le nostre idee sceniche. Ma le uniche possibilità non sono per forza imitazione della natura o opposizione ad essa.

Per noi esiste anche la strada della rielaborazione, che è un partire dal sentiero della realtà e muovervi i primi passi per poi deviare e percorrere un sentiero tutto nuovo, a volte parallelo, ma ancora non battuto.

Gli strumenti per confrontarsi con il reale sono pochi e sempre gli stessi:

  • un grande ascolto e osservazione della realtà (sia a livello individuale del singolo comportamento sia a un livello più ampio di dinamiche sociali, tendenze della comunità) e di ciò che essa produce (prodotti culturali, artistici, politici, di informazione…).
  • Una buona dose di ironia, di capacità di sorridere di noi stessi e delle nostre incoerenze, goffaggini, piccole e grandi miserie.

È così, forse, che si può provare a cercare e creare poesia nella realtà, là dove poesia tante volte non c’è.

Daniele Ronco

LO STATO DELLE COSE: INTERVISTA A DANIELE RONCO

Per la cinquantaduesima intervista de Lo stato delle cose incontriamo Daniele Ronco. Lo stato delle cose è, lo ricordiamo, un’indagine volta a comprendere il pensiero di artisti e operatori, sia della danza che del teatro, su alcuni aspetti fondamentali della ricerca scenica. Questa riflessione e ricerca partita lo scorso dicembre crediamo sia ancor più necessaria in questo momento di grave emergenza per prepararsi al momento in cui questa sarà finita e dovremo tutti insieme ricostruire.

Daniele Ronco è attore e direttore artistico della compagnia teatrale Mulino ad Arte di Torino. Tra gli ultimi lavori svolti: Giulio Cesare regia di Daniele Salvo, Chaos-Humanoid B12 di cui ha curato regia e drammaturgia e Bea regia di Marco Lorenzi.

D: Qual è per te la peculiarità della creazione scenica? E cosa necessita per essere efficace?

La creazione scenica è una magia che si ripete ogni volta in cui un attore (parlo per la mia categoria) gioca con lo spazio e con le proprie emozioni, con l’intento mimetico di trasformarsi in qualcosa di diverso da sé. Creare è faticoso e implica un conflitto interiore per l’attore, in quanto un nuovo personaggio è come un bambino, con tutte le sue incertezze, ma che guardiamo con la consapevolezza di un adulto esigente e autocritico. Per creare qualcosa di efficace si deve da un lato avere un obiettivo ben preciso, uno scopo e contemporaneamente ci si deve mettere nei panni di chi ascolta, per non cadere nell’autocompiacimento. Un attore che sale su un palco lo deve fare per rispondere ad una domanda profonda e per lui dev’essere molto chiara la risposta. La creazione sarà il percorso che lo porterà a rispondere a tale domanda.

D: Oggi gli strumenti produttivi nel teatro e nella danza si sono molto evoluti rispetto solo a un paio di decenni fa, – aumento delle residenze creative, bandi specifici messi a disposizione da fondazioni bancarie, festival, istituzioni -, eppure tale evoluzione sembra essere insufficiente rispetto alle esigenze effettive e deboli nei confronti di un contesto europeo più agile ed efficiente. Cosa sarebbe possibile fare per migliorare la situazione esistente?

Innanzitutto potenziare le possibilità di internazionalizzazione, ma soprattutto si dovrebbe rendere più accessibile la formazione, favorire dei percorsi di accompagnamento alle compagnie per guardare all’estero come un interlocutore semplice e diretto con cui creare sinergie.

Guardando in casa nostra c’è un gravissimo problema di fondo, ovvero un riconoscimento troppo debole nei confronti di tutto il comparto cultura. C’è molta confusione e molta incompetenza da parte di molte amministrazioni pubbliche, con una potente ricaduta sugli artisti, che si trovano a doversi battere per essere ascoltati ancor prima di avere la possibilità di creare ed esibirsi.

D: La distribuzione di un lavoro sembra essere nel nostro paese il punto debole di tutta la filiera creativa. Spesso i circuiti esistenti sono impermeabili tra loro, i festival per quanto tentino di agevolare la visione di nuovi artisti non hanno la forza economica di creare un vero canale distributivo, mancano reti, network e strumenti veramente solidi per interfacciarsi con il mercato internazionale, il dialogo tra gli indipendenti e i teatri stabili è decisamente scarso, e prevalgono i metodi fai da te. Quali interventi, azioni o professionalità sarebbero necessari per creare efficienti canali di distribuzione?

Si dovrebbe creare un sistema di censimento degli spettacoli a livello nazionale, produrre un data-base sostenuto dal ministero dove far confluire gli spettacoli in maniera digitale con un format facilmente fruibile dagli operatori, che possono scegliere gli spettacoli con una semplice consultazione on-line, per poi approfondire i lavori di cui è interessato con un contatto più diretto. Alcuni tentativi in tale direzione sono già stati compiuti, ma a mio avviso si dovrebbe creare uno strumento istituzionalizzato che abbia una riconoscibilità e una credibilità indiscussa. Al omento la distribuzione è molto frammentata e schiava di diversi fattori: eccesso di offerta rispetto alla domanda, necessità che almeno uno degli artisti in scena sia popolare, difficoltà ad entrare nei circuiti dei teatri stabili se non si è a propria volta all’interno del giro ministeriale. Ma soprattutto, si dovrebbe fare un lavoro sul pubblico per sensibilizzarlo alla contemporaneità. Il nostro teatro ha bisogno di svecchiarsi, di vedere cose nuove. I giovani sono attratti dai temi che parlano della loro generazione. Se si sbaglia una volta con loro, si rischia di perderli per sempre.

D: La società contemporanea si caratterizza sempre più in un inestricabile viluppo tra reale e virtuale, tanto che è sempre più difficile distinguere tra online e offline. In questo contesto quali sono oggi, secondo la tua opinione, le funzioni della creazione scenica che si caratterizza come un evento da viversi in maniera analogica, dal vivo, nel momento del suo compiersi, in un istante difficilmente condivisibile attraverso i nuovi media, e dove l’esperienza si certifica come unica e irripetibile ad ogni replica?

La creazione scenica resta uno dei pochi strumenti arcaici per fare comunità ed è un motore di sviluppo sociale a cui non dobbiamo rinunciare se non vogliamo evolverci verso un mondo algido e fatto di rapporti virtuali. In questi mesi di lockdown si è toccato con mano quanto una società senza possibilità di aggregazione sia fragile e a forte rischio implosivo.

D: Con la proliferazione dei piani di realtà, spesso virtuali e artificiali grazie ai nuovi media, e dopo essere entrati in un’epoca che potremmo definire della post-verità, sembra definitivamente tramontata l’idea di imitazione della natura, così come la classica opposizione tra arte (come artificio e rappresentazione) e vita (la realtà intesa come naturale). Nonostante questo sembra che la scena contemporanea non abbia per nulla abbandonato l’idea di dare conto e interrogarsi sulla realtà in cui siamo immersi. Qual è il rapporto possibile con il reale? E quali sono secondo te gli strumenti efficaci per confrontarsi con esso?

Io sono un profondo sostenitore del teatro contemporaneo, vissuto come una profonda indagine della realtà. Credo che ci sia un legame a doppia mandata che lega il teatro al nostro presente. Il nostro presente ha bisogno del teatro tanto quanto il teatro ha bisogno del presente per continuare a vivere. La creazione scenica può sopravvivere se con onestà riesce a mettere in luce i temi cruciali del momento storico presente.

Ciascun artista, per dare un apporto in tale direzione, deve portare sulla scena i temi per cui sarebbe pronto a morire nella vita reale, quelli davvero urgenti per i quali fuori dal palcoscenico ogni giorno piange, si emoziona e combatte.